Lucano, Anneo
Il poeta latino è in If IV 90, collocato nel Limbo accanto a Omero, Orazio, Ovidio e, implicitamente, a Virgilio; in Cv IV XXVIII 13 è definito quello grande poeta Lucano. Il suo poema, la Farsaglia, è dopo l'Eneide l'opera più sistematicamente sfruttata e considerata da Dante.
Al di fuori della Commedia, la Farsaglia è ricordata in Vn XXV 9 dove - a proposito delle personificazioni e dei discorsi diretti di divinità o di cose animate e inanimate - si citano passi di tutti e cinque i poeti classici del c. IV dell'Inferno e, per L., I 44 (" multum Roma tamen debet civilibus armis "), ma nella lezione della seconda mano del Montepessulanus H 113, e cioè debes, sì che il luogo è sibillinamente addotto come esempio del caso in cui parla la cosa animata a la cosa inanimata; in Cv III III 7, ove si ricorda l'episodio di Anteo in Ovidio (Met. IX 183-184) e in L. (Phars. IV 597-660); in V 12, ove si ricorda l'episodio di IX 438-543, della marcia di Catone nel deserto libico; in IV XI 3 (traduzione di Phars. III 118-121), ove si riassume il contenuto di I 160-182 (e appunto perché si tratta non di trascrizione ma di riassunto L. non è citato direttamente, ma parafrasato in volgare); in XIII 12, ove già si ricorda l'episodio di Cesare e Amiclate di V 527-531; in XXVIII 13, il celebre brano in cui s'interpreta allegoricamente l'episodio di Catone e Marzia di II 326-345, come storia delle esperienze dell'anima umana fino alla sua ascesa a Dio, parlando di quello grande poeta Lucano; in VE I X 6, in cui è parafrasata la descrizione dell'Appennino di II 396 ss.; in Mn II IV 6, in cui sono citati i vv. 477-480 del l. IX; in VII 10, in cui sono nuovamente citati gli episodi relativi ad Anteo nel l. IX delle Metamorfosi ovidiane e nel l. IV della Farsaglia; in VIII 7, 9 e 12 in cui sono citati rispettivamente i vv. 672-673 del l. II, i vv. 692-694 del l. VIII e i vv. 109-111 del l. I; in IX 17, in cui sono citati i vv. 135-138 del l. II, adottando per la prima parola del v. 136 la lezione tunc invece di tum del Montepessulanus e del Parisinus lat. 10314 normalmente accettata (una delle più tipiche questioni della critica testuale lucanea), e quindi allontanandosi proprio dalla lezione del Montepessulanus che abbiamo veduto invece preferita in Vn XXV; nell'epistola a Enrico VII (VII 16) ove sono citate con pieno consenso le parole di Curione a Cesare di Phars. I 280-282. E tacciamo della discussa epistola a Cangrande (XIII), in cui al § 63 è citato IX 580 luppiter est quodcunque vides, quocunque moveris, per illustrare Pd I 2 per l'universo penetra, e risplende: e anche qui, adottando la lezione quocunque invece del secondo quodcunque, si segue la seconda mano del Montepessulanus.
Dunque, sin d'ora, una serie cospicua di riscontri, che dimostra indiscutibilmente la conoscenza diretta e profonda del poema lucaneo da parte di D. e in una maniera da rivelare come esso avesse provocato in lui, al pari dell'Eneide, la tendenza a considerarlo come lievito di decisive esperienze spirituali, formative della sua coscienza morale e politica. Interessante è notare come alcuni episodi lucanei su cui più insiste D. nelle opere finora citate (proemio; brano dell'Appennino; episodio di Anteo; episodio di Cesare e Amiclate; episodio di Catone e Marzia; episodio di Catone nel deserto libico) sono anche quelli per cui l'influsso di L. si fa avvertire nella Commedia in forma più distesa e più penetrante: conferma dell'assidua ispirazione che D. richiese alla Farsaglia. E tralasciamo l'opinione di P. Renucci, il quale (D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 104) afferma che nella Commedia la conoscenza della Farsaglia comincia a manifestarsi dopo il c. VIII dell'Inferno, il che non potrebbe affermare se non sostenendo composti il Convivio, il De vulg. Eloq. e la Monarchia contemporaneamente all'Inferno; e per giunta il Renucci dimentica che già nella Vita Nuova D. aveva citato un verso lucaneo e che proprio lui ha sostenuto (pp. 98 e 176) che la Corniglia di If IV 128 è l'eroina lucanea e che gli eroi del Limbo derivano tutti dall'Eneide e dalla Farsaglia.
