CEBÀ, Ansaldo
Nacque nel 1565 a Genova da famiglia non agiata ma di antica tradizione, e a Genova risiedette praticamente tutta la vita dedicandosi a quegli studi letterari cui si era preparato con diligenza e con un acuto sentire critico circa le predilezioni del pubblico contemporaneo.
Dopoaver frequentato le scuole (probabilmente gesuitiche) della sua città, si trasferì per gli studi superiori a Padova dove ascoltò le lezioni di Sperone Speroni e di Giasone di Nères. Ritornò a Genova nel 1591 con una buona conoscenza del greco, una notevole esperienza della poetica classica, fondata sulle norme aristoteliche, e il gusto molto vivo per il genere epico, sostanziato, alla maniera tassesca di motivazioni religiose. Tali saranno i fondamenti della sua futpra carriera letteraria, che considererà, comunque, l'epica e la produzione drammatica come conquiste a partire da una più facile, e quasi scontata, esercitazione lirica, dove il prammatico modello del Petrarca è riattinto attraverso la forte suggestione del Marino e dove soprattutto l'ispirazione autobiografica si complica per l'ambizione di una più alta e suadente lirica civile.
Accolto nell'Accademia degli Addormentati, il C. vi legge una serie di lezioni (raccolte più tardi col titolo di Esercitii accademici, Genova 1621) che documentano la sensibilità dell'autore per argomenti di carattere pubblico, ed è tipico sotto questo aspetto l'intervento "intorno al regolare l'ambizione de' cittadini nel domandare de' magistrati". V'è peraltro da sottolineare che tale sensibilità non si discostò mai nel C. dal piano della dissertazione accademica, essendosi egli sempre tenuto lontano dal richiedere e dall'ambire pubblici onori. In possesso di quanto lo affrancava dal bisogno e lo escludeva dall'ambire alle cariche cittadine di maggior prestigio, volle rappresentare se stesso come un letterato puro, non insensibile moralmente al destino politico e alla reputazione della sua città, ove si spense, onorato e compianto, nell'aprile del 1623.
Coerentemente all'iter culturale del C., la sua prima produzione fu lirica. Le Rime, stampate a Genova nel 1601, alludono prevalentemente all'amore del C. per Aurelia Spinola, morta nel 1596, ed è a questo iniziale nucleo di poesie che si affida la reputazione dell'autore come petrarchista, mentre le Rime edite, sempre a Genova, dieci anni più tardi sono tutt'altra cosa, non solo perché pochi campioni della precedente raccolta vi furono ospitati (e sostanzialmente rielaborati), ma perché l'intera silloge tende a una rappresentanza più vasta di temi e documenta una sensibilità mutata rispetto al tiepido fervore amoroso degli anni giovanili. Intanto vi si nota prevalente il tema del pentimento (la donna cantata dal C. è questa volta Geronima Di Negro che, fattasi benedettina, avrebbe indotto il poeta a sensi di castità e di sincera contrizione rispetto agli "errori" descritti nella precedente offerta lirica). L'unità del canzoniere petrarchesco è consapevolmente infranta e il passato è considerato come irrecuperabile, certo anche per effetto di certa lugubre lirica concettistica che rappresentava con fosche tinte lo stato del peccatore e indulgeva con toni di seduzione sulla inevitabilità della condizione mortale, sullo spettacolo del disfacimento, dell'incalzare minaccioso del tempo. Ma ciò che più colpisce in questo settore della lirica del C. non è tanto il ripetersi di immagini stereotipe nella tradizione della poesia metafisica di fine Cinquecento, tutta la serie di autoaccuse, di resistenze alla lusinga dei sensi e all'abbaglio dell'amore, quanto una professione di insufficienza espressiva a rappresentare liricamente le tensioni drammatiche del proprio animo; ed è proprio questa erosione che egli provoca all'interno di una forma ciò che lo consiglia ad abbandonare il terreno della confessione e a tentare una lirica oggettiva, encomiastica, che, se non ha il potere di liberare il C. da un attanagliante dramma interiore, presenta comunque la possibilità di approssimare la funzione poetica al valore, pubblicamente manifesto, dell'argomento trattato.
Se si considerano, in questa sezione delle Rime del 1611, i sonetti dedicati a Federico Spinola, ci si accorge che essi sono collegati in maniera tale per cui alla celebrazione di un eroe (morto combattendo contro i Fiamminghi nel 1602) corrisponde l'ideazione di un vero poemetto, che ha una parte a sé e un aspetto sufficientemente autonomo nella congerie degli altri versi di lode; mentre, d'altro canto, la tecnica usata dal C. per legare insieme - per ora in maniera abbastanza estrinseca - vari componimenti anche di soggetto diverso sottintende una volontà di costruzione narrativa che doveva necessariamente preludere a un nuovo e più disteso genere letterario.
