BOZZUTO, Annibale
Appartenente a una nobile e antica famiglia napoletana del seggio di Capuana, non si conosce la data della sua nascita che dovette cadere negli anni intorno al 1520. Fece la sua prima apparizione nella vita pubblica della sua città, ancor giovanissimo, nel 1547 in occasione dei tumulti popolari contro la decisione del viceré di Napoli, Pedro di Toledo, di introdurre l'Inquisizione.
L'11 maggio, alla prima comparsa dell'editto vicereale che stabiliva il Tribunale del Santo Uffizio a Napoli, una violenta sommossa popolare prontamente appoggiata dalla nobiltà rivelò l'irriducibile volontà dei Napoletani di impedire a tutti i costi l'insediamento del tribunale. In tali circostanze il B. emerse tra i nobili "più zelanti e che più prendevano fatica delle cose della città", tanto che fu chiamato a far parte della delegazione cittadina inviata a portare al viceré la solenne protesta della cittadinanza per l'inconsulto provvedimento e fu incaricato, nonostante la giovane età, di rivolgere lui stesso la parola al viceré. Secondo la testimonianza concorde dei contemporanei raccolta dal Summonte, "parlò con tanta prontezza che fu cosa inaudita, facendoli chiaro che più presto la città sopportato havrebbe qual si voglia cosa che udir nominare inquisitione, e di tanta vehementia furono le sue parole che turbò fortemente l'animo del viceré, il quale irato oltre modo e sforzato dall'intemperanza disse: per Dio, che a vostro dispetto ponerò il tribunale dell'Inquisitione in mezo del mercato, per il che il Bozzuto liberamente e ferocemente li replicò che questo la città di Napoli giamai sopportato havrebbe" (Summonte, IV, p. 183).
La fiera risposta all'inflessibile viceré e la parte assunta nella direzione della rivolta gli costarono care: nell'agosto del 1547 don Pedro pubblicò una lista di persone maggiormente compromesse nei tumulti che venivano escluse dall'indulto emanato da Carlo V a favore della città; in essa figurava il nome del B., per il quale ora restare a Napoli significava esporsi alle violente rappresaglie del viceré abituato a punire con estremo rigore i suoi avversari politici. A questa prospettiva egli preferì l'esilio e la condizione del fuoruscito che gli precluse definitivamente ogni possibilità di riavere la grazia imperiale.
Riparò a Roma dove lo chiamavano i suoi rapporti di parentela con uno dei principali esponenti della Curia, il cardinale Alessandro Farnese, al cui seguito restò per tutto il corso della sua vita. L'esilio gli aprì così l'ingresso in prelatura nelle migliori condizioni per una scalata curiale degna delle migliori tradizioni napoletane. Nominato subito protonotario apostolico e referendario delle due Segnature, il B. sentì il bisogno di addottorarsi in utroque iure per aggiungere al favore del potente protettore il sostegno della cultura, viatico non disprezzabile a più ambiziose mete nella gerarchia ecclesiastica. Sempre per intercessione del Farnese il 4 giugno 1549 ottenne la nomina a prelato domestico di Paolo III e il 13 dello stesso mese a vicelegato di Bologna.
Nel frattempo non aveva tralasciato di sollecitare, tramite i canali della diplomazia pontificia, la concessione della grazia imperiale e la reintegrazione nei suoi beni. Il 12 giugno 1549 il cardinale Farnese interessò infatti il nunzio presso la corte di Carlo V, il vescovo di Fano Pietro Bertano, sottolineando il successo mondano del giovane prelato napoletano al quale la fortuna non poteva negare il perdono dell'imperatore: "Ricorderete ancora la cosa del signor Annibal Bozzuto, il quale è riuscito tanto dabbene e virtuoso che Sua Santità s'è risoluta mandarlo Vicelegato di Bologna, città tanto importante, con animo di tirarlo anco più innanzi di mano in mano. Onde potere instare appresso a Sua Maestà, che così per rispetto di Nostro Signore, e per farne favore a tutti noi, come anco per le buone qualità del detto signor Annibale, si degni riceverlo in grazia, che se ne resterà con molto obbligo alla Maestà Sua, ed a lei ne tornerà finalmente servizio" (Delle lettere del comm. A. Caro...., I, p. 93). L'imperatore restò però sordo alle lusinghe del prestigio mondano del B., che non mancò di ripagarlo distinguendosi sempre per acceso zelo antispagnolo.