Chi legga la Commedia vede affiorare spunti lucanei in un fitto tessuto che denuncia l'assiduità con cui D. ha compulsato la Farsaglia rendendosela familiare: in If XX 46 ss. è ricordato l'indovino Arunte sulle orme di Phars. I 584 ss.; l'avvio del discorso di Ulisse ai compagni, in If XXVI 112 ss. O frati..., richiama la movenza di Phars. I 299 ss. " Bellorum o socii... "; Or le bagna la pioggia e move il vento, che commenta la sorte delle ossa di Manfredi in Pg III 130, richiama l'analoga riflessione di L. (VIII 698-699) sul cadavere di Pompeo (" litora Pompeium feriunt truncusque vadosis / huc illuc iactatur aquis "). A parte questi riscontri quasi nascosti, è facile ricordare che in If IV 123 la raffigurazione di Cesare armato con li occhi grifagni s'ispira alla maniera con cui L. presenta il dittatore, paragonandolo a un leone libico (I 205-212) o alla dea Bellona (VII 568-570) o presentandocelo con gli occhi spietatamente confitti sui nemici caduti dopo la vittoria di Farsalo e richiamante le fiere sui loro cadaveri insepolti (VII 789 ss.). Cinque versi più giù non deve quindi far meraviglia che si richiamino di seguito le tre principali eroine lucanee, Iulia, Marzïa e Corniglia, la figlia di Cesare e moglie di Pompeo, la moglie di Catone e la seconda moglie di Pompeo: proprio questa successione obbliga a concludere che la terza non è la madre dei Gracchi (come insistono a ritenere molti commentatori), ma appunto la vedova di Pompeo, che per giunta è il personaggio femminile su cui L. insiste di più. L'identificazione è ora accettata da J.A. Scott, Inferno XXVI: Dante's Ulysses, in " Lettere Italiane " LXI (1971) 166. Ai vv. 22-27 del c. IX dell'Inferno c'è il ricordo dell'episodio di Erittone, Eritón cruda (Phars. VI 507 ss.). È il primo luogo che ci consente d'istituire il nuovo metodo di studio per la tipica forma con cui si contraddistinguono nella Commedia i rapporti fra L. e D.: trattandosi infatti di un'opera di poesia e non solo di pensiero, come il Convivio, il De vulg. Eloq., la Monarchia e le Epistole, da cui finora abbiamo tratto la documentazione, il rapporto con L. non si limita più a una citazione, ma si configura anche come libera e meditata rielaborazione artistica. Il luogo che abbiamo davanti ci documenta una tendenza che si manifesta nella Commedia in quasi tutti i passi in cui si avverte l'influsso di L.: quella a condensare la prolissa, verbosa sovrabbondanza del testo riecheggiato, isolandone e ricalcandone in forma originale le espressioni più caratteristiche. Il richiamava l'ombre a' corpi sui nel v. 24 di D. riecheggia " revocatus " del v. 778 e " adspicit adstantem proiecti corporis umbram " del v. 720 di L.; Di poco era di me la carne nuda del v. 25 richiama la situazione generale dell'episodio lucaneo, ove l'ombra del soldato ha abbandonato il corpo da poco, e più specificamente i vv. 722-723 " ire in pectus apertum / visceraque et ruptas letali vulnere fibras ".
I versi di If XIV 13-15, col loro ricordo della marcia di Catone nel deserto libico, richiamano l'episodio del l. IX della Farsaglia; la rena arida e spessa riecheggia " steriles... harenas " del v. 378, " campos steriles exustaque mundi " del v. 382, " harenas / ingrediar " dei vv. 394-395, " ardor harenae " del v. 402, " multo congestu pulveris... adfusae magnus harenae agger " dei vv. 487-489 di L.; e da' piè di Caton già soppressa riecheggia " primusque gradus in pulvere ponam " del v. 395. Nei canti XXIV-XXV dell'Inferno incontriamo l'episodio in cui D. ha seguito L. più a lungo, l'unico in cui egli non ha soltanto ripreso situazioni e frasi caratteristiche, ma ha riprodotto per intero il tessuto della descrizione lucanea, riprendendone l'andatura affannosa, con piccole frasi a carattere paratattico, in cui l'espressione si segmenta e si sbreccia. Non a caso D. è ricorso all'eccezionale partito di denunciare espressamente il modello nei noti vv. 94-96 del c. XXV: Taccia Lucano omai... Già a partire dal c. XXIV, ai vv. 85 ss., si fa un elenco di serpenti che riproduce l'ostentato sfoggio lucaneo di cultura al riguardo: Più non si vanti Libia con sua rena; / ché se chelidri, iaculi e faree / produce, e cencri con anfisibena, / né tante pestilenzie né sì ree / mostrò già mai... " Lybia " è il termine che ricorre innumerevoli volte nel brano lucaneo; al v. 711 si legge " tractique via fumante chelydri "; al v. 720 " iaculique volucres "; al v. 721 " et contentus iter cauda sulcare parias " (e D. evidentemente seguiva la lezione " pharias " che ci danno, fra i