ANTICHI e MODERNI
La famosa questione degli antichi e dei moderni (querelle des anciens et des modernes), che fu molto dibattuta in Francia nell'ultimo trentennio del sec. XVII, e nei primi anni del sec. XVIII, ebbe, in verità, nascimento in Italia prima che in Francia. Si potrebbe risalire al Quattrocento, ai difensori della letteratura volgare dagli assalti di rigidi umanisti contro i grandi Toscani del Trecento, al Cinquecento e ai suoi scapigliati, come il Lasca e Ortensio Lando, spregiatori dell'antico, adoratori del nuovo, e ai suoi critici novatori, come lo Speroni.
Ma la questione s'inizia consapevolmente nei primi anni di quel sec. XVII, che si può considerare l'alba della modernità. I grandi avvenimenti che avevano iniziato la storia moderna, la conquista del nuovo mondo, la stampa, le nuove armi, la riforma religiosa, distolsero gli spiriti dalla contemplazione del passato. Inoltre il Seicento fu il secolo classico della matematica, del giusnaturalismo e del razionalismo cartesiano. L'entusiasmo per la modernità fece considerare come barbare e antirazionali le tradizioni del passato, che l'Italia scaduta dimenticò anche per difetto di coscienza civile. Allora, nella lotta fra antichi e moderni, gli antichi finirono sempre per aver la peggio..
L'Italia dunque del Seicento, come, in certo senso, preannunzia il romanticismo europeo, così dà origine alla querelle des anciens et des modernes. È noto che nel 1620, a Carpi, Alessandro Tassoni pubblicò, aumentata d'un decimo libro, l'edizione definitiva de' suoi Pensieri diversi. Questo decimo libro, ch'è stato più volte ristampato a parte, è intitolato Paragone degl'ingegni antichi e moderni; e primo il Tassoni vi discute minutamente la questione, mostrando la superiorità dei moderni nella politica, nelle scienze, nelle arti, nelle lettere, nella milizia, nell'agricoltura, nelle vesti, in ogni attività umana. E, col Tassoni, son degni di menzione il Boccalini, Udeno Nisiely (Benedetto Fioretti), Paolo Beni, il Lancellotti e altri, che misero in discussione la grandezza degli antichi.
Per quel che riguarda la Francia, il Gillot si rifà dalla Défense et illustration de la langue française (1550) del Du Bellay; ma queste e altrettali opere sono, più che documenti della querelle di cui ci stiamo occupando, avvisaglie di nazionalismo letterario. La questione fu inaugurata in Francia più tardi.
Il poeta Giovanni Desmarets de Saint-Sorlin, irritato del disprezzo col quale il Boileau aveva accolto il suo poema Clovis ou la France chrétienne (1657), ch'egli intendeva opporre agli antichi poemi pagani, pubblicò una Comparaison de la langue et de la poésie française avec celle des Grecs et des Latins (1670), tartassando omero e Virgilio. Venne poi Carlo Perrault con il suo Parallèles des anciens et des modernes (1668-97), dialoghi in cui metteva Versailles sopra Atene, i pittori italiani sopra gli antichi e maltrattava Virgilio, Orazio e soprattutto Omero. È stato dimostrato che il Perrault molto deriva, e spesso traduce, dal Paragone del Tassoni.
La causa degli antichi fu difesa dal Boileau, col quale stavano il Racine, il La Bruyère, il La Fontaine, i coniugi Dacier, il Ménage, il Longepierre, l'Huet. Il Perrault aveva dalla sua il Journal des savants, il Mercure galant, le donne, i giovani e l'Accademia. Invano l'Arnauld tentò di pacificare le due parti contendenti.
