CAMPEGGI, Annibale
Di nobile famiglia, nacque a Pavia nel 1593 e vi portò a compimento gli studi letterari e giuridici. Si distinse nell'Accademia degli Affidati come fine compositore e dicitore di versi e, aggregato al collegio dei giuristi e dei giudici, ebbe la lettura delle Pandette all'università nel 1619-20 e nel 1628. Nel 1621 celebrò, nel collegio dei chierici regolari, le virtù di Alessandro Sauli, il vescovo di Pavia santificato nel 1904, con un discorso in latino, nel quale l'enfasi mal sopperisce alla mancanza di autentica commozione, pubblicato l'anno dopo col titolo Icon B. Alexandri Sauli (Ticini 1622). La dottrina giuridica del C. è invece profusa nel trattato, dedicato, in data 3 giugno 1625, al Senato di Milano, In priores quatuor titulos Pandectarum nomicopoliticus commentarius (Ticini 1625), nel quale, non senza pretesa di originalità, intende "leges scilicet nomicopolitice explicare".
Spunti di indubbio interesse offre la prolusio, aliena da ogni facile ottimismo, improntata a una visione amara della vita dell'uomo e del suo rapporto con la natura, con espressioni magari logore, ma destinate a rivivere una volta riformulate e rinnovate nella poesia leopardiana. Il C. è convinto "nihil minus curae fuisse Naturae, quam hominis felicitatem"; che il dolore sia costitutivo dell'esistenza umana tant'è vero che "effractis... maternis claustris... inchoantes oculos lachrymis aperimus"; che l'istruzione e la cultura non siano che gli strumenti grazie ai quali "miserias nostras proprius, et apertius intelligamus". Il commentarius vero e proprio tratta via via: "de iustitia et iure"; "de origine iuris civilis et omnium magistratuum et successione iurisprudentium"; "de legibus, et senatus consultis, et longa consuetudine"; "de constitutionibus principum".
Ingegnosa mistura di prosa e versi latini è il Tetrachordum sive lusus quatuor (Ticini 1625), che il C. dedica all'influente patrizio Domenico Molin, gran protettore degli studi letterari e filologici; ogni lusus è legato ad una stagione: quello primaverile tratta dell'"amor venalis", l'estivo della "cicada", l'autunnale consiste in una "admonitio ad criticos et antiquarios", l'invernale riguarda la "nox, sive de origine proverbii non omnibus dormio".
Nel 1628 il C. si recò a Venezia; probabilmente dedicando i suoi artefatti scherzi al Molin, col quale dovette essere in corrispondenza - ci resta infatti una lettera speditagli dal C. il 31 ott. 1628 -, mirò a garantirvisi una efficace protezione.
Solo congetturabili i motivi del trasferimento. Forse dissapori accademici, forse inimicizie private, forse desiderio di evasione in un ambiente più libero e stimolante; senza addurre alcuna prova il Marchesi afferma che il C. "pe' suoi liberi sensi era stato dall'Inquisizione perseguitato e fatto prigione. Essendo riuscito a fuggire era venuto a Venezia a cercar protezione e tranquillità". Ma si stenta a ravvisare nello stucchevole esaltatore del devoto Alessandro Sauli un deciso eterodosso, un coraggioso libero pensatore; né basta a qualificarlo tale la tonalità pessimistica che caratterizza la premessa al suo commentarius, ché il deprezzamento dei valori mondani era un luogo comune di tante pie prediche e apocalittici sermoni, avallato per di più da tutta una tradizione ispirata ai testi biblici e patristici. Né è molto convincente il Loredan che, nel tracciare un rapido profilo del C., ce lo presenta come viaggiatore curioso per le città d'Italia, che, ad un certo punto, si ferma a Venezia. Indubbio invece che qualche grave motivo dovette indurlo ad abbandonare Pavia: Baldassare Bonifacio si rivolgeva a lui come esule in una breve composizione in versi ove gli ricordava Annibale, il suo grande omonimo, pur'egli "felix extra patriam... urbem, in patria semper... urbe miser", con la differenza che il C. fu colpito dalla "barbaries", mentre "ille vastavit contra barbarus Italiani". A tal proposito il C. è addirittura sibillino, limitandosi a dire che "tenor di stelle" lo portò "su questa riva d'Adria", a Venezia.