principali, i codici Gemblacensis e Parisinus, Bibl. Nazionale 7900 A); al v. 712 " et semper recto lapsurus limite cenchris "; al v. 719 " amphisbaena " (e " amphisibena " è lezione del Vossianus alter XIX e della seconda mano del Montepessulanus, sì che dobbiamo riconoscere disperata la possibilità di determinare con precisione a quale tradizione manoscritta di L. per noi ricostruibile si congiungesse D.); al v. 734 si legge persino " has inter pestes ". Le espressioni dei vv. 100-102 sottolineanti la spaventosa rapidità dell'incenerimento di Vanni Fucci trovano corrispondenza nei vv. 781-784 di L., " Calido non ocius austro / nix resoluta cadit nec solem cera sequetur /... sed qui rogus abstulit ossa? ". Il " seps... exiguus " che si configge nella gamba di Sabello (vv. 763-764) e il " torridus... prester " che " percussit " Nasidio (vv. 790-791) trovano l'equivalente, nei vv. 83-84 del c. XXV, nel serpentello acceso, / livido e nero come gran di pepe che si avventa su Buoso Donati. E tutta la descrizione delle due orrende metamorfosi per cui da un lato si compaginano insieme una natura umana e una natura serpentina e dall'altro un uomo e un serpente si scambiano aspetto e natura è esemplata, in tutto lo sviluppo espressivo, sulle due descrizioni che L. fa della mostruosa agonia di Sabello e di Nasidio. I riscontri sono individuabili anche in tipici particolari: Sabello si svelle di dosso il serpentello " flexo dente tenacem " (v. 764); al v. 54 del c. XXV Cianfa Donati mutato in serpente ad Agnolo Brunelleschi li addentò e l'una e l'altra guancia. E non manca neppure la similitudine: in L., ai vv. 781 ss., il già ricordato " Calido non ocius austro ... "; in D. (If XXV 58-59) Ellera abbarbicata mai non fue.
In If XXVIII 96 ss. è introdotto Curione fra i dannati della nona bolgia (seminatori di discordia), sulla base dei versi lucanei citati nell'epistola a Enrico VII: il dubitar sommerse / in Cesare richiama I 272-273 " ducem varias volventem pectore curas / conspexit "; affermando che 'l fornito / sempre con danno l'attender sofferse riecheggia L. I 281 " tolle moras; semper nocuit differre paratis ". E persino l'apparizione del personaggio (con la lingua tagliata ne la strozza / Curïo, ch'a dir fu così ardito) è in certo modo ispirata, anche nella strùttura sintattica, al v. 269 di L., " audax venali comitatur Curio lingua ". E nella determinazione del contrapasso si avverte anche l'eco dell'altro luogo dedicato da L. a Curione, IV 805-806 " Has urbi miserae vestro de sanguine poenas / ferre datis, luitis iugulo sic arma ": l'espressione allusiva al colpo di spada che aveva sgozzato Curione è divenuta in D. il colpo che trinciandogli la lingua perpetua la sua pena.
Nel c. XXXI dell'Inferno troviamo un altro episodio, quello di Anteo, in cui un episodio lucaneo corrispondente (IV 589-655) appare assiduamente sfruttato da vicino. Già al v. 98 è introdotta la menzione del " Briareus... ferox " ricordato da L. al v. 596; e Briareo è definito feroce al v. 105. I versi con cui all'inizio Virgilio si rivolge ad Anteo (O tu che ne la fortunata valle / che fece Scipïon di gloria reda, / quand'Anibàl co' suoi diede le spalle) riecheggiano i vv. 656-660 che chiudono l'episodio lucaneo: " Sed maiora dedit cognomina collibus istis, / Poenum qui Latiis revocavit ab arcibus hostem, / Scipio. Nam sedes Libyca tellure potito / haec fuit. En veteris cernis vestigia valli; / Romana hos primum tenuit victoria campos ". Il successivo v. 118 recasti già mille leon per preda riecheggia " epulas raptos habuisse leones " del v. 602; e gli ulteriori versi (e che, se fossi stato a l'alta guerra / de' tuoi fratelli, ancor par che si creda / ch'avrebber vinto i figli de la terra) parafrasano l'identica riflessione di L. ai vv. 596-597 " caeloque pepercit / quod non Phlegraeis Antaeum sustulit arvis ". Il paragone onorifico con Briareo, Tifone e Tizio con cui L. (vv. 595-596) apre il discorso su Anteo suggerisce a D. non solo la già ricordata menzione iniziale di Briareo, ma anche la preghiera di Virgilio al v. 124 Non ci fare ire a Tizio né a Tifo. E quando Anteo accoglie la preghiera del poeta (e quelli in fretta / le man distese, e prese 'l duca mio, / ond'Ercule senti già grande stretta), si avverte l'eco dei vv. 617 (" Conseruere manus et multo bracchia nexu ") e 632 (" Herculeosque novo laxavit corpore nodos "), con l'ingegnosa inversione di circostanze, secondo cui, mentre in L. è Anteo a svincolarsi dalla stretta di Ercole, in D. è Ercole a sentire la stretta di Anteo.
