DALL'ORTO (de Orto), Anselmo
Nacque, probabilmente a Milano, circa nel 1130, da Oberto. Non sappiamo nulla di lui, fino a quando non lo troviamo studente di diritto a Bologna dove, intorno al 1150, il padre gli indirizzò le due famose lettere sul diritto feudale che furono più tardi inserite nella prima redazione, detta, appunto "obertina" dei Libri feudorum. La seconda di queste lettere è datata dal Besta (p. 442) 1154 quando Oberto era uno dei consoli milanesi, ma la datazione può essere preferibilmente anticipata al 1152, anno in cui pure ricopriva tale carica. Nel 1155 infatti il D. era già console di Giustizia della sua città, cioè uno tra gli appartenenti alla magistratura consolare che avevano lo speciale incarico di trattare le liti, senza che però formassero un organo distinto dagli altri consoli del Comune. In tale veste egli pronunciò una sentenza in una controversia tra i Comuni di Chiavenna e di Piuro, riguardante la pretesa dei Chiavennaschi che i Piuresi contribuissero per un quarto alle spese a favore del loro Comune. Facevano parte, del collegio giudicante anche Gilberto Pavaro, Amizone da Landriano e Pedrocco Marcellino. Si tratta di uno dei primi esempi di attività pratica di un glossatore.
La questione era già stata affrontata nel 1151 dai consoli di Como (Cod. dipl. d. Rezia, n. 117) e l'anno seguente dal padre del D., Oberto, da Gerardo Cagapesto e da Robasacco, che avevano dato ragione ai Piuresi (Atti…, n. XXVI). I primi due si ritrovarono a giudicare la lite nel 1154, confermando la fondatezza delle tesi di Piuro (Atti…, n. XXX). Nel marzo 1155, davanti a Gilberto Pavaro, i due Comuni avevano raggiunto un accordo, che però i consoli di Piuro ritenevano valido solo per l'anno del loro consolato e senza efficacia retroattiva. Di qui la nuova causa decisa il 29 giugno 1155 (Atti..., n. XXXIII). Il D. dette ancora ragione ai Piuresi che allegavano a loro favore la sentenzadel 1154,sottoscritta anche dal padre, ma ordinò che per il futuro valesse quanto stabilito da Gilberto Pavaro e che cioè Piuro dovesse contribuire per un quarto alle spese fatte a favore di Chiavenna, attingendo dall'avanzo della cassa comune. La sentenza era motivata in fatto, per la parte in cui respingeva le pretese dei Chiavennaschi e, quindi, non ci permette di verificare la dottrina giuridica dei D., mentre l'altra parte di essa dimostra che egli era dotato di senso politico, dando efficacia duratura a quanto il suo collega aveva stabilito per un solo anno, "pro concordia utriusque partis".
Nel maggio del 1157 il D., sempre in qualità di console di Giustizia, partecipò al collegio che esaminò una causa tra Lanterio, prevosto della canonica di S. Ambrogio ed i fratelli Rogerio e Brugnorio Pusterla, relativa all'adempimento di un legato disposto dagli antenati di costoro. Nell'ottobre successivo pronunciò una sentenza a favore della chiesa di S. Lorenzo contro Guiberto Stampa, che contestava una disposizione testamentaria di Riprando Stampa, con cui questi lasciava alla chiesa il "quinto" dei propri beni.
Nel 1162 il D. fu di nuovo console, in uno dei momenti più tristi della storia di Milano, quando la città, assediata dal Barbarossa, fu costretta ad arrendersi senza condizioni. Egli partecipò alle trattative con l'imperatore, alla fine di febbraio, ed il 1° marzo era a Lodi, con gli altri consoli, per la cerimonia del giuramento della resa, ripetuta in forma solenne nei giorni successivi. Nell'ottobre del 1164 fu scelto da Marcoaldo di Grumbach, vicario dell'imperatore e podestà di Milano, a far parte della commissione, composta anche da Enrico di Erbesiis, abate di S. Pietro in Ciel d'Oro, Giordano Scaccabarozzi e dal giudice Aliprando, incaricata di redigere un ruolo di tutti i mansi, i focolari e le coppie di buoi da sottoporre ad imposta (il cosidetto Liber tristium sive doloris) e di riscuotere i tributi. Tra i commissari, il D. e lo Scaccabarozzi avevano già ricoperto la carica di consoli della città. Dopo questa data non risulta che egli sia stato più eletto a cariche cittadine, mentre il padre Oberto fu ancora console nel 1169 e nel 1171.
Nel 1168 venne tuttavia delegato dall'arcivescovo Galdino, assieme con Ottone, prevosto di Crescenzago, Giovanni, prete di S. Silvestro e Pietro, prete di S. Sisto, a formare il nuovo regolamento dell'ospedale di S. Stefano del Brolo. Nel luglio del 1170 partecipò, in qualità di sapiens, ad una causa, tenutasi avanti ad Oberto da Terzago, arciprete di Monza, delegato dall'arcivescovo Galdino. tra Giovanni prete della chiesa di -Cisliano, vicino a Magenta, ed il monastero di S. Vittore ad Corpus di Milano, nella persona dell'abate Ambrogio, circa la proprietà della chiesa dei SS. Faustino e Giovita in località Verdezago. La medesima funzione svolse lo stesso anno, assieme con il padre ed altri sapientes, presenziando al lodo arbitrale nella controversia tra Cecilia, badessa del monastero Maggiore e Colomba, badessa del monastero di S. Maria di Montano, nel Comasco. Dopo questa data mancano sue notizie.
Il D. è autore di due opere. La prima è il Iuris civilis instrumentum, edito da V. Scialoja nel secondo volume della Bibliotheca iuridica Medii Aevi, Rononiae 1882, pp. 86, 116, sulla base di tre manoscritti. Altri due furono segnalati da E. Seckel nella sua recensione a quell'edizione (pp. 227 s.). Ad essi sono da aggiungere: Klosterneuburg (Austria), Stiftsbibliothek, ms. 643 b, pp. I-IV; Lipsia, Universitätsbibliothek, ms. Hänel, 10, pp. 20-22, che contengono parti dell'opera. Essa è un trattatello sistematico sulle azioni. Le fonti sono i Digesta, il Codex e le Institutiones. La citazione di Iacopo e Martino, contenuta in un passo del ms. 73 del Collegio di Spagna di Bologna, è da. ritenersi interpolata. Famoso è il suo proemio, già edito nella opera del Sarti (II, pp. 27 s.), che paragona l'università di Bologna al tempio della giustizia, di cui dà una vivida descrizione: il passo ricorda il proemio delle Quaestiones de iuris subtilitatibus, con la differenza che il tempio della giustizia è posto in Bologna e non più in Roma.
L'altra sua opera è il Super contractibus emphyteosis et precarii et libelli atque investiture. Essa è stata edita da Rudolf Jacobi (Weimar 1854) sulla base dei quattro manoscritti conosciuti, con introduzione ed un ampio commento. Il manoscritto Marciano lat. V 219 (ff. 26 s.) ha un inizio diverso, non riportato dal Jacobi, in cui si parla della formazione degli atti notarili, ed è privo della parte sull'enfiteusi: esso è stato edito da Paolo Canciani nel quinto volume delle Barbarorum leges antiquae, Venetiis 1792, p. 53. L'opera è fondata su fonti romanistiche, con riferimenti al diritto longobardo ed alle consuetudini delle città lombarde (Milano, Pavia, Cremona, Mantova).
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