La disputa si rinfocolò quando il Perrault, nel suo Siecle de Louis le Grand (1713), apostrofò Omero: "Se tu tornassi al mondo, correggeresti l'Iliade, e la renderesti migliorel" In mancanza d'Omero, Antonio Lamotte de Houdar si mise all'opera; e, volendo migliorare il poema omerico, lo sconciò, riducendolo a dodici canti. Allora Anna Dacier, traduttrice fedele dell'Iliade, insorse contro il Lamotte (Des causes de la corruption du goût, 1714), difendendo gli antichi con assai minor moderazione del Fénelon (Lettre sur les occupations de l'Académie, 1713). La maggioranza dell'Accademia, col Fontenelle, sosteneva il Lamotte. I gesuiti erano partigiani dei moderni; l'Università, degli antichi. Soltanto nel 1716 le due parti cessarono d'ingiuriarsi.
I partigiani dei moderni ebbero la disgrazia, com'è stato argutamente detto, d'aver contro di sé tutti quelli che avrebbero potuto opporre, con qualche speranza di vittoria, agli antichi. Ma la lunga disputa non fu senza effetto: si può in parte attribuire ad essa lo scadimento degli studî classici nel primo Settecento, già lamentato dal Perizonio nel 1708.
All'inizio del Settecento, la lotta fra antichi e moderni va a sboccare nella polemica Bouhours-Orsi, la prima grande polemica internazionale delle due maggiori letterature neolatine. Per reazione al secentismo, si rafforza in Italia il cosiddetto "errore umanistico", cioè il concetto di letteratura italiana come derivazione dalle letterature classiche. Ora, secondo il Toffanin (v. Bibl.), la lotta fra antichi e moderni sarebbe stata, in Italia, la lotta fra Italiani (antichi) e Francesi (moderni). Ma, in verità, la questione fu dibattuta fra noi in tutto il sec. XVIII, indipendentemente dalla polemica con la Francia.
Tutti i nostri scrittori di quel secolo si potrebbero, per questo rispetto, distinguere in conservatori, novatori e compositori della lite tra antichi e moderni. Nomineremo alcuni rappresentanti delle tre tendenze, specialmente quelli che trattarono ex professo la questione.
Acerrimi difensori del passato furono G. V. Gravina, Domenico Lazzarini, P. M. Doria, che scrisse un Ragionamento nel quale si fa paragone tra l'antica e moderna sapienza, tra l'antica e moderna virtù, dando la palma all'antica, e sullo stesso argomento Il Misantropo, dialogo critico (in Ragionamenti e poesie varie, Venezia 1737). Nella seconda metà del Settecento, Giuseppe Torelli fu, a dire dell'Ugoni, uno di coloro che reputano la natura essere stata madre agli antichi, matrigna ai moderni; Girolamo Pompei non vedeva salute fuor dell'imitazione degli antichi; Carlo Gozzi, . contro il Chiari, che dava "mala voce e mal nome agli antichi", sempre difese a spada tratta "i suoi padri, i suoi maestri, le sue guide".
Ed ecco i novatori. Niccolò Capasso deride, ne' suoi argutissimi sonetti napoletani, gli adoratori dell'antico. G. M. Ortes, in un Saggio della filosofia degli antichi, esposto in versi per musica (Venezia 1757), vuol provare quanto in ogni genere di filosofia gli antichi fossero inferiori a noi. Appiano Bonafede, con I filosofi fanciulli, mette in burletta la filosofia antica; il Galiani, nel Socrate immaginario, deride la smodata idolatria degli antichi; il Baretti, il Meli e altri satireggiano la smania antiquaria. Il Bettinelli, col Voltaire, disconosce Dante; il Cesarotti, Omero: il filosofismo critico era antitradizionale, perché razionalistico, mancante di senso storico. E quando il Bettinelli si dà alla storia, nel Risorgimento d'Italia, facendo un quadro generale della storia italiana dopo il Mille, sostiene che l'età moderna è superiore a tutte le antiche, compresa quella dei Greci e dei Romani. Alessandro Verri nelle Notti romane esalta la civiltà moderna sull'antica. Anche Giovanni Andrès sta per i moderni; e, confondendo le lettere con le scienze considera il Seicento come il secolo d'oro delle lettere, e in esso trova la "nascita della moderna letteratura". È, nella sua forma estrema, uno dei due errori su cui era incardinata la disputa: i moderni erravano, come vide acutamente, unico forse, Antonio Conti, confondendo le scienze, progressive, con l'arte e la poesia, eterne. L'altro errore dei moderni (errore sempre rinascente: si pensi al futurismo) fu quello di staccare il progresso dalla tradizione.