All'inizio del Purgatorio troviamo l'episodio in cui l'influsso lucaneo si è impresso più nel profondo della concezione ideologica e artistica di D.: l'episodio di Catone. Agli scopi dell'attuale voce - che mira a sottolineare più che altro i rapporti materiali fra il testo di L. e quello di D. - mette conto sottolineare che sia la presentazione di Catone sia il suo dialogo con Virgilio sono ispirati al già ricordato brano di Catone e Marzia nel libro II della Faraglia.
La raffigurazione di Pg I 34-36 (Lunga la barba e di pel bianco mista / portava, a' suoi capelli simigliante, / de' quai cadeva al petto doppia lista) è ispirata a Phars. II 375-376 " intonsos rigidam in frontem descendere canos / passus erat maestamque genis increscere barbam ". E il ricordo che Virgilio gli formula di Marzia ai vv. 79-80 (Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega, / o santo petto, che per tua la tegni) riecheggia II 341-344 " Da foedera prisci / inlibata tori, da tantum nomen inane / conubii, liceat tumulo scripsisse: ‛ Catonis/Marcia ' ". E la sdegnosa risposta di Catone (Marzïa piacque tanto a li occhi miei / mentre ch'i' fu' di là... / Or che di là dal mal fiume dimora, / più muover non mi può) applica alla straordinaria situazione quanto è detto da L. ai vv. 390-391 " nullosque Catonis in actus / subrepsit partemque tulit sibi nata voluptas ".
I vv. 136-138 del c. IX del Purgatorio presentano un altro ben noto spunto lucaneo: udendo stridere la porta del Purgatorio vero e proprio, D. dichiara che non rugghiò sì né si mostrò si acra / Tarpëa, come tolto le fu il buono / Metello, per che poi rimase macra. È un'evidente allusione all'episodio del libro III della Farsaglia descrivente la spoliazione dell'erario da parte di Cesare e la vana resistenza del tribuno Metello. Vi sono particolarmente riecheggiati i vv. 153-155 (" Protinus abducto patuerunt tempia Mecello. / Tunc [e al solito la variante tum appare nel Gemblacensis] rupes Tarpeia sonat magnoque reclusas / testatur stridore fores ") e i vv. 167-168 (" tristi spoliaritur tempia rapina, / pauperiorque fuit tunc [tum nel Gemblacensis] primum Caesare Roma "): che D. parafrasi il passo con poi fa sospettare che egli leggesse tunc piuttosto che tum. Piuttosto è da ricordare che il Grabher ha avvertito come qui allo spunto lucaneo s'intrecci uno spunto virgiliano da Aen. VI 573-574, al quale l'autore di questa voce ne ha aggiunto un secondo, desumibile dall'episodio di Orfeo ed Euridice nel IV delle Georgiche, per la proibizione fatta a D. di voltarsi indietro.
I vv. 31-32 del c. XIV del Purgatorio rappresentano il più classico esempio di felice sintesi dantesca di un diffuso episodio lucaneo: essi costituiscono infatti un penetrante riassunto della descrizione dell'Appennino (Phars. II 394-438). Infatti ov'è sì pregno / l'alpestro monte concentra con la mirabile suggestione dell'aggettivo la pomposa immagine dei vv. 403-404 di Lucano: " Fontibus hic vastis inmensos concipit amnes / fluminaque in gemini spargit divortia ponti ". E il riscontro con L. mostra che ha ragione il Landino che intendeva pregno come " pregno d'acqua, perché in poco spazio produce Arno e Tevere ", e non i commentatori come il Sapegno, che sulla base di Pietro, di Benvenuto e del Buti lo intendono come " più grosso e panciuto nel giogo di Falterona ". Il rapporto con L. è poi ribadito da ond'è tronco Peloro, che riecheggia Phars. II 437-438 " At postquam gemino tellus elisa profundo est, / extremi colles Siculo cessere Peloro ".
