ANTIFONTE ('Αντιϕῶν, Antĭphon)
1. A. di Ramnunte. - Oratore e uomo politico ateniese, nato al tempo della guerra contro i Persiani (primo quarto del sec. V a. C.), in anno non determinabile esattamente. I primi rudimenti dell'eloquenza sembra glieli impartisse il padre stesso, il sofista Sofilo. Secondo il giudizio di Tucidide (tanto piú notevole per la sua abituale sobrietà nelle lodi), non fu secondo in bravura ad alcun Ateniese del suo tempo ed ebbe doti eccezionali d'ingegno e di eloquenza, che metteva soprattutto a disposizione di altri, che potesse valersene in contese politiche e giudiziarie (Tucidide, VIII, 68). Alla politica ateniese del suo tempo partecipò attivamente, come ardente oligarchico; e quando il governo dei Quattrocento si scisse in due tendenze, una moderata e una estrema, egli fu tra i capi di quest'ultima. Insieme con Frinico andò ambasciatore a Sparta per chiedere la pace a qualunque costo, purché fossa salvata l'oligarchia da una restaurazione democratica; e perciò, accusato poi di tradimento, fu, nonostante una brillante difesa, condannato e messo a morte (411 av. Cr.).
La sua figura non risalta meno per la sua importanza letteraria, che come quella del primo, in ordine di tempo, degli oratori attici. Spirito austero, aristocratico, di forti persuasioni, egli pose a servizio delle sue idee una dialettica acuta, congiunta a un fermo senso della realtà: non fu solo un oratore, ma un maestro d'eloquenza, che dovette tener scuola ad Atene, e un teorico dell'arte sua. Lo spirito attico, chiaro, acuto, pervaso dal senso della realtà, si rivela di subito in questo oratore ateniese, che sentì il valore dell'eloquenza giudiziaria, onde fu il primo a pubblicare discorsi di tale carattere. Del valore suo non testimonia solo l'opera rimastaci, la fama e il giudizio di Tucidide, ma anche l'influsso che egli ebbe su Tucidide stesso e sulla prosa oratoria seguente. Non scarsa fu la sua produzione, giacché nell'antichità correvano sotto il suo nome sessanta discorsi, venticinque dei quali, però, erano considerati apocrifi dai critici più avveduti, come Cecilio. Gli si attribuiva anche un'Arte retorica e una collezione di Proemî che, se autentici, proverebbero il valore che egli dava alla parte teorica del suo insegnamento. Oggi, oltre ai frammenti, rimangono di lui quindici orazioni, tutte di processi per omicidio: di queste, dodici, che vanno sotto il nome di Tetralogie, sono orazioni finte, fatte per esercitazioni dialettiche e oratorie, e comprendono tre gruppi di quattro discorsi, riferentisi tutti e quattro al medesimo processo, in modo che, in ogni gruppo, si abbia un discorso di accusa, uno di difesa, una risposta dell'accusa e una controrisposta della difesa. Oltre a questi dodici discorsi di carattere fittizio e retorico, ne possediamo tre realmente pronunziati in cause per omicidio: Accusa di veneficio contro una matrigna; Per il coreute; Per la morte di Erode. Pare che gli antichi non avessero sospetti circa l'autenticità delle tetralogie, che fu invece vivacemente contestata da vari critici moderni, senza che però si possa dire che le obiezioni contro la loro genuinità siano riuscite veramente e universalmente probative. Meno importanti, fra queste, sono quelle che si fondano sopra piccole particolarità lessicali e linguistiche, che potrebbero provare solo, se mai, differenze cronologiche o accidentali, mentre molto grande, d'altro lato, è la somiglianza stilistica, negli aspetti più veramente artistici e personali, fra le tetralogie e le tre altre orazioni, che sono certamente di A. Più importanti, invece, sono le obiezioni di carattere giuridico, che tuttavia non sono neppur esse tali da costituire una sicura prova della non autenticità. Minima importanza ha l'obiezione che il valore artistico di questi discorsi fittizî sia inferiore agli altri e che essi appariscano spesso sofistici e retorici. Si comprende, infatti, che questo doveva essere il carattere quasi inevitabile di tali esercitazioni scolastiche, a cui non poteva non mancare l'ispirazione della reale e immediata contesa giudiziaria. Ma, appunto come esercitazioni scolastiche, il loro valore è singolare per il tempo in cui furono composte e vi si rivela bene, conforme allo spirito dell'età della sofistica, la sottigliezza d'argomentazione, la dialettica serrata, il pensiero costante dell'applicazione possibile a un fatto reale, l'esperienza che l'oratore ha dei tribunali e del carattere dei giudici ateniesi, lo stile rapido e preciso, non senza nerbo e vigoria d'eloquenza.
