GRIMALDI, Ansaldo
Nacque a Genova nel 1471 da Giovan Battista di Luca di Ansaldo. Incerta è l'identità della madre, che elogi secenteschi indicano in Lucrezia Interiano (o Italiano), ma che sarebbe invece Pellegra Pinelli di Battista.
La famiglia del G. apparteneva al sistema delle quattro grandi famiglie nobili di origine feudale (con Doria, Fieschi e Spinola) ed era imparentata con i signori di Monaco. Il G. ebbe un fratello, Benedetto, e almeno sei sorelle: Settimia, Tommasina, Luigia, Lucchesia, Violante, Brigida, sposate rispettivamente a Negrone Di Negro, Giuliano Centurione, Tommaso Salvago, Leonardo Doria, Battista Pallavicini, Battista Spinola. Il padre del G. aveva compiuto varie ambascerie per la Repubblica: nel 1471 presso Alfonso duca di Calabria, nel 1475 a Roma e presso il duca di Milano, nel 1480 ancora a Milano per trattare la lega navale contro Venezia. Eletto nel 1481 governatore di Corsica, aveva condotto con sé il giovanissimo G.; fu poi ancora ambasciatore a Milano nel 1487 e presso il papa, il genovese Innocenzo VIII Cibo, nel 1488.
Alla luce degli studi di Carande appare riduttiva e ingenua la settecentesca biografia dedicata al G. da un lontano discendente, Francesco Antonio Grimaldi (La vita di A. G. patrizio genovese illustrata con riflessioni politiche, e morali ecc., Napoli 1769), appartenente al ramo dei Grimaldi insediato a Napoli dal Cinquecento ed esponente non secondario dell'illuminismo meridionale. L'autore cita puntualmente come fonti Iacopo Bonfadio e Paolo Partenopeo per sottolineare la ricchezza e la presunta disinteressata mediazione politica svolta dal G., di cui evidenzia anche una raffinata formazione umanistica e le buone relazioni culturali.
Avviato dal padre all'attività politico-diplomatica e a quella mercantile-finanziaria attraverso il Banco di S. Giorgio, il G. fece il suo ingresso nella vita politico-diplomatica nel 1494, l'anno della discesa di Carlo VIII e della successione di Ludovico il Moro come duca di Milano, mentre Genova era sotto la signoria sforzesca. Nell'ottobre il G. fece parte dell'ambasceria solenne per le congratulazioni al Moro e il rinnovo delle convenzioni; a Milano tornò nel dicembre, in legazione ridotta ma più delicata, a insistere per la restituzione di Sarzana. Dopo la caduta del Moro, nell'ottobre 1499, il G. fu ancora a Milano con la grande ambasceria che consegnò Genova a Luigi XII e che, eletta il 20 settembre, era stata fornita di minutissime istruzioni ed era composta da 24 rappresentanti dell'aristocrazia feudale e imprenditoriale genovese (tra loro Giovan Ambrogio Fieschi, Gerolamo Doria, Giacomo Centurione, Cristoforo Cattaneo, Nicolò Brignole). Avviate le trattative a Pavia, il G. assistette il 6 ottobre all'ingresso solenne del re di Francia in Milano e il 26 ottobre, in cerimonia altrettanto solenne, concluse il trattato.
È probabile che il G. abbia mantenuto in questi anni una posizione moderatamente filofrancese, anche per ragioni di convenienza personale, operando insieme con il fratello Benedetto, almeno fino al 1516, sui cambi di Lione e nelle fiere di Francia, come evidenziato nello studio di D. Gioffrè (anche se alcune operazioni indicate sembrano da attribuirsi a un omonimo). Quando Luigi XII annunciò la sua visita a Genova, il G. fu eletto, il 23 giugno 1502, nella commissione incaricata di fastose accoglienze: il che provocò non poche difficoltà alla commissione stessa, tra i cui componenti primeggiavano, insieme con il G., Giovanni Doria, Luca Spinola, Paolo Fieschi, a rendere palese lo schierarsi della vecchia nobiltà con la nuova signoria francese.