Ai vv. 101-102 del c. XVIII del Purgatorio D., introducendo, come esempio di sollecitudine che gli accidiosi si ripetono a propria mortificazione e ravvedimento, quello della rapidità. con cui Cesare, posto l'assedio a Marsiglia, si volse verso la Spagna, si è ispirato a Phars. III 453-455 dove " haesuri ad moenia Martis " è riecheggiato in punse Marsilia, e " versus ad Hispanas acies " è riecheggiato in corse in Ispagna. Articolando più sapientemente la sua tecnica di concentrare in pochi sapidi tocchi la suggestione di un esteso brano lucaneo, D. ha insistito invece in due luoghi diversi sullo spunto lucaneo della rapidità di Cesare. Infatti su di essa si torna nel c. VI del Paradiso, là dove Giustiniano al v. 64 riprende il medesimo spunto lucaneo del " versus ad Hispanas acies ", riecheggiandolo più da vicino con Inver' la Spagna rivolse lo stuolo, anche se in D. lo stuolo è l'esercito di Cesare, mentre in L. le " acies " sono quelle dei suoi nemici; ai vv. 67-68 (Antandro e Simeonta, onde si mosse, / rivide e là dov'Ettore si cuba) è riassunto di Phars. IX 950-999 in cui si descrive la visita di Cesare alle rovine di Troia dopo la vittoria di Farsalo: basta pensare al v. 962 " Simoentis aquas ", e ai vv. 976-977 " manes / Hectoreos ", anche se poi con la menzione di Antandro, cioè il porto della Frigia da cui salpò Enea, s'intreccia uno spunto virgiliano da Aen. III 6. Ma agli spunti dei libri III e IX della Farsaglia si sovrappone, nella mossa iniziale dei vv. 58-60 (E quel che fé da Varo infimo a Reno, / Isara vide ed Era e vide Senna / e ogne valle onde Rodano è pieno), l'influsso del grande squarcio d'avvio di Phars. I, in cui L. si diffonde sugli accampamenti gallici di Cesare testimonianti la sua conquista (vv. 392-465), e ove ai vv. 399-401 si legge " Isarae, qui gurgite ductus / per tam multa suo, famae maioris in amnem / lapsus, ad aequoreas nomen non pertulit undas " (c'è quindi anche l'idea del Rodano che s'impingua delle acque di altri corsi), al v. 404 si legge " finis et Hesperiae, promoto limite, Varus ", al v. 425 si legge " optima gens flexis in gyrum Sequana frenis ", ai vv. 433-434 si legge " qua Rhodanus raptum velocibus undis / in mare fert Ararim " (e nello Era di D. si potrebbe ancora ravvisare una forma corrotta di " Arar ", a differenza dai commentatori che vi scorgono la Loira); ai vv. 464-465 si legge " Rhenique feroces / deseritis ripas ". E il successivo e saltò Rubicon (v. 62) s'ispira, con la solita felice condensazione di segno e d'immagine, a quanto è detto prima in L. (queste inversioni nella successione degli spunti sono frequenti in D. quando rielabora influssi di antichi testi) a proposito del passaggio del Rubicone da parte di Cesare (vv. 213-222), ove si legge fra l'altro: " molli tum cetera rumpit / turba vado faciles iam fracti fluminis undas ". Finalmente i vv. 67-69 del c. XI del Paradiso s'ispirano al celebre episodio di Cesare e Amicla di Phars. v: e bastano a confermarlo l'appellativo " secura " che al v. 515 L. dà alla " domus " di Amicla, il fatto che ai vv. 528 e 539 l'aggettivo " pauper " è assegnato al pescatore quasi come epiteto fisso, e tutta la digressione ai vv. 527-531, su cui D. ci palesa di aver strutturato la sua terzina: " O vitae tuta facultas / pauperis angustique lares ! o munera nondum / intellecta deum! Quibus hoc contingere templis / aut potuit muris nullo trepidare tumultu Caesarea / pulsante manu? ".
È innegabile che L., nella storia ideologica delle lettere latine, rappresenta sotto molti aspetti un contrapposto a Virgilio, cioè all'autore più intimamente assorbito e rivissuto da D. considerato da lui suo maestro, ed effettivo telaio e sostegno, col suo poema, della sostanziale impostazione ideale sia della Monarchia sia del poema. Tradizionalmente si è voluto vedere in L. quegli che, rivalutando tutte le pregiudiziali dell'opposizione repubblicana anche in senso antiaugusteo, ha considerato una iattura per Roma l'instaurazione del regime imperiale, e in conseguenza ha bruscamente capovolto tutte le peculiari caratteristiche dell'Eneide, ritornando all'epos nettamente storico di contro alla singolare impostazione mitologico-storica dell'Eneide, eliminando l'intervento provvidenziale della divinità a favore di quello della Fortuna, sostituendo un'interpretazione duramente pessimistica della storia umana, e romana in particolare, a quella religiosamente ottimistica di Virgilio. Di recente la bibliografia lucanea si è distinta in notevoli tentativi di rettificare questa decisa, lineare impostazione, dei quali il più singolare è stato quello di Jacqueline Brisset (Les idées politiques de Lucain, Parigi 1964; vedine, per intenderne le possibilità di fecondo dibattito ideologico e problematico, la recensione di E. Paratore, in " Latomus ", 1965, 678-681), mirante a configurare il poema lucaneo come