Le vere qualità oratorie di Antifonte si rivelano però, com'è naturale, in più viva luce nei discorsi realmente pronunciati. Il più importante e più famoso è quello già ricordato, sull'uccisione di un tale Erode, che perì in modo incerto, in un viaggio fatto in compagnia di un cittadino di Mitilene, il quale dové perciò difendersi dall'accusa di aver ucciso il suo compagno. Processo indiziario e tortuoso, in cui meglio si rivelarono l'arte e l'esperienza dell'oratore. Arte che, per le qualità stilistiche, risente dell'influsso di Gorgia, il primo maestro di stile nell'età attica. La maggior originalità di quest'ultimo consisteva nell'aver dato l'esempio d'una prosa d'arte lavorata frase per frase, con artifizio sottile, senz'ombra di quell'ingenuità candida che è la grazia nativa e disadorna d'Erodoto. La nuda prosa, secondo l'estetica di Gorgia, doveva venire in gara con la poesia; priva di un ritmo scoperto, doveva crearsene uno più intimo, con l'opposizione sapiente d'uguali membri del periodo, con le rime, le allitterazioni, le consonanze volute, le ricche espressioni poetiche. L'antitesi euritmica era l'artifizio a lui più caro; e anche A. oratore se ne serve accortamente. I metodi di Gorgia non sono però più usati da A. soltanto per giuoco, come nell'eloquenza di apparato del retore siciliano; bensì vengono investiti di una nuova passione e d'una serietà reale, che ben rivela lo spirito attico e la nuova eloquenza, sorta dal duro ed efficace contrasto della lotta forense. È uno spirito acuto che parla, e distingue con precisione anche eccessiva: un aristocratico che cerca ritrarsi dall'uso del volgo con strutture proprie ed energiche. Egli vuole che la persuasione non venga solo dalle cose che dice e dai ragionamenti sottili, ma dallo spirito tutto della sua prosa, che chiude il pensiero in forme personali e recise, delle quali uno dei caratteri più frequenti e comuni alla prosa sofistica del tempo è l'antitesi stilistica, artifizio che però egli non usa a vuoto, come altri scrittori dell'età sua. Egli conosce bene i giudici e sa che il dubbio ha profonda presa su loro; quel suo stile sotteso ad alternative continue, di cui rileva la gravità, pare sottolinei con ritmo insistente l'arduo compito che chi deve giudicare si assume, e voglia indurre così i giudici a quella indulgenza che deriva dal dubbio. D'onde quel carattere drammatico, pieno di risalti e di concentrazione mentale, di tensione d'una volontà imperiosa, che s'infonde nei periodi e li imprime del suo energico spirito: carattere che A. ha comune con Tucidide, d'onde l'opinione antica che di Tucidide sia stato maestro. A tali pregi corrispondono però i difetti: una certa durezza, qualche oscurità d'espressione, e soprattutto l'impressione dell'artifizio, tanto meno conveniente in discorsi che dovevano essere scritti (secondo il costume dei tribunali ateniesi) per essere pronunciati dagli accusati stessi. A. infatti non sa spogliarsi, come poi quasi sempre Lisia, della sua personalità di scrittore; non è il logografo che riflette ingegnosamente l'anima semplice dell'imputato, il quale pronuncia il discorso da lui scritto. Fa dire egli a Erode d'essere ignaro e nudo d'eloquenza, in periodi complessi, lavorati da un artefice consumato. E come manca l'arte di rappresentare i varî caratteri nello stile, così pure embrionale è ancora quella delle narrazioni, in cui è maestro Lisia: nei discorsi di A. esse sono chiare, precise, ma mancano di una particolare grazia. Assai vigorosa invece e già pienamente scaltrita è l'argomentazione, fondata particolarmente sul criterio di probabilità, che è quello che può far più effetto sui giudici; e opportunamente trattati sono pure gli elementi giuridici e la perorazione, a cui aggiungono solennità opportuni tocchi religiosi e il richiamo alla santità della legge e al valore del giuramento prestato dai giudici. Di particolare interesse, per il suo valore politico e per la fama che, come vediamo dal giudizio di Tucidide, dovette avere nell'antichità, sarebbe per noi la conoscenza del discorso ch'egli pronunciò per difendersi nel processo ultimamente intentatogli per la sua partecipazione alla politica oligarchica. I frammenti desunti da un papiro egiziano e pubblicati dal Nicole nel 1907, se pure si accetta l'attribuzione ad Antifonte, che fu per altro da alcuni contestata, non aumentano che di poco le scarse testimonianze che se ne avevano, poiché i pochi periodi lacunosi che ce ne sono rimasti non bastano a darne un giudizio approfondito e sicuro. Vi si scorgerebbero tuttavia, a un dipresso, gli stessi lineamenti artistici che già conoscevamo dagli altri discorsi: la dialettica ingegnosa vi ha il maggiore rilievo. È assai probabile, a quanto possiamo ricavare da una citazione di Suida e da questi frammenti, che l'oratore stesso mettesse in rilievo il suo disdegno di servirsi dei comuni mezzi emotivi per suscitare la compassione dei giudici. Si prefiggeva invece, a quanto pare, una linea serrata di difesa, in cui avrebbe tentato di mostrare la purità delle sue intenzioni, non potendo negare la sua effettiva partecipazione ai fatti di cui era imputato.
