ANSELMO della Pusterla
Nulla sappiamo della sua nascita e della sua famiglia. Completò la sua educazione in Francia con altri giovani milanesi; fu nel 1107 a Parigi e a Tours presso i letterati Alfredo e Guglielmo, nel 1109 a Laon alla scuola del celebre teologo Anselmo e di suo fratello Rodolfo. Il 30 giugno 1126 fu eletto arcivescovo di Milano dai suffraganei e dal clero ordinario, per intervento del primicerio Nazaro Muricola.
I Milanesi stavano allora preparando l'estremo assalto contro la città di Como, con la quale erano mi guerra dal 1118 più tardi lo stesso arcivescovo fece da mediatore nelle trattative di resa (estate 1127). Poco dopo l'elezione, poiché il pontefice Onorio II, abolendo un costume ormai tradizionale per la metropoli milanese, rifiutava di inviargli il pawo, A., consigliato da alcuni cappellani e dal primicerio Pietro vescovo di Tortona, decise di recarsi da lui. Clero e popolo tentarono con un pubblico editto di impedirgli il viaggio che sembrava una rinuncia all'antico diritto; l'arcivescovo partì ugualmente e le milizie milanesi, nella primavera del 1127, per rappresaglia occuparono i castelli della diocesi, sottraendo alla mensa vescovile gran parte delle rendite.
A Roma l'arcivescovo sperava forse di piegare la volontà del pontefice, ma Onorio si mostrò irremovibile ed A. ritornò in sede a mani vuote, avendo preferito, per consiglio di Robaldo vescovo di Alba, rinunciare al pallio piuttosto che perdere il diritto della sua Chiesa.
Dal 23 maggio 1125 la sede imperiale, vacante dopo la morte di Enrico V, era contesa tra Lotario di Supplimburgo e Corrado di Svevia. Le simpatie del pontefice erano tutte per Lotario, mentre pare che Milano fosse in trattative con Corrado prima ancora che costui scendesse in Italia nella primavera del 1128. A. si trovava in quell'anno nel castello di Lecco; vi si era recato forse per separare la sua azione da quella dei cittadini che sapeva favorevoli al candidato avverso al pontefice, forse per non escludere fin dall'inizio ogni possibilità di conciliazione tra la Chiesa di Roma e quella ambrosiana. Quando venne a sapere che il clero e il popolo della sua città avevano accolto Corrado con onori regali, si recò a Monza con la speranza di intervenire in qualche modo nelle decisioni dei Milanesi, ma, dopo una sola notte, si allontanò per salire al castello di Brebbia, non lontano da Varese. Fu più tardi richiamato in città da una delegazione di Milanesi scelti tra le diverse classi sociali e coronò Corrado il 29 giugno 1128 in S. Michele di Monza, quindi a Milano in S. Ambrogio.
Negli ultimi mesi del 1128 e nel corso dell'anno successivo, mentre si andavano preparando tempi difficili per il suo episcopato, A. si dedicò esclusivamente ai suoi doveri pastorali. Innanzi tutto sottoscrisse il concordato tra i monaci e i canonici di S. Ambrogio, che il suo predecessore Olrico si era rifiutato di accettare, ritenendo dannoso ai fini dei buon accordo con la Chiesa centrale il favorire forze che avevano sempre mirato all'autonomia. A. dimostrò così in modo assai evidente la sua avversione ai disegni accentratori di Onorio II. Inoltre, per eliminare ogni ragione di contrasto fra i due cleri che si contendevano il possesso e l'esercizio della basilica santambrosiana,fece costruire su S. Ambrogio un secondo campanile e il 28 ott. 1128 lo donò ai canonici. Il 15 genn. 1129 consacrò la chiesa di S. Giorgio al Palazzo e all'inizio di febbraio sottoscrisse con Ugo vescovo scismatico di Brescìa il diploma con cui Corrado concedeva ai canonici di S. Ambrogio diritti sul palazzo imperiale adiacente alla canonica. Fin dall'inizio di quest' anno Onorio II, forse preoccupato per le simpatie di cui il re svevo godeva in Lombardia e che il comportamento del metropolita ambrosiano contribuiva a rafforzare, inviò nell'Italia settentrionale come suo legato il cardinale Giovanni di Crema. Questi riunì a Pavia un concilio di suffraganei e comprovinciali che scomunicò l'arcivescovo, mentre Pavesi, Cremonesi e Novaresi dichiaravano guerra a Milano.
Onorio morì il 14 febbr. 1130 e l'autorità apostolica fu contesa tra Innocenzo II e l'antipapa Anacleto II. Costui, subito dopo l'elezione, volendo legare a sé la metropoli lombarda ed il suo presule, pensò bene di cedere al desiderio dei Milanesi e di concedere ad A. il pallio che fu portato a Milano da una commissione guidata da Giovanni cardinale vescovo di Preneste, e fu ricevuto con grandi onori e festeggiamenti del popolo. Nel 1131 Innocenzo II mandò a sua volta a Milano il cardinale Bérnardo di Parma e minacciò di sottrarre alla circoscrizione ambrosiana Genova e il suo territorio, ma A. non si piegò né alla persuasione né alle minacce; pare anzi che accettasse da Anacleto il titolo di cardinale (dicembre 1131); certamente non intervenne al concilio tenuto a Piacenza dal legittimo pontefice (maggio-giugno 1132).