Quivi il C. divenne amico del Bonifacio - rimane una sua commossa lettera a questo dell'8 sett. 1630, ove piange la morte di un altro amico, il poeta Sigismondo Boldoni - e di Gianfrancesco Loredan, che era solito ragguagliare, quando si assentava da Venezia, sui più importanti "successi" di cui fosse a conoscenza; è il C., ad es., ad annunciare al patrizio, allora a Vigodarzere, il licenziamento del Wallenstein del luglio 1630. A sua volta il C. deve al Loredan l'ingresso, col nome di "academico oscuro", nella prestigiosa Accademia degli Incogniti, fondata nel 1630, dallo stesso Loredan, utilissimo punto di partenza, allora, per chi volesse emergere tra i tanti avventurieri della penna gravitanti sulla città lagunare. E nell'accademia il C. pronunciò, come attesta il Loredan, "i suoi finissimi discorsi, sparsi di tutte le perfettioni desiderabili", resi ancor più suggestivi dalla "gratia del comportamento". Tra questi particolarmente apprezzato quello sul "valore sconosciuto", tutto imperniato sul concetto che "la solitudine dell'huomo saggio è fruttifera alle humane società", nascendo dai suoi "silentii... gl'oracoli: il cessar dalle attioni civili in lui non è otio, ma negotio".
Quale omaggio di "persona ignota" al "meriggio di splendidissima gloria" il C. dedicava al Loredan Novelle due esposte nello stile di Giovanni Boccaccio (Venetia 1630), nelle quali la sincera ammirazione pel Boccaccio non bastò a trasformarlo in un suo felice imitatore, ché non gli riuscì di ravvivare temi ormai logori con presuntuose amplificazioni di stile ed estrinseche annotazioni morafistiche. Nella prima novella - originaria del Panciatantra, ma attinta dal C. da La moral filosofia di A. F. Doni, espunta però la parte finale - ritorna in scena la moglie adultera, la quale fa credere dovuta ad intervento divino la liberazione dalla colonna alla quale il marito l'aveva legata; nella seconda è dichiaratamente ripreso da Petronio il motivo, ormai stantio, della matrona di Efeso.
Sopraggiunta la peste, "ritiratosi - racconta il Loredan - Annibale alla Villa di Botenigo sopra la Brenta", vi morì, ancor giovane, il 22 nov. 1630. Sempre il Loredan enumera, oltre a quelli sopra ricordati, altri scritti del C.: un Satyricon de regimine principum; Carmina in due libri; Epistolarum libri tres, tutti purtroppo irreperibili; già A. Zeno, scrivendo il 28 ag. 1734 a Giusto Fontanini, lamentava non essergli "mai occorso di vedere le lettere latine" del Campeggi.
Fonti e Bibl.: La lettera del C. al Molin in Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, cod. It., cl. XI, 20 ( = 6789), n. 93; la lettera del C. al Bonifacio in Bassano, Biblioteca civica, Epistolario Gamba;B. Bonifacio, Musarum libri..., Venetiis 1646, pp. 274, 381, 456 s.; Il valore sconosciuto. Discorso del C. è stato edito in Discorsi academici de' signori incogniti, Venetia 1635, pp. 81-92; le due novelle del C. sono state riedite in Novelle amorose de' signori academici incogniti..., a cura di F. Carmeni, Venetia 1641, pp. 202-211, e in Cento novelle amorose de i signori accademici incogniti..., Venetia 1651, pp. 168-75; due lettere di Girolamo Aleandro il Giovane al C. in L. G. Pélissier, Les amis d'Holstenius, in Mélanges d'archéologie et d'histoire. Ecole française de Rome, VIII (1888), pp. 389-390; il profilo del C. scritto dal Loredan è in [G. F. Loredan], Le glorie degli incogniti..., Venetia 1637, pp. 46-49; G. F. Loredan, Lettere, Venetia 1676, pp. 218 s.; A. Zeno, Lettere..., V, Venezia 1785, p. 49; Mem. e docc. per la st. dell'univ. di Pavia..., I, Pavia 1878, p. 88; G. B. Marchesi, Per la storia della novella ital. nel sec. XVII. Note, Roma 1897, pp. 40 s.; B. Brugi, Per la storia della giurisprudenza e delle univ. ital. Nuovi saggi, Torino 1921. p. 145; L. Di Francia, Novellistica, II, Milano 1925, p. 316; G. Spini, Ricerca dei libertini..., Roma 1950, pp. 143 s.; F. A. Tasca, Personaggi noti e ignoti nella st. e nella cronaca di Pavia, Pavia 1951, p. 45; M. D'Addio, Il pensiero politico di Gaspare Scioppio, Milano 1962, p. 655; C. Iannaco, Il Seicento, Milano 1966, pp. 489, 526; A. Chiari, La fortuna del Boccaccio, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano 1968, p. 335 n. 102; G. Getto, Barocco in prosa e poesia, Milano 1969, p. 353; G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Bibl. d'Italia, LV, p. 45 n. 990.