La più recente edizione (che, tra i frammenti, comprende anche quelli di A. sofista, per i quali è però insufficiente) è quella, con apparato critico e trad. francese, di L. Gernet, Parigi 1913.
Bibl.: A. Croiset, Histoire de la littérature grecque, IV, Parigi 1900, p. 69 segg.; E. Bignone, Studi stilistici su Antifonte oratore e Antifonte sofista, in Rendiconti R. Istit. Lomb. di Scienze e Lett., LII (1913), fascicoli 16-18; F. Blass, Attische Beredsamkeit, I, 2ª ed., Lipsia 1887, p. 91 segg.; G. Pasquali, Antifonte, in Studi storici per l'antichità classica, II (1907), fasc. i, p. 46 segg.
2. A. sofista. - Che da A. di Ramnunte, l'oratore (con cui è spesso confuso dagli antichi), fosse da distinguere un A. sofista suo contemporaneo e autore di alcuni trattati, di carattere filosofico morale di cui abbiamo solo pochi frammenti (uno intitolato Sulla verità in due libri, l'altro Sulla concordia, il terzo Sulla interpretazione dei sogni, e il quarto, attribuitogli meno sicuramente, Il politico), era opinione che già si trovava nel grammatico Ermogene (sec. III d. C.), il quale si riferisce anche al giudizio anteriore di Didimo, che doveva avere più esattamente studiato la questione. Gli argomenti di Ermogene sono stilistici; ma sembra ve ne dovessero essere anche altri, che egli tace. E difatti la scoperta di due frammenti abbastanza estesi del primo trattato (l'uno di certa, l'altro di concorde attribuzione) non solo confermò che A. sofista si distingue dall'oratore per lo stile, ma provò anche che se ne separa nettamente per le opinioni politiche, giacché mentre l'oratore è un oligarchico e aristocratico fierissimo e risoluto, il sofista difende la tesi più audacemente democratica per i suoi tempi, cioè l'uguaglianza di tutti gli uomini per natura, greci e barbari, nobili e popolari, e la falsità e barbarie delle distinzioni sociali (Pap. Oxyrh., II, n. 1364, 266 segg.). Anche per qualche particolarità ortografica pare che i due A. si distinguano. A. sofista era finora a noi scarsamente noto attraverso un capitoletto dei Memorabili di Senofonte (I, 6, 1 segg.) il quale lo faceva disputare con Socrate, e a un'ottantina di frammenti, quasi tutti brevissimi. Le nuove scoperte lo pongono interamente in nuova luce e ne fanno una delle figure più interessanti della sofistica greca.
Notevolissimi sono i due frammenti papiracei, da cui appare che, se egli non fu un nuovo Callicle, o un anarchico, come si volle da alcuno, difese però l'ardita tesi (in cui si accosta al sofista Ippia e ad Alcidamante) non solo della convenzionalità e barbarie delle distinzioni sociali, ma anche della prevalenza del diritto naturale sopra quello legale e del carattere nocivo delle leggi e della prassi giudiziaria. Questa dottrina in lui si congiungeva con un utilitarismo e un edonismo fondamentale, in senso moderato, di tipo democriteo ed epicureo, che poneva l'assenza del dolore (ἀλυπία; cfr. Ps. Plut., Vit. dec. orat., 1, p. 8133 C) a fondamento della morale e che doveva prescrivere un'etica sentimentale; onde, non nell'ubbidienza imposta dalla legge, ma nell'adesione intima al bene, nella vittoria su di sé, nel vincolo di simpatia e di concordia fra gli uomini, A. vedeva la soluzione del problema morale e sociale (framm. 58-61 Diels). Il suo scritto Sulla verità era quasi certamente un'opera polemica contro quella di Protagora d'ugual titolo, e opposta doveva essere la dottrina dei due sulle leggi. A Democrito somigliava non solo per l'edonismo e per certo colorito pessimistico di alcune sue affermazioni, ma per il valore ch'egli dava ancora all'indagine fisica, trascurata ormai dalla maggior parte degli altri filosofi suoi contemporanei. Dottrina fisica però che, attraverso i frammenti, si può comprendere come si ricollegasse strettamente con la morale, in un curioso e assai interessante naturalismo etico.
V. le testimonianze e i frammenti, compresi quelli papiracei, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, 3ª ed., Berlino 1900, II, p. 289 segg. e nei Nachträge (1922) alla medesima opera, p. XXXI segg. Traduz. ital. in M. Timpanaro Cardini, I Sofisti, Bari 1923.
Bibl.: Su A. Sofista, cfr. specialmente: E. Bignone, in Nuova Rivista storica, I (1917), fasc. 3; id., Antifonte oratore e Antifonte sofista, in Rendiconti R. Ist. Lomb., LII (1913), fascicoli 10-15, p. 564 segg., e 16-18; id., in Riv. di fil. class., LI (1923), p. 145 segg.; 309 segg.; S. Luria, ibid., LIV (1926), p. 218 segg.