Passato repentinamente dalle anticamere del Vaticano al governo di una città come Bologna, il B. si trovò in difficoltà e non riuscì a nascondere al Sacro Collegio cardinalizio, che dopo la morte di Paolo III sopraggiunta il 10 nov. 1549 aveva assunto il governo della Chiesa, la sua incapacità di assolvere onorevolmente il compito affidatogli. Il 21 genn. 1550 la congregazione generale cardinalizia decideva di nominare "novus gubernator, qui sit auctoritatis et aestimationis, cum ille, qui ibi nunc est, sit iuvenis et non aptus his temporibus ad tantum onus sustinendum" (Concilium Tridentinum, II, p. 103). Tale decisione non ebbe però esecuzione perché il giorno successivo la stessa congregazione deliberava di soprassedere alla nomina del nuovo vicelegato di Bologna in attesa degli avvenimenti. Le ragioni di un mutamento tanto repentino non sono note, ma non è difficile indovinare un intervento del Farnese a sostegno del suo protetto.
L'elezione del nuovo papa Giulio III, che entrò subito in rottura con i Farnese fino ad arrivare alla guerra col duca Ottavio al quale contestava il possesso di Parma, non fu per il B. l'evento più desiderato, anche se non si può certo dire che procurò al giovane prelato quelle difficoltà di carriera che ci si poteva aspettare. Egli restò nella sua carica bolognese, ma fu anche adoperato dal Farnese per una missione di fiducia presso il papa al quale doveva riferire, "essendo stato presente ed a parte di tutto quello che è passato", del suo tentativo di mediazione con Ottavio Farnese. Il B. arrivò a Roma nel maggio del 1551 e, come scrisse A. Caro al vescovo di Pola Antonio Elio loro comune amico, "è stato accolto benignamente dal papa, et ha fatto bonissimo ufficio per il dovere... Domandato che genti sono in Parma, ha detto 2 mila fanti eletti, et modo da farne quanti ne vuole; de le munitioni, ch'è guarnita di tutto, et ha da magnare per due anni: al qual suono S. S.tà alzò le ciglia" (Lettere d'uomini illustri..., p. 340). La mediazione non ebbe successo e fu la guerra: il B. se ne ritornò a Bologna al suo posto di vicelegato, come risulta da un suo dispaccio del 17 giugno.
Il breve soggiorno romano ebbe però per lui un movente ben altrimenti impegnativo: nel gennaio del 1551 il cardinal Farnese, gran cumulatore di benefici ecclesiastici tra i più ricchi della cristianità, si era deciso a cederne al suo fedele protetto, in omaggio ai deliberati del concilio di Trento, uno dei suoi più pingui, l'arcivescovato di Avignone. A Roma così il B. doveva sollecitare personalmente l'approvazione del pontefice e l'emanazione delle opportune bolle. E che assolvesse assai brillantemente questa incombenza si può dedurre dalla lettera che il cardinale B. Maffeo scrisse il 6 maggio al Farnese, comunicandogli: "questa mattina ho fatto l'ufficio con Nostro Signore che V. S. Ill.ma mi comanda per la sua del 30 del passato da Parma sopra la riserva di Avignone nel Bozzuto, della quale S. S.tà s'è contentata, laudando l'elettione di V. S. Ill.ma per conto della persona ch'è atta non solo a servire la chiesa, ma anco per il governo di quella città e legatione, essendo