non antitetico, ma integrativo di quello virgiliano nel senso che, come Virgilio aveva prospettato l'origine provvidenziale di Roma e dell'Impero come salvaguardia di tutti i principi ideali e morali più utili all'umanità e come perenne, imperitura garanzia della loro sopravvivenza, così L., fondandosi sul principio che una costante beatitudine di entità terrene si tramuta in peccato di ὕβρις che attirerebbe su loro la rovina, ha voluto interpretare la iattura delle guerre civili e dell'instaurazione dell'autocrazia imperiale come lo scotto che Roma ha dovuto pagare per la sua lunga felicità, ponendosi quindi in condizione di riacquistare successivamente uno stato più prospero, che, almeno nella prima cortigianesca formulazione del concetto, si sarebbe realizzato nel felice inizio del regno di Nerone. Per conseguenza il celebre verso lucaneo (i 128) " victrix causa deis placuit, sed victa Catoni " non costituirebbe la testimonianza dell'atteggiamento stoico distruggente l'ingenua fede tradizionale negli dei in nome del culto della virtus e quindi l'esaltazione della figura di Catone come portavoce supremo degl'ideali del poeta ed effettivo fulcro dell'opera (che è poi l'eredità trasmessa a D.), ma andrebbe inteso nel senso che la severa intransigenza di Catone non sarebbe stata capace d'intuire la riparatrice provvidenzialità delle dure prove abbattutesi su Roma, che invece la divinità, di cui anche la Fortuna dovrebbe esser considerata un'ipostasi, ha organizzate a fin di bene. Anche se indubbiamente D. non ha potuto concepire in questo senso la conciliazione fra il punto di vista di Virgilio e quello di L., certo tentativi come quello della Brisset contribuiscono a renderci accettabile e familiare l'idea di un meditato incontro integrativo, nello spirito di D., fra il messaggio del poeta di Mantova e quello del poeta di Cordova. Ma successivamente il Paratore (La storia di Roma nella poesia epica latina, in " Rendic. Accad. Lincei " V [1970] 171-173) ha posto in rilievo luoghi di L. finora poco considerati dalla critica, che paleserebbero un'indubbia velleità di polemica contrapposizione a Virgilio e di ritorsione di sue capitali prospettive.
A ogni modo, sia o non sia accettabile l'ingegnoso sforzo conciliativo della Brisset (e che in L. sia possibile intravvedere un ritorno di fortuna per Roma sembra negarlo O. Schrempp, Prophezeiung und Rückschau in Lucans " Bellum civile ", Winterthur 1964, specie a pp. 87 ss.), indubbiamente D. avvertì la lezione di Virgilio e quella di L. come integrantisi fra loro. Un po' questo è indiscutibilmente dovuto al fatto che per lungo tempo, anche nei secoli successivi dell'Umanesimo e del Rinascimento, la tradizione classica fu avvertita e venerata come un blocco unico, comunicante ai ben avventurati spiriti capaci di avvicinarvisi una coerente, immutabile lezione di saggezza. Se d'ingenuità o acriticità si deve parlare, questa non è da addebitare singolarmente a D., ma a tutta la cultura del tempo, portata a distillare da tutti i testi classici allora noti un insieme d'insegnamenti morali che faceva automaticamente di ogni autore l'eco e il corrispettivo dell'altro, anche a costo di lasciarsi sfuggire le palesi differenze d'idee, di sentimenti e di gusto.
A noi oggi non può mancar d'infondere stupore il fatto che D., dopo aver considerato Cesare (si ricordi, a tacer d'altro, il canto di Giustiniano) il fulcro provvidenziale della storia umana, in quanto instauratore di quell'Impero che rese possibile l'opera redentrice di Cristo, abbia ripreso da L. la condanna di Curione (If XXVIII 94-102) come istigatore di Cesare alla guerra civile (mentre nell'epistola a Enrico VII le parole di Curione sono citate con pieno consenso), la lode di Metello (Pg IX 136-138) per il suo tentativo d'impedire a Cesare la depredazione dell'erario; e non parliamo di Pg VI 125-126, ove il ricordo di Marcello è stato ricollegato a Phars. I 313, mentre forse sarebbe più opportuno ricondurlo a Giovenale Sat. II 145 (v. GIOVENALE). E anche quel colui ch'a tutto 'l mondo fé paura di Pd XI 69 introduce nella considerazione di Cesare un tono che è proprio quello originario lucaneo (cfr. Phars. V 530-531 " nullo trepidare tumultu / Caesarea pulsante manu "), quello del poema in cui Cesare è raffigurato come forza demoniaca. A noi suscita stupore soprattutto il fatto che, mentre l'Inferno termina con la visione degli uccisori di Cesare, Bruto e Cassio, maciullati dalla bocca di Lucifero alla pari di Giuda, quasi che l'offesa fatta al fondatore dell'Impero sia pari alla nequizia di chi ha venduto Cristo, il Purgatorio s'inauguri presentandoci a custode della sacra montagna Catone l'Uticense (v. ANTIPURGATORIO; CATONE). E la figurazione di Catone nei primi due canti del Purgatorio deriva fondamentalmente da L., e pur dai vv. 326-391 del libro II della Farsaglia.