Alcuni nostri cercarono col loro buonsenso, che è tutt'una cosa col senso storico, di comporre la questione. Il Muratori (Riflessioni sopra il bongusto, p. II, c. I) scriveva: "Né gli antichi son giganti per esser nati molto prima di noi, né noi siamo tanti nani per esser venuti al mondo più tardi di loro. Il mondo è stato e sarà sempre lo stesso; e se la Natura fu benefica verso quegli, non saprà essere solamente malefica verso di noi". Il Vico venerava gli antichi, ma nell'orazione De nostri temporis studiorum ratione esaltò il pensiero nuovo. G.C. Becelli sosteneva la legittimità di ogni letteratura rispondente all'indole della sua nazione. Perfino l'Algarotti (Pensieri) dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Il Tiraboschi, nella Dissertazione premessa al II tomo della sua Storia, dice argutamente che la questione degli antichi e dei moderni "si riduce ad esaminare e a decidere se gli alberi de' nostri tempi sian più grandi o più piccoli di que' de' tempi passati". Tentarono finalmente di conciliare i contendenti G. B. Noghera (Su gli spiriti di novità e di autorità, Bassano 1799), Ottavio Chiarizia nel tomo III aggiunto alla Origine delle scoperte attribuite ai moderni di L. Dutens, da lui tradotta (Napoli 1787), e Gregorio Fontana in una delle dissertazioni aggiunte al Saggio sulla storia delle matematiche di C. Bossut (Milano 1802-3).
Strascichi della questione troviamo nell'Ottocento: ne trattano, p. es., Melchiorre Gioia nel Galateo (1802); Francesco Torti nella Filosofia delle medaglie dei grandi uomini d'ogni secolo (Parma 1828), medaglia X, Antichi e moderni; Andrea Zambelli nell'opera Delle differenze politiche tra i popoli antichi e moderni (Milano 1839 e segg.); Salvatore Betti nella Illustre Italia (1841); ecc.
Ma la questione è riassorbita nell'altra, assai più grossa, ma anch'essa incardinata su errori storici ed estetici, dei classicisti e dei romanticisti. I quali ultimi, ad ogni modo, spesso deliberatamente si rannodarono ai loro predecessori del Seicento. P. es., il Berchet, nella Lettera semiseria di Grisostomo (1816), come notò il Galletti, mutò un po' troppo alla lesta la questione classico-romantica in quella tra fautori degli antichi e fautori dei moderni. E il romanticismo francese, movendo guerra all'antichità, dichiarava espressamente di riattaccarsi al Perrault e ai moderni del sec. XVII (vedi, p. es., P. Leroux, De la loi de continuité qui unit le XVIII siècle au XVIIe, in Revue encyclopédique, 1832), i quali nella letteratura e nell'arte avrebbero continuato la rivoluzione cominciata dal Descartes in filosofia.
Bibl.: H. Rigault, Histoire de la quelle des anciens et des modernes, Parigi 1856 (l'Italia è quasi assente da quest'opera); H. Gillot, La querelle des anciens et des modernes en France, de la "Défense et illustration de la langue française" aux "Parallèles des anciens et des modernes", Parigi 1914. Manca una storia della questione in Italia: v. intanto M. Recchi, nell'introduzione alla sua edizione del Paragone degl'ingegni antichi e moderni, di A. Tassoni, Lanciano 1918; G. Gentile, G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, 2ª ed., Firenze 1925, p. 225 segg.; e, pel solo Settecento, G. Toffanin, L'eredità del Rinascimento in Arcadia, Bologna 1924; G. Natali, Le origini italiane del romanticismo italiano, in Nuova Antologia, 16 maggio 1928; per le relazioni del romanticismo con la querelle, A. Galletti, Introduzione alla Lettera semiseria di Grisostomo,Lanciano 1913.