Non stupisce che, nonostante la dichiarata volontà antifaziosa e mediatrice, e anche per i suoi legami familiari con i signori monegaschi, il G. fosse individuato come uno dei principali "nemici del popolo" nel corso della rivolta delle "cappette" del 1506-07: il suo palazzo fu il primo a essere messo a sacco il 18 luglio 1506. Lasciata la città insieme con una parte dei nobili, il G. fu eletto (con Giovanni Doria, Cipriano De Mari, Nicola Spinola, Giovan Battista e Agostino Lomellini) nella deputazione incaricata di trovare il modo di rientrare in Genova. I deputati decisero di mandare come loro rappresentante al re di Francia Andrea Doria e il 3 agosto, riuniti nel castello di Montoggio di Gian Luigi Fieschi, stabilirono le quote della tassazione straordinaria per l'organizzazione militare. Il G. si assunse il compito di contattare Gian Giacomo Trivulzio e altri non meglio definiti suoi amici milanesi, anche allo scopo di fornire aiuti ai Grimaldi di Monaco, contro i quali la Genova "popolare" aveva allestito una spedizione navale. In questa circostanza il G. si trovò a collaborare con Andrea Doria, di cui condivideva la strategia intesa a compromettere la precaria unità popolare favorendo il rientro di Ottaviano e Giano Fregoso. Il progetto fallì e il G. e gli altri nobili non poterono rientrare prima del maggio 1507, finita l'esperienza del dogato popolare di Paolo da Novi con l'ingresso trionfale in Genova di Luigi XII. Pochi giorni dopo, nella lettera inviata il 22 maggio 1507 al ministro delle Finanze francese, il G. fu indicato dalla commissione incaricata come uno dei garanti del "prestito" di 50.000 scudi che il Comune di Genova doveva versare al re, anche se la partecipazione del G., con 2000 scudi, appare modesta rispetto alle cifre di circa 10.000 ciascuno garantite dagli altri quattro fideiussori: Giovanni Doria, Francesco e Lorenzo Lomellini, Antonio Sauli, Cristoforo Spinola.
Per qualche anno il G. sembra restare politicamente defilato: probabilmente si occupava dei suoi interessi economico-finanziari, tra commercio della seta, la cui conduzione sui mercati di Francia aveva affidato al nipote Girolamo (suo erede e futuro cardinale), e operazioni bancarie in S. Giorgio. Ritornò con forza sulla scena politico-diplomatica nel 1512-13 quando, compromesse le fortune francesi e stretta nella morsa della Lega santa, Genova dovette consegnarsi a Giano Fregoso.
Costituita una magistratura straordinaria di sedici pacificatori, il Gran Consiglio ne inviò otto in ambasceria a Fregoso per la conferma dei privilegi a suo tempo riconosciuti dal Moro, e ampliati "ad beneficium Reipublicae Genuensis". Dell'ambasceria il G. faceva parte con l'immancabile Giovanni Doria; quindi, il 26 giugno, nel Gran Consiglio già presieduto dal futuro doge Fregoso, fu eletto tra i dodici della nuova Balia (con Giovan Giacomo e Giovanni Battista Doria e con Giovanni Ambrogio Fieschi). In dicembre fu designato anche tra i quattro ambasciatori presso il nuovo duca di Milano (questa volta con Agostino Cattaneo, Agostino De Ferrari, Vincenzo Sauli); nel febbraio 1513, in previsione della morte di Giulio II e della necessità di riequilibrare la collocazione internazionale della Repubblica, il doge Fregoso incaricò segretamente quattro membri della Balia, tra cui il G., di predisporre le misure opportune, la prima delle quali fu il celere armamento di due nuove galee affidate al comando di Andrea Doria. Nel corso dello stesso anno, in almeno altre due circostanze, il G. fu inviato a risolvere questioni marittimo-mercantili provocate dalle ostilità francesi: assolse tali incarichi, per probabili interessi personali, indifferentemente durante il dogato del Fregoso e quello, brevissimo, di Antoniotto Adorno, a conferma di quella posizione politica super partes alla quale ambiva. È con l'elezione ducale di Ottaviano Fregoso, il 17 giugno 1513, che il G., subito eletto nella nuova Balia, poté fare quella esperienza politica di "buon governo" (pacificazione interna, definizione del ruolo di S. Giorgio, neutralità e sovranità) sulla quale sarebbe ritornato nel progetto di "unione" del 1525 quando, designato come rappresentante dei "nobili neri", fece parte dei dodici cittadini "nominati per riformare il stato e le leggi della città". Ma la vera riforma fu realizzata nel 1528 dall'ormai rivale Andrea Doria, di lui politicamente più abile, quando il G. svolgeva la sua attività diplomatica presso Carlo V, di cui era divenuto il più consistente finanziatore.