L'antitesi Cesare-Catone dev'essere stata attentamente sentita da D., proprio sulle orme di Lucano. Il Paratore (cfr. Lucano e D., ora in Antico e nuovo, Caltanissetta 1965, 169-170) ha posto in rilievo che - fatta eccezione per If IX 22-27 e Pg XIV 31-32 - " i numerosi echi di Lucano nella Commedia si dispongono coerentemente intorno alle due grandi figure contrapposte di Cesare e di Catone, fondamentali anche per l'impalcatura ideologica del poema dantesco ". Singolare a ogni modo - e qui forse l'influsso lucaneo dev'essersi esercitato - che, mentre i pagani Rifeo e Traiano sono assunti in Paradiso, mentre al suicida Catone si attribuisce l'incarico altamente significativo di custode del Purgatorio, facendoci supporre la sua ulteriore assunzione in Paradiso, Cesare - che pure il c. XXXIV dell'Inferno ci raffigura martire di un valore essenziale per l'umanità quasi alla pari di Cristo - non ha trovato modo in D. di essere assunto come che fosse nella schiera degli eletti ed è rimasto confinato nel Limbo, come del resto lo stesso Virgilio (e questo è forse il segreto strutturale che spiega l'identità dei due destini e forse ci apre la strada a una soluzione più coerente del problema di Catone). A ogni modo intorno a Cesare ruotano, degli spunti lucanei, i già ricordati luoghi relativi a Curione, a Metello e al viaggio marino di Cesare con Amiclate; inoltre si consideri nel c. XXXI dell'Inferno l'episodio di Anteo (già ripreso in Cv III III 7 e in Mn II VII 10) elaborato su Phars. IV 589-660, ove esso è introdotto in funzione dell'impresa africana di Curione; D. fa risaltare più liberamente, senza l'acre pessimismo ispirato a L. dalla condanna delle guerre civili, il ricordo che lì si affermò la prima gloria militare oltremarina di Roma (If XXXI 115-117 ne la fortunata valle / che fece Scipïon di gloria reda, / quand'Anibàl co' suoi diede le spalle: già L. non si era potuto tenere dall'osservare - vv. 656-660 -: " Sed maiora dedit cognomina collibus istis, / Poenum qui Latiis revocavit ab arcibus hostem / ... Romana hos primum tenuit victoria campos "). E la grandezza di Cesare, quel genio militare fatto soprattutto di vertiginosa rapidità, è esaltata da D. proprio sulle orme di L.: la sua sollecitudine è addotta a esempio dalle schiere degli accidiosi in Pg XVIII 101-102 sulle orme di Phars. III 453-455, e il medesimo brano lucaneo è riecheggiato da Giustiniano in Pd VI 58 ss., insieme con Phars. I 392 ss., rievocante a lungo le imprese galliche del dittatore, e IX 950-999, ove il soffermarsi di Cesare sulle memorie di Troia fornisce al poeta l'occasione di presentare una volta tanto Cesare con un po' di ammirata simpatia, tanto che proprio in quell'occasione egli trova modo (vv. 985-986) di affermare: " Pharsalia nostra / vivet ".
Questo aver tratto da L., nei riguardi di Cesare, proprio l'esaltazione della sua grandezza di condottiero comincia a farci intendere lo spirito con cui D. si è accostato alla Farsaglia, considerandola, sulle orme dell'Eneide, come un tesoro d'insegnamenti sulle caratteristiche, formative virtutes romane: che è poi lo spirito tipico dell'originaria epica latina (cfr. E. Paratore, La storia di Roma, cit.). Se ci volgiamo a considerare gli episodi ispirati a L. nei riguardi di Catone troviamo che, a parte quello iniziale del Purgatorio, gli altri sono sempre connessi con l'attività di Catone come condottiero, quasi a porre sul medesimo piano i due grandi competitori. In If XIV 13-15 c'è la precisa allusione a Phars. IX 378 ss. e 587-591 nella sua descrizione delle sabbie del deserto libico e della fermezza di Catone nel guidare le truppe durante l'arduo cammino; nella bolgia dei ladri v'è il ricordo delle terribili avventure subite dai soldati di Catone in quel drammatico viaggio. Ciò non toglie che già in Mn II IX 17 D. avesse accettato in pieno la deprecazione lucanea delle guerre civili, riportando Phars. II 135-138. D'altra parte la religiosa deferenza con cui D. parla di Catone, e che gli permette di far di lui, pagano e suicida, il custode del Purgatorio, è da ricollegare con l'insegnamento lucaneo. È fin superfluo andar raccogliendo i passi delle precedenti opere di D. (Cv IV V 16, VI 10; Mn II V 15 e 17) in cui di Catone si parla con tale religiosa deferenza, giudicandolo degno più di ogni altro di significare Iddio (Cv IV XXVIII 15), esaltando lo inenarrabile sacrifitium severissimi verae libertatis tutoris Marci Catonis (Mn II V 15); e quando ci si rifà alla famosa terzina del c. I del Purgatorio (vv. 70-72), non si può far a meno di rintracciarne gli echi in Pd