MONOCLONALI, ANTICORPI
Particolare varietà di anticorpi realizzata nel 1975 con una tecnica messa a punto dai ricercatori G. Köhler e C. Milstein (per entrambi, v. in questa Appendice) e risultante dalla fusione di un normale linfocita B (o cellula B) con una cellula tumorale di plasmocitoma da cui si è ottenuto un elemento cellulare ibrido (o ibridoma) che della cellula B conserva la capacità di riprodurre il suo specifico anticorpo e della cellula tumorale quella di riprodurre ''illimitatamente'' se stessa e il relativo anticorpo.
La scoperta dei due autori − per la quale nel 1984, congiuntamente a N. K. Jerne, ricevettero il premio Nobel per la medicina o la fisiologia − ha permesso di superare gli inconvenienti presenti negli antisieri, propri delle metodiche classiche d'immunizzazione degli animali, e cioè la loro disomogeneità (per cui negli animali iperimmunizzati con un determinato antigene l'anticorpo desiderato rappresentava solo il 10% del complessivo patrimonio anticorpale) e la loro disponibilità, comunque limitata, anche se prodotti in quantità rilevanti. Si può affermare che lo sviluppo della tecnica degli a. m. ha in qualche modo realizzato l'ideale degli immunologi, quello di poter produrre quantità illimitate di anticorpi identici con specificità predeterminata. Sono tre, dunque, le caratteristiche che definiscono l'utilità degli a. m.: la loro specificità di legame, la loro omogeneità, l'illimitata possibilità di produzione.
Principi metodologici. - I tumori delle cellule B sono popolazioni clonali (che derivano cioè da una sola cellula capostipite trasformata in senso neoplastico) di cellule potenzialmente in grado di produrre anticorpi. Inoltre alcuni tumori delle cellule B, detti plasmocitomi o mielomi, producono quantità illimitate di anticorpi identici fra loro. In condizioni normali, gli anticorpi vengono prodotti da cellule B mature dette plasmacellule, che è possibile isolare, ma che non sono capaci di proliferare indefinitamente. La metodologia degli a. m. si basa sulla fusione di cellule di plasmocitoma con cellule B normali producenti anticorpi. Il risultato della fusione (ibridoma, ibridi cellulari somatici che producono anticorpi) eredita dal plasmocitoma la capacità di crescere indefinitamente e di produrre anticorpi, e dalla cellula B normale la specificità, la capacità cioè di produrre anticorpi diretti contro un dato antigene (fig. 1).
Elementi essenziali perché potesse svilupparsi la metodica degli a. m. erano la disponibilità di mielomi adatti alla fusione e una tecnologia opportuna di fusione. I plasmocitomi adatti erano stati generati dalle ricerche di A. Potter e collaboratori sull'oncogenesi da pristano nel topo Balb/c, mentre A. Pontecorvo aveva per primo osservato come il polietilenglicol (PEG) fosse in grado di causare fusione delle membrane plasmatiche di due cellule diverse. Era dunque possibile fondere cellule mielomatose con linfociti B presi da un animale immunizzato, ma era essenziale avere una strategia che consentisse di selezionare gli ibridi cellulari risultanti dalla fusione.
Mentre i linfociti normali non sono in grado di proliferare indefinitamente e muoiono in coltura, l'altro partner della fusione, le cellule di mieloma, cresce bene in vitro e una quota molto piccola di queste cellule viene fusa con i linfociti. La selezione degli ibridi si effettua traendo vantaggio da mutazioni presenti nei mielomi utilizzati per la fusione (fig. 1). Queste mutazioni consentono di uccidere dopo la fusione, mediante farmaci, le cellule non ibridate, mentre gli ibridomi (il risultato cioè della fusione fra linfocita B normale e mieloma) sono resistenti portando il gene normale fornito dalle cellule normali.
Il marcatore di selezione più utilizzato è costituito da uno degli enzimi della cosiddetta ''via di salvataggio'' della biosintesi dei nucleotidi purinici, l'enzima ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi (HPRT). I nucleotidi purinici sono uno dei ''mattoni'' con cui viene costruito il filamento di DNA. In presenza di farmaci (per es. metotrexate, aminopterina, azaserina) che bloccano la via de novo di sintesi del DNA, le cellule con la mutazione HPRT (HPRT−) muoiono. Gli ibridi non muoiono in quanto forniti di un gene HPRT della cellula B normale.