della scola di S. B.ne et non le mancando né ingegno, né lettere: et così si proporrà per il primo consistorio" (cfr. Lettere d'uomini illustri..., p. 348). Era un riconoscimento tra i più lusinghieri proprio perché gli veniva da un papa che non aveva alcun interesse a favorire un protetto del Farnese. Ma l'abilità tutta curiale del B. aveva saputo meritarlo. Al Farnese intanto la cessione dell'arcivescovato di Avignone, seppur con la riserva del regresso e con la sola disponibilità di una pensione di cinquecento ducati, sembrò presto un passo troppo arrischiato e nel corso dello stesso maggio del 1551 manifestò il proposito di ritornare sulla sua decisione. Il 18 maggio Annibal Caro ne scrisse allarmatissirno ad Antonio Elio, altro confidente del Farnese, supplicandolo di dissuadere il loro comune patrono da una decisione tanto sconcertante e dipingendogli con tutto l'appassionato calore che la condizione di cortigiano gli sapeva dettare le funeste conseguenze che ne sarebbero derivate al povero B.: "Ma io vi dico in ogni caso che, almeno per honor del padrone, dovete fare ogni opera che questo povero gentilhomo et tanto servitore de la casa non resti con questa vergogna. Già per commessione del cardinale se n'è parlato con N.S.re: S.S.tà se n'è contentata, l'ha più volte nominato arcivescovo e arcirocchetto con molta famigliarità, et li fa carezze assai. Quasi tutti i cardinali se ne sono rallegrati seco, et spetialmente Santa Croce gli ci ha fatto sopra un gran sermone. A casa ha un concorso di tutta la corte che se ne congratula seco. Et fin da Napoli glie n'è mandato il buon pro. Hora che ci rimane senza, vi potete imaginare che affronto li sarebbe: et sapete quanto sia sensitivo, et faccia professione d'honore. Senza dubbio il cardinale se lo perderebbe affatto" (cfr. Lettere d'uomini illustri..., p. 346).II B., aggiungeva il Caro, non sa ancora niente: è necessario riportare il Farnese alla sua decisione originaria prima che lo venga a sapere. L'intervento del Caro fu risolutivo: il 15 giugno il Farnese confermò la cessione dell'arcivescovato di Avignone al B., ma con la sola pensione di cinquecento ducati.
Una decisione che dovette costargli qualche fatica se solo il 16 giugno 1552 la notificò ufficialmente ai consoli, alla comunità, al capitolo e al vicelegato di Avignone, presentando il B., non senza una malcelata punta di rimpianto, come "prelato nobile napolitano per dottrina e per ogni altra qualità degnissimo d'ogni grado, e tanto nostra cosa che trasferendo in lui questa chiesa, ci pare che resti pure a noi medesimo" (cfr. Delle lettere del comm. A. Caro..., II, pp. 111 s.). Prelato di schietta tradizione curiale, il B. si guardò bene dal risiedere nella sua arcidiocesi che usò governare a mezzo del solito vicario generale. Nel marzo del 1553 vi fece in verità una capatina, ma seppe sfuggire alla tentazione di ritornarvi. Del resto il Farnese non gli lasciò godere troppo a lungo la pensione di cinquecento ducati e il prestigio che gli veniva dalla dignità arcivescovile: nel 1560 fece il primo tentativo e nel 1562 si riprese definitivamente l'arcivescovato.