V 19-22 Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate / più conformato, e quel ch'e' più apprezza, / fu de la volontà la libertate; e in Pd XXXI 85 Tu m'hai di servo tratto a libertate. L. da parte sua aveva parlato (IX 409) di " sacrum... nomen " di Catone e non aveva esitato a proclamare (IX 601-604): " Ecce parens verus patriae, dignissimus aris, / Roma, tuis, per quem numquam iurare pudebit, / et quem, si steteris umquam cervice soluta, / nunc, olim, factura deum es ", e aveva fatto dire da Labieno all'eroe della virtus (IX 554-555): " Nam cui crediderim superos arcana daturos / dicturosque magis quam sancto vera Catoni? ", e gli aveva fatto rispondere dallo stesso Catone (IX 573-574): " Haeremus cuncti superis, temploque tacente / nil facimus non sponte dei ": versi, questi, che insieme coi successivi esprimono la tipica polemica stoica contro l'ingenuo animismo della religione ufficiale, ma che D. - anche se dalla letteratura apologetica e patristica doveva essere abituato a considerare testi del genere come indizi di un atteggiamento precristiano in ambiente pagano - doveva esser portato a valutare soprattutto in funzione della statura eccezionale, quasi divina della figura di Catone; e ciò anche se non sia il caso di accettare integralmente l'opinione di M. Sansone (Il canto I del " Purgatorio ", Roma 1955, 8-9), che si fonda sul passo lucaneo ora citato per dedurne che D. vi doveva trovare, in Catone, la prerogativa della fides implicita.
Del resto Virgilio e L. erano per questo così radicalmente compaginati nello spirito di D. che, come tutti sanno, egli trovava proprio in Aen. VIII 670 il più concreto suggerimento dell'ufficio da lui attribuito a Catone (" secretosque pios, his dantem iura Catonem "); e non è a dire quanto questa singolare testimonianza virgiliana debba averlo aiutato ad accettare in pieno il messaggio di L., a trovare un'uniformità di vedute nei due poemi, a costituire Catone accanto a Cesare come personaggio decisivo della più valida e più perenne eredità spirituale di Roma. Per converso, quasi a ribadire il collegamento che egli avvertiva fra Virgilio e L., ecco che egli fa di Virgilio, in If IX 22-27, un'ombra evocata e costretta dalla lucanea maga Erittone: la più clamorosa manifestazione della tendenza a valorizzare gli spunti magici, esoterici, tenebrosamente ultraterreni che gremiscono la Farsaglia, nel medesimo spirito con cui Caronte, Minosse, le Arpie, Caco, Flegiàs di Virgilio sono ripresi e adibiti a figurazioni demoniache nell'Inferno; così in If XX 46-51 l'aruspice Aronta è introdotto nella bolgia degl'indovini sulla traccia di Phars. I 580 ss.
Tutto quello che, al difuori della contesa sul destino e l'esatta collocazione oltremondana di Catone, rimane a ogni modo indistruttibile e serve proprio a ribadire l'importanza dell'eredità lucanea in D. accanto a quella virgiliana è che - come ha notato anche E. Raimondi (Il I canto del Purgatorio, in Lect. Scaligera II 14 ss.) - Cesare e Catone finiscono per profilarsi, nella Commedia non meno che nella Farsaglia, in antitesi, ma non, come in L., in antitesi d'inconciliabile opposizione, bensì in un'antitesi complementare, come ha chiarito G. Vinay nella sua edizione commentata della Monarchia (Firenze 1950, 140, 159): " dietro di loro [i Romani] c'è Cincinnato, ci sono i Deci, c'è Muzio Scevola, c'è Catone stesso; ci sono gli assertori della morale romana "; e prima: " Catone, come Muzio Scevola e gli altri, è un esempio che serve a Dante per giustificare l'Impero, resta cioè un modello interno, diciamo, alla storia di Roma ". In questa direzione ha proceduto ancor più fattivamente e persuasivamente il Pasquazi (Catone, in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 533): " In una visione totale dei destini dell'uomo, qual è quella della Commedia, l'Impero, pur degno di tutta quella reverenza che D. gli attesta, appare insufficiente all'attuazione di tali destini, in quanto non può, né di diritto né di fatto, andare al di là di quei limiti umani entro cui ha il compito di operare; e allora è necessario che sia in qualche modo integrato da una coscienza della propria insufficienza, da una consapevolezza, cioè, di quei fini della persona, che abbiamo cercato di indicare come libertà teologale e disponibilità al divino: cioè, è necessario che Cesare sia integrato da Catone. In tal senso, dunque, l'antitesi Cesare-Catone non è contraddittoria, ma complementare ". Non per niente L. definisce Catone (II 388) " Urbi pater... Urbique maritus ". Cfr. ora anche E. Raimondi, in Metafora e storia, Torino 1