Eliminate le cellule mielomatose non fuse, gli ibridomi così ottenuti vengono clonati e vengono selezionati quei cloni che producono l'anticorpo della specificità desiderata (fig. 2). Successivamente, poiché i livelli di produzione anticorpale delle cellule coltivate in vitro sono relativamente modesti, l'ibridoma può essere inoculato nella cavità peritoneale di un topo, e il liquido che si forma (ascite) costituirà una ricca sorgente di anticorpi.
Uso degli anticorpi monoclonali. - La metodologia degli a. m., conquista della ricerca immunologica di base, trova svariate applicazioni che vanno dalle tecnologie industriali in campo biotecnologico, alla diagnostica, alla terapia (v. tab.). In campo industriale gli a. m. trovano applicazione come strumento di purificazione di proteine d'interesse biotecnologico (citochine, fattori di crescita). Infatti, legati a resine insolubili, legano la proteina che può successivamente essere eluita. Si possono così purificare proteine che richiederebbero più passaggi e più tempo per essere isolate.
La diagnostica costituisce il settore di applicazione più vasto degli a. monoclonali. Si può a buon diritto affermare che la metodologia diagnostica è stata in larga misura rivoluzionata dall'introduzione degli a. monoclonali. In saggi immunometrici ''tradizionali'', come per es. quello dell'antigene carcinoembrionario (CEA), un antigene liberato da alcuni tumori, in particolare del colon, si è passati dall'uso di antisieri convenzionali a quello di monoclonali.
Mediante a. m. sono stati identificati nuovi marcatori sierologici di patologia, come illustrato dal CA125. Il CA125 è una struttura di membrana espressa su una parte considerevole dei carcinomi dell'ovaio e da questi liberato nel siero. Grazie a un anticorpo specifico messo a punto da R. C. Bast, è possibile misurare il CA125 come valido aiuto per la diagnosi e terapia di questi tumori. Ancora, a. m. diretti contro antigeni di differenziazione leucocitaria costituiscono strumenti insostituibili per la tipizzazione delle neoplasie ematopoietiche. Sono stati infatti generati anticorpi che ''vedono'' diverse strutture sulla membrana dei leucociti, dette CD. Questi reagenti consentono di tipizzare le varie popolazioni di globuli bianchi in condizioni patologiche, come illustrato dalle cellule CD4 il numero delle quali è di ausilio nel seguire i pazienti affetti da AIDS. La tipizzazione è essenziale per identificare le malattie leucemiche e dirigere di conseguenza la terapia.
Più limitata, ma significativa, è l'utilizzazione di reagenti monoclonali per tipizzare neoplasie solide. Infine, è oggetto d'intenso studio la possibilità di utilizzare a. m. marcati per diagnostica in vivo, per localizzare cioè piccole lesioni di alcuni tumori (per es. melanomi) che sfuggono alla diagnostica convenzionale. In questo caso l'anticorpo viene marcato con un radioisotopo, inoculato nel paziente dov'è possibile seguirlo e localizzare la lesione tumorale.
L'utilizzazione terapeutica di a. m. è per ora limitata e ancora in larga misura a livello sperimentale. Gli anticorpi anti-CD3 riconoscono un complesso molecolare che costituisce il recettore specifico dei T linfociti. Uno di questi anticorpi anti-CD3 è ora in uso clinico come inibitore del rigetto dei trapianti. In un settore completamente diverso, un a. m. anti-endotossina è stato recentemente approvato per uso clinico negli Stati Uniti per la terapia dello shock settico. L'endotossina è un costituente dei batteri Gram− che sono spesso causa di sepsi. È importante a questo proposito ricordare come i tempi per l'introduzione in clinica di nuovi agenti terapeutici sono di necessità molto lunghi, mentre più rapido è l'iter dei diagnostici.
Approcci innovativi. - La metodologia degli a. m. si presta allo sviluppo di approcci innovativi, che ampliano lo spettro di applicazione di questa metodologia. Questi non hanno applicazioni a tutt'oggi ''codificate'', ma è ragionevole ritenere che avranno nel prossimo futuro ricadute importanti pur senza soppiantare l'approccio tradizionale.
a) Monoclonali umani e umanizzazione di monoclonali murini. L'uso di a. m. murini in terapia umana è limitato dal fatto che l'ospite inevitabilmente produce anticorpi anti-anticorpi che rendono difficile il pensare a terapie prolungate o ripetute con questi agenti. Una prima strategia per ovviare a queste limitazioni è quella di generare monoclonali umani. Sono state a questo scopo utilizzate come partners di fusione linee linfoblastoidi B immortalizzate dal Virus di Epstein Barr (EBV), che però sono cattive produttrici di anticorpi, o mielomi umani, che hanno dato a tutt'oggi risultati non completamente soddisfacenti. Queste difficoltà sottolineano l'importanza del lavoro che ha portato alla generazione e stabilizzazione dei plasmocitomi murini che sono stati utilizzati da Köhler e Milstein.