I primi contatti tra gli agenti cesarei e il G. risalivano al 1522-23 e il primo mediatore sarebbe stato il marchese di Pescara, Ferdinando Francesco d'Avalos. Pacini individua, sulla scorta delle indicazioni fornite dall'annalista seicentesco F. Casoni, nel "sacco" di Genova del 1522 l'occasione di arricchimento del G., che con la connivenza del marchese avrebbe riciclato il bottino delle truppe cesaree. Il primo documento è registrato nell'ottobre 1523: il G. doveva versare a Fernando Marin, commissario dell'esercito imperiale, 40.000 ducati sulla base di lettere di cambio emesse da banchieri genovesi residenti in Spagna. Dopo iniziali esitazioni del G., superate grazie alle garanzie offerte dal doge (in quel momento Antoniotto Adorno), dall'ambasciatore imperiale Lope de Soria e da Ugo di Moncada, prese l'avvio un percorso di finanziamenti da parte del G. di consistenza e rapidità tali da stupire gli stessi garanti. Al proposito Pacini, mentre sottolinea come fosse "quasi sempre a lui che si faceva ricorso per trasformare in denaro contante le lettere di cambio negoziate in Spagna con altri genovesi (Grimaldi, Centurione, Fornari ecc.)", cita la lettera a Carlo V del Soria che, nel maggio 1524, aveva presentato al G. lettere di cambio per ben 100.000 ducati e 44.000 scudi e notava ammirato come quello avesse prontamente versato "en pocos dias" la somma di 67.600 scudi richiesta per il viceré di Napoli.
Nel 1525, in concomitanza con la critica situazione internazionale e quando faceva parte dei Dodici riformatori, il G. si fece portavoce dell'esigenza di accelerare quel progetto di "unione" come il solo in grado di tutelare, con la neutralità, la sovranità della Repubblica. Non si trattava del tradizionale alternarsi di parte adorna e fregosa, con conseguenti ribaltamenti delle alleanze esterne. In quella congiuntura la neutralità genovese era caldeggiata anche nella Curia romana, che il G. aveva sicuramente frequentato nel corso del 1522 anche come procuratore di altri Grimaldi per il recupero di crediti forniti alla banca senese di Gerolamo Piccolomini e dove aveva intrecciato rapporti finanziari e personali con Clemente VII.
Certo è che se molti capitali del G. erano stati a suo tempo impegnati anche in Francia (spicca, il 3 marzo 1517, la garanzia per un terzo di 25.000 scudi prestati al re di Francia), nel 1523-29, in uno scenario di eventi epocali per l'Italia e per Genova, il G. e altri tre Grimaldi erano i più consistenti creditori di Carlo V con la cifra complessiva di 388.375 ducati.
Secondo Carande i crediti degli altri gruppi genovesi, Fornaris e Centurione (tra cui il celebre Adamo), pur con cifre notevoli, restano in quell'arco di tempo decisamente inferiori, con 164.834 i primi e 144.326 i secondi, così come i finanziatori tedeschi, capeggiati da Johann Fugger e Bartholomeus Welser, con 50.000 ducati ciascuno. Il 25 nov. 1528 il G. siglò a Roma, da solo, un asiento di 100.000 scudi per le necessità dell'esercito imperiale e alcuni mesi dopo, a Genova, il contratto più consistente (186.000 ducati) con articolate procedure di rimborso su Napoli e in Castiglia.
Dal 1532 al seguito della corte imperiale viaggiò un agente del G., Tomaso Fornaris, che regolò il primo asiento (datato 16 apr. 1532) sottoscritto da Carlo V a Ratisbona. Il G. avrebbe pagato in moneta 100.000 scudi d'oro a Genova e a Milano in due scadenze, a maggio e a giugno. La cifra gli sarebbe stata rimborsata in due analoghe scadenze l'anno successivo con lettere di cambio girate su Alonso di Baeza in maravedís.
R. Carande ritiene strana, perché non misurabile come prezzo di costo, la clausola con cui si concede al G. una rendita vitalizia di 4000 ducati annui, a nominativo a sua scelta e modificabile. Il titolare della rendita, caricata sul bestiame da lana di Napoli, sarebbe stato il pronipote Luca, figlio del cardinale Girolamo, a sua volta figlio del fratello del G., Benedetto.
Dagli studi di Pacini emerge come, per il decennio 1528-38, il G. continuasse a essere il principale finanziatore di Carlo V e come d'altra parte ad Andrea Doria risultasse più gradito il malleabile e diplomatico Adamo Centurione, che in effetti, ma solo dopo la morte del G., avrebbe assunto quel ruolo.
Tra le operazioni più brillanti concluse dal G. in questi anni sono da segnalare, almeno, la Ferma del sale di Milano, ottenuta nel 1531 suscitando le ire di Venezia ma con l'appoggio degli ambienti economico-finanziari milanesi, e, fuori dell'area asburgica, nel 1527 il prestito di 195.000 scudi d'oro a Clemente VII prigioniero in Castel Sant'Angelo dopo il sacco di Roma. Per questo prestito il G. ottenne una provvigione di 45.000 scudi, la garanzia della città di Benevento e una decima ecclesiastica nel Napoletano; ancora nel 1533 il G. era indicato nella corrispondenza dei nunzi apostolici come "depositario di S. Santità".