In questa prospettiva gli schemi metrici usufruiti dal C. sono ancora inadeguati. I critici hanno concordemente sottolineato l'inferiorità, rispetto all'ode pindarica riecheggiatadal Chiabrera, dei metri del C., il quale, di fatto, ripiega anche per siffatti impegni laudativi sul vecchio schema della canzone petrarchesca, ma già nella terza sezione delle Rime (anch'essa sufficientemente individuabile, quella dedicata alle poesie patriottiche) tali schemi si aprono ad una più vasta e mobile trama di considerazioni morali prefigurando un pubblico che corrisponde a quello del teatro e non più, o non soltanto, a quello di lettori interessati ad una privata confessione di sentimenti.
La moralità del C. è ovunque molto generica: di solito la deprecazione non va oltre quella degli agi, delle smodate ricchezze, dei vizi cui indulgono i cittadini; in politica si esorta ad un geloso senso della libertà (e di indipendenza, soprattutto nei confronti di Filippo III di Spagna); i concittadini devono guardarsi dall'eccessiva brama di potere, e così di questo passo per una sequenza troppo lunga di versi che genera fastidio e disinganno dall'illusione di scorgervi un'apertura autenticamente inventiva.
Non è raro, tuttavia, registrare in questo squallido repertorio di precetti l'eco di un grande esempio classico (tratto dalla storia sacra e profana e dalla mitologia) su cui lo scrittore si sofferma, per ora abbastanza estrinsecamente, sotto forma di digressione; sono quasi degli appunti di lavoro che diramano l'ovvietà del dettato moraleggiante e offrono un appiglio descrittivo, appunti antilirici, e che comunque infrangono l'unità del componimento, e aspirano ad una rappresentazione autonoma. Si ha così la possibilità di leggere in due maniere la seconda raccolta di Rime: in base alla prima di tali letture si registra uno scadimento della lirica verso forme didascaliche, discorsive; l'altra può identificare tale scadimento con la tendenza verso una ricognizione più vasta della realtà, ed è proprio tale compresenza di piani ciò che rende interessante l'esperienza di questo canzoniere rispetto alle deludenti prove liriche degli scrittori contemporanei.
Quando si passa da questa produzione alle idee espresse nel dialogo Il Gonzaga, ovvero del Poema Heroico (Genova 1621), le idee si complicano e le contraddizioni dell'autore si fanno più manifeste, non solo per ciò che riguarda l'imitazione del poema tassesco - sconsigliato ma pur sempre vitale per quanto concerne il sostrato edificante dell'opera -, per il giudizio sulla molteplicità delle azioni contemplate dall'Orlando ariosteo, che se è da evitare in base a una adesione rigoristica della poetica classica, deve poi in qualche modo riconvalidarsi alla luce della grande esperienza omerica. A ragione il Belloni ironizzava (nonostante un tentativo di riabilitazione tentato dallo Zanette) sulle idee in materia eroica del C., il quale "sentenziò che non dovesse accingersi a comporre poemi se non chi fosse vigoroso nel corpo, sano nell'anima, di nobile progenie, libero di sé, dotto nel greco, nel latino, nel francese, nello spagnuolo e possibilmente nell'ebraico, intendente di morale, di politica, d'arte della guerra, di storia, di retorica e d'età non inferiore ai trentacinque anni". Concludendo: "Alcune di tali qualità erano, per dire il vero, in lui, ma altre no; e, per esempio, egli ci fa sapere d'aver compiuto il suo poema in mezzo ai tormenti del male, che è contrario al primo dei precetti testé accennati".
Ènotevole sottolineare che nel dialogo, di fronte all'autorevole ed esperto Prospero Martinengo, portavoce delle idee dell'autore, figuri un Tasso battuto prima che sul piano dei concetti, dalla sua giovane età e da una sostanziale inesperienza poetica (si finge infatti che egli abbia soltanto cominciato a comporre il poema), sì che i concetti del C. vengono espressi in forma dogmatica e quasi senza trovare resistenze.