Nel frattempo però il B. aveva fatto carriera negli ambienti di Curia, svincolandosi anche, non senza la consueta abilità, da una tutela, quella del Farnese, che minacciava di rivelarsi sempre meno rispondente al nuovo corso della politica curiale. Il 23 marzo 1555, alla morte di Giulio III, il B. fu nominato governatore di Roma e del conclave "con 200 scudi il mese di provisione". Riprese il governo del conclave il 1º maggio, subito dopo la morte, avvenuta il 30 aprile, di Marcello II. L'elezione del nuovo papa Paolo IV, il napoletano Gian Piero Carafa, fu per la carriera del B. un avvenimento della massima importanza: fuoruscito napoletano, nel corso dei suoi soggiorni romani non aveva certo tralasciato di coltivare buoni rapporti con gli altri esiliati che vi si raccoglievano e in particolare con i Carafa, come risultò dai costituti di Cesare Carafa. Certo è comunque che subito dopo l'elezione di Paolo IV egli emerse come uomo di fiducia del cardinal nepote, l'onnipotente Carlo Carafa, dal quale fu elevato all'alta carica di soprintendente dello Stato della Chiesa. Legatissimo ai Carafa (faceva parte anche della cerchia più intima, degli amici di Alfonso Carafa, altro nipote di Paolo IV), la sua posizione divenne ormai tale da indurre il decano del Sacro Collegio, il cardinale Du Bellay, a includere il suo nome in una lista di candidati alla porpora richiestagli dal papa.
L'indicazione del Du Bellay non ebbe seguito, ma il B. non ne perdette certo in influenza: negli anni della rottura pontificia con la Spagna fu, con i due fuorusciti fiorentini Giovanni Della Casa e Silvestro Aldobrandini, uno dei principali ispiratori della politica di Paolo IV, del quale è ricordato come consigliere e collaboratore. Il suo acceso zelo antispagnolo non sfuggì agli osservatori contemporanei e tanto meno all'inviato spagnolo marchese di Sarriá, che non mancò di far presente allo stesso papa i pericoli cui si esponeva assecondando i risentimenti antispagnoli di fuorusciti come il Bozzuto. All'ispirazione essenzialmente velleitaria della politica antispagnola dei fuorusciti accennò anche l'ambasciatore veneziano presso la corte pontificia, Bernardo Navagero, che nella sua relazione al Senato del 1558 ricordò come il B. nella sua qualità di "fuoruscito, disegnava la ricuperatione del regno di Napoli, non considerando... con che forze, e che non avevano altro fondamento se non in speranze vane di aiuti esterni e di rivolutioni di popoli, delle quali, quando l'uomo viene a far prova, si trova ingannato" (cfr. Relazione di Roma..., p. 405). Un'accusa di inconsistenza politica che era quanto mai giustificata, se si considera con quale clamoroso fallimento si sarebbe conclusa di lì a poco l'avventura antispagnola del Carafa.
L'influenza del B. alla corte pontificia restò comunque inalterata fino a quando la politica antispagnola sembrò avere una qualche prospettiva di successo. Nel febbraio del 1557 egli fu chiamato a far parte di una speciale congregazione istituita da Paolo IV per istruire il processo di scomunica a carico di Carlo V e di Filippo II, e nel maggio si pensò di mandarlo presso la corte francese per dar conto al re cristianissimo della tregua conclusa con gli Spagnoli sotto la minaccia di una completa invasione dello Stato della Chiesa. Ma già nel marzo la caduta in disgrazia di Silvestro Aldobrandini aveva segnato il momento del riflusso dell'influenza dei fuorusciti sulla politica papale che ora imboccò la via del compromesso con la Spagna. Nel settembre tale politica ebbe la sua definitiva sanzione nella capitolazione di Cave che pose fine all'avventura antispagnola e significò per il B. l'allontanamento dalla carica.
Bruciato da questa esperienza fallimentare, il B. sparì dalla scena politica romana. Di lui non si hanno più notizie fino al 1565, quando riuscì faticosamente a riemergere e a far dimenticare il suo passato di fedele collaboratore dei Carafa: il 12 marzo fu nominato da Pio IV cardinale e il 15 maggio fu pubblicato col titolo di S. Silvestro in Capite. Solo allora poté rientrare nel Regno di Napoli, ma la sorte non gli concesse di godere a lungo del felice coronamento delle sue ambizioni: il 6 ott. 1565 la morte lo colse a Chiaia dove era andato da Roma per curarsi una litiasi. Fu sepolto nel duomo e il fratello Fabrizio gli fece erigere un mausoleo per il quale dettò l'epigrafe il cardinale Guglielmo Sirleto.
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