Altri consistenti asientos furono sottoscritti nel 1536 per coprire spese riguardanti l'Italia, la cui riscossione, protrattasi oltre la morte del G., fu meno lineare di quella del 1532, regolarmente risolta nel 1533. Dal rientro di capitali in quell'anno fino alla morte, il G. appare impegnato, insieme con la moglie, in una indefessa attività di beneficenza in favore dell'ospedale di Pammatone, dell'ospitaletto degli Incurabili, dell'erigenda Università (quest'ultima attraverso una complessa operazione di moltiplicazione di azioni di S. Giorgio che sarebbe maturata nell'arco di un secolo).
Quest'attività voleva forse essere una sorta di sfida, politicamente innocua ma giocata sul prestigio personale, nei confronti del Doria, che certo non disponeva della stessa potenza finanziaria del G. ma era politicamente e militarmente più importante per Carlo V e godeva ormai di maggiore prestigio internazionale. La rivalità tra il G. e Doria, dissimulata da entrambi ma registrata dalle loro relazioni epistolari con Carlo V e dagli ambienti diplomatici in particolare spagnoli e veneti, si alimentò anche, nel 1529-30, della competizione su carriere e benefici richiesti al papa e all'imperatore per i due parenti elevati alla porpora cardinalizia, Gerolamo Doria e Girolamo Grimaldi: tanto che il G. vi subordinò la concessione di prestiti a Carlo V e a Clemente VII.
Nella rivalità con Doria si inscrivono anche il legame privilegiato del G. con Sinibaldo Fieschi (alla cui morte, nel 1532, fu tra i tutori del figlio Gian Luigi) e il tentativo, poi risultato vano, di imporsi nella questione della successione monegasca alla morte improvvisa per peste del reggente Agostino Grimaldi, nel 1532.
Dopo essere stato governatore nel 1535, senatore nel 1537, ancora ambasciatore nel 1538 a Sarzana presso Paolo III che, mediatore di pace, tornava da Nizza, il G. morì a Genova il 30 sett. 1539.
Dal matrimonio con Benedetta Grimaldi, ultima erede del ramo d'Antibes, era nata una sola figlia, Pellegra, morta nubile forse nel 1510. A parte i lasciti sopra indicati, un'eredità di 500.000 scudi in contanti (nonché il palazzo di via S. Luca affrescato da Luca Cambiaso con La continenza di Scipione e le ville fuori le mura) andò ai figli del nipote cardinale Girolamo, usufruttuario a vita: Luca e Giovanni Battista, raffinato bibliofilo e collezionista.
Fonti e Bibl.: B. Senarega, De rebus Genuensibus commentaria, a cura di E. Pandiani, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXIV, 8, ad ind.; R. Soprani, Le vite de' pittori scoltori et architetti genovesi, Genova 1674, p. 38; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, II, Genova 1779, p. 124; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, II, Genova 1826, Famiglia Grimaldi, p. 34; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, pp. 422-426; Paolo Partenopeo, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1847, pp. 163 s., 165; L. Isnardi, Storia dell'Università di Genova, Genova 1864, p. 225; M. Sanuto, I diarii, XLVIII-XLIX, Venezia 1879, ad indices; L.G. Pelissier, Documents pour l'histoire de l'établissement de la domination française à Gênes, in Atti della Società ligure di storia patria, XXIV (1892), pp. 696 s.; G. Saige, Documents historiques relatifs à la Principauté de Monaco depuis le XVe siècle, II, Paris 1901, pp. 71 ss.; E. Pandiani, Un anno di storia genovese (1506-07), in Atti della Società ligure di storia patria, XXXVII (1905), pp. 149, 316, 499; M. Bandello, Le novelle, a cura di G. Brognoligo, II, Bari 1910, pp. 223, 434; A. Cappellini, Diz. biogr. dei genovesi illustri, Genova 1936, p. 89; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, I, Roma 1951, p. 76; R. Ehrenberg, Le siècle des Fugger, Paris 1955, p. 161; D. Gioffrè, Gênes et les foires de change…, Paris 1960, ad ind.; S. Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca, in Movimento operaio e socialista in Liguria, VII, Genova 1961, pp. 277 s.; H. Hobson, Apollo and Pegasus…, Amsterdam 1975, pp. 187 s.; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'Età moderna, Torino 1978, pp. 293 s.; H. Hobson, La biblioteca di G.B. Grimaldi, in Atti della Società ligure di storia patria, n.s., XX (1979), 2, p. 108; R. Carande, Carlo V e i suoi banchieri, Genova 1987, ad ind.; A. Pacini, I presupposti politici del "secolo dei Genovesi", in Atti della Società ligure di storia patria, n.s., XXX (1990), 1, pp. 203, 211 s., 220; Id., La Genova di A. Doria nell'Impero di Carlo V, Firenze 1999, ad indicem.