Un approccio più diretto e, al momento attuale, più semplice per rendere compatibile con l'ospite umano un a. m. è quello dell'umanizzazione. Questo approccio trae vantaggio dallo sviluppo e semplicità d'uso delle metodologie di biologia molecolare. Si parte in questo caso da ibridomi che producono a. m. della specificità voluta. Vengono clonati i geni che codificano per le catene immunoglobuliniche murine e, mediante tecniche d'ingegneria genetica, alla parte costante murina viene sostituita una parte costante umana della classe (in genere IgG) e sottoclasse desiderata.
b) Anticorpi ricombinanti. Sulla base dell'osservazione che la catena pesante immunoglobulinica, e più precisamente un segmento della parte variabile, può essere sufficiente all'interazione con l'antigene, è stato sviluppato da Winter e collaboratori un approccio secondo il quale è teoricamente possibile produrre molecole anticorpali in assenza di cellule linfoidi. La metodologia si basa sulla costruzione di una genoteca mediante la tecnica della polimerase chain reaction all'interno della quale vengono successivamente identificati i cloni che hanno la specificità desiderata. L'effettiva potenzialità di questa metodologia rimane da definirsi.
c) Anticorpi bispecifici. La struttura base di un'immunoglobulina è costituita da 2 catene pesanti e 2 catene leggere identiche fra di loro. Ciascuna coppia catena pesante-catena leggera interagisce con l'antigene per cui un anticorpo è almeno bivalente. È dunque pensabile poter costruire una molecola anticorpale dotata di specificità doppia, costituita cioè da catene leggere e pesanti diverse, e capace così di riconoscere contemporaneamente due antigeni diversi (fig. 3). Anticorpi bispecifici di questo tipo sono stati ottenuti in origine fondendo i due ibridomi che producevano anticorpi della specificità desiderata. Più recentemente lo stesso risultato è stato ottenuto utilizzando trasferimento genico mediato da vettori retrovirali.
Al momento attuale, la possibile area di applicazione degli anticorpi bispecifici su cui è focalizzata l'attenzione è costituita dalla terapia dei tumori. Sono stati infatti costruiti anticorpi bispecifici che da una parte vedono antigeni tumorali e dall'altra legano molecole di attivazione sulla superficie di diverse popolazioni leucocitarie. Nella fig. 3 è schematizzato il caso di un anticorpo bispecifico che vede il complesso CD3 dei T linfociti: l'interazione con questo tipo di struttura causa attivazione della cellula linfoide che esprime il suo potenziale citotossico nei confronti della cellula neoplastica riconosciuta dall'altra componente del bispecifico. Al momento attuale sono da poco iniziate le prime prove cliniche con anticorpi bispecifici.
d) Immunotossine. - L'approccio delle immunotossine consiste nel conferire la specificità altissima delle molecole anticorpali a sostanze tossiche. Un approccio estesamente studiato è quello di prendere la subunità tossica della ricina (l'altra serve al legame con la cellula) e coniugarla con un monoclonale della specificità desiderata. Anche farmaci antitumorali convenzionali come la Doxorubicina sono stati coniugati a monoclonali nel tentativo di accrescerne la specificità. Infine, sono state costruite mediante tecniche d'ingegneria genetica molecole chimeriche costituite da tossine e anticorpi. La rilevanza applicativa delle varie forme di immunotossine rimane da definirsi.
Come considerazione conclusiva va sottolineato che la messa a punto della metodologia degli a. m. costituisce probabilmente il controllo immunologico di più grande rilevanza applicativa degli ultimi decenni. Premessa a questa acquisizione furono gli studi sull'oncogenesi delle neoplasie plasmacellulari e sulla fusione delle cellule somatiche, studi assolutamente non correlati ad alcuna ricaduta applicativa. Gli esperimenti stessi di Köhler e Milstein furono condotti nel contesto di studi di biologia di base dei linfociti B e probabilmente gli autori stessi non furono immediatamente coscienti della rilevanza applicativa della scoperta. La storia della scoperta degli a. m. sottolinea dunque l'importanza e valenza applicativa della ricerca di base in immunologia.
Bibl.: A. Mantovani, Approcci molecolari in immunologia, Brescia 1990; F. Malavasi, A. Bargellesi, Anticorpi monoclonali Ph. DO2, in I manuali delle scuole, Scuola Superiore di Oncologia e Scienze Biomediche, Genova 1992; Monoclonal antibodies 2, a cura di E. Epinetos, Londra 1992.