Milano intanto gli diveniva sempre più ostile. L'atto di forza con cui egli scomunicò pubblicamente, per ragioni non note, il prete Azzone magister dei fanciulli cantori, non servì che ad acuire il rancore che il clero e il popolo nutrivano nei suoi riguardi. L'esito sfavorevole della guerra in corso, l'assenza di Corrado dall'Italia e la presenza di Lotario, ormai coronato imperatore, davano d'altra parte forza al partito che vedeva nella separazione di Milano da Roma la causa delle sfortune cittadine e che optava per la immediata riconciliazione col papato.
Milites e giuristi, che pare fossero stati corrotti con denaro, si sollevarono contro A., il quale fu costretto a presentarsi all'assemblea popolare per giustificare le scomuniche da lui stesso lanciate. Durante la riunione l'arciprete dei decumani Stefano Guandeca lo accusò esplicitamente di eresia, anche a nome dei suffraganei di Alba e di Novara, per cui ai consoli parve opportuno radunare un concilio provinciale. Narra Landolfo Iuniore che, nel giorno stabilito, comparvero in adunanza "quamplures pure induti, rudi et inculta lana" (Historia, p. 36).
Si trattava probabilmente di monaci cisterciensi, fedeli ad Innocenzo II e venuti dai monasteri di Chiaravalle e di Morimondo per contribuire alla deposizione dell'arcivescovo scismatico.
Nella notte uomini assoldati da Nazaro Muricola e da Stefano Guandeca cacciarono A. dalla sua residenza. Il mattino seguente l'arcivescovo, "coram humili sua plebe", dichiarò attraverso il suo camerlengo di essere disposto a subire la revisione di tutti i suoi atti, escludendone i suoi rapporti con Corrado (Landulphi Historia, p.36); questa limitazione rese però inaccettabile lasua offerta e il console Giovanni da Rho riferì ai membri della sua parte che l'arcivescovo rifiutava di sottoporsi al giudizio.
Con ogni probabilità, le classi più umili della cittadinanza, la "humilis plebs" dinanzi a cui parlò il camerlengo, erano rimaste fedeli all'arcivescovo. Diversamente non si spiegherebbe né il comportamento di Giovanni da Rho, che figura come osservatore del partito feudale, né il precedente impiego dei mezzi di corruzione. La vittoria spettò comunque alla maggioranza aristocratica, al "clerus et populus", che nel discorso di Landolfo Iuniore compaiono come un binomio inscindibile. Infatti, se il primo era scelto dalle famiglie èapitaneali, costituivano il secondo le classi più elevate dei cittadini nobili e borghesi. Gli interessi dell'uno e dell'altro erano gli interessi medesimi del Comune, che con loro in quel tempo si identificava. Popolo e clero avevano avuto per alcuni anni la preoccupazione costante di piegare il metropolita ai loro disegni politico-religiosi che mettevano in posizione di ostilità verso Roma la sede milanese; quando però le circostanze consigliarono di mutar direzione, essi non ebbero scrupolo di separarsi dal metropolita e di abbandonarlo alla sua sorte.
A. fu deposto e sostituito col già noto Robaldo e Milano fece atto di sottomissione al legittimo pontefice mandando i suoi legati al concilio di Pisa (maggio-giugno 1135). Nell'autunno 1135, ormai del tutto isolato, perché anche Corrado si era riconciliato con Innoceiizo, A. lasciò i castelli ove aveva trovato rifugio, per raggiungere a Roma l'antipapa. Fu fermato presso Ferrara da Goizo di Martinengo e consegnato a Innocenzo II che, ai primi d'agosto dell'anno 1136, lo mandò a Roma. Qui egli morì il 14 agosto e fu sepolto in S. Giovanni in Laterano. Qualcuno vide in questa sepoltura religiosa la dimostrazione di un suo tardo ritorno alla Chiesa Romana.
Fonti e Bibl.: Galvanei Flammae Manipulus Florum sive Historia Mediolanensis, in L. A. Muratori, Rer. Italic. Script., XI, Mediolani 1727, coll. 630-632; Id., Chronicon Maius, a cura di A. Cerruti, in Miscellanea di storia italiana, VII(1869), pp. 637-639; Landulphi iunioris Historia Mediolanensis, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., V, 3, a cura di C. Castiglioni, pp. 15, 16, 23, 24, 32-37; P.F. Kehr, Italia Pontificia, VI, 1, Berolini 1913, pp. 56 s., 69; G. Giulini, Memorie spettanti alla storia... della città e campagna di Milano, II, Milano 1854, pp. 752 s.; III, ibid. 1957, pp. 10, 153 ss.; F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia, Lombardia, II, 2, Firenze 1913, pp. 482-490; C. Castiglioni, Il cronista Landolfo e la storia della Chiesa milanese, in La scuola cattolica, fasc. giugno 1934, pp. 16 s.; P.F. Palumbo, Lo scisma del 1130, Roma 1942, pp. 278, 438-442, 470, 538, 540; G. L. Bami, Milano verso l'egemonia, in Storia di Milano, III, Milano 1954, pp. 343-361; E.Cazzani, Vescovi e arcivescovi di Milano, Milano 1955, pp. 141-144.