Il poema cui accennava il Belloni è La Reina Ester (Genova 1615) preceduto dì un solo anno da un altro poema, anch'esso dedotto dal testo sacro, Lazzaro il mendico, di cui si è giustamente dimenticata la storiografia letteraria, mentre l'Ester ha avuto qualche tardivo estimatore fino nel nostro secolo. Le idee elaborate nel Gonzaga hanno in effetti il compito di sancire la validità strutturale di questo poema in ventidue lunghissimi canti (dedicati a Paolo Agostino Spinola), che è un vero e proprio romanzo rimato, abborracciato di episodi complicanti la linearità della narrazione, teso a suscitare la meraviglia per il numero straordinariamente ampio delle azioni e dei personaggi, a infondere il senso dell'esotico tramite la descrizione, quasi sempre estrinseca e sovrapposta, di paesi remoti e di costumanze disuete, "con le nostalgie e i richiami - ha osservato giustamente il Varese - alle glorie passate e presenti delle repubbliche italiane, dall'antica Roma a Genova", che si riflettono inevitabilmente "negli schemi narrativi e ideologici dell'opera". L'imitazione del Tasso è molto evidente (nonostante le distanze prese dall'autore del Gonzaga nei confronti della Gerusalemme Liberata) e come il poema del Tasso anche quello del C. andò incontro alla censura ecclesiastica nel 1621, forse per l'ostilità nei confronti dello scrittore dimostrata dal cardinale Giannettino Doria, è forse, come è più probabile, "quod historiae sacrae veritatem mendaciumcolis multis contaminasset": una serie di arbitri poetici che avevano, tra l'altro, dato origine a situazioni giudicate lascive. All'opera tuttavia non mancò un notevole successo (l'ebrea Sara Copia Sullam si invaghi del non più giovane poeta, vagheggiato come l'incomparabile cantore della storia sacra), che venne meno invece al terzo poema del C., Il Furio Camillo (Genova 1623), incentrato su un episodio di storia romana e alquanto più lineare nella trama, anche se povero nell'invenzione e con una scoperta ideologia repubblicaneggiante che ne appesantisce il modesto impianto narrativo.
Maggior fortuna ebbero le prove drammatiche del C. anche perché una sua tragedia, Le Gemelle capuane, fuaccolta dal Maffei nel secondo volume del suo Teatro drammatico (Verona 1728) nel tentativo di conferire una dignitosa tradizione classica e antifrancese all'esperimento della Merope. L'argomento delle tragedie del C., a parte La Principessa Silandra (Genova 1623), che è un vero e proprio aborto poetico, è rigidamente classico e svolto con un senso della sorpresa finale che si rivela, più che drammatico, novellistico. Nell'Alcippospartano (Genova 1623) il protagonista è calunniato e condannato all'esilio. La moglie, che è a conoscenza delle trame che hanno colpito Alcippo, resiste alle lusinghe del calunniatore e lo uccide tentando di incendiare. il palazzo dove risiedono gli efori. Scoperto il suo tentativo, ella ricorre al suicidio immolando sull'altare della giustizia irriconosciuta anche le sue due figlie. La scena delle Gemelle capuane si sposta dalla Grecia a Roma; il tempo è quello della seconda guerra punica. Un nobile capuano, Ca-avio, concede il diritto di ospitalità ad Annibale, di cui si innamorano entrambe le sue figlie, Trasilla e Pirindra. Quando Annibale lascia la casa per incontrare l'esercito nemico, esse vengono avvelenate dal fratello che si professa un ardente filoromano. Prima di morire esse tuttavia duellano ciascuna per salvare l'onore e l'amore del perfido cartaginese che in realtà le ha tradite. Non mancano in queste prove drammatiche una certa abilità, nel taglio delle scene, una certa sapienza nella ricerca degli effetti, anche se gioca un ruolo determinante in senso negativo l'inverosimiglianza psicologica dei caratteri nonché il tono melodrammatico che corrompe l'intelaiatura classicistica delle opere e finisce col provocare un senso di dispersione.
Merita non più che un cenno la traduzione da Teofrasto (ICaratteri moraliinterpretati per Ansaldo Cebà, Genova 1620), che pure avrebbe dovuto assolvere una funzione importante per l'attività drammatica dello scrittore genovese, ma che in realtà documenta solo una notevole esperienza filologica acquisita negli anni giovanili.
Fonti e Bibl.: Fonte principale della vita del C. sono le sue Lettere (Genova 1621) che furono tuttavia pubblicate senza data e seguendo un ordine diverso da quello cronologico. Cfr. inoltre: G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, II, 1, Venezia 1730, pp. 485 ss.; G. Spotorno, in Elogio diliguri ill., IV,Genova 1846, pp. 65 ss.; Id., Storia letter. della Liguria, Genova 1850, ad Indicem; A. Giuliani, A. C., in Giornale ligustico,IX (1882), pp. 1 ss.; G. Bertolotto, Liguri ellenisti: A. C., ibid., XVIII (1891), pp. 220 ss.; P. Restagno, Di un letter. genovese del sec. XVII e sue opere, Sampierdarena 1906; A. Belloni, Il Seicento, Milano s.d., ad Indicem; E.Zanette, Su A. C., in Convivium, IV(1932), pp. 94 ss.; R. De Mattei, L'idea democratica nel Seicento, in Riv. stor. ital., LX(1948), pp. 49 ss.; T. Bozza, Scrittori polit. dal 1550 al 1650, Roma 1949; E. Sarot, A. C. and Sara Copia Sullam, in Italica, XXXI (1954), pp. 138 ss.; C. Varese, Teatro, prosa, politica, in Storia della letter. ital. Garzanti, V, Milano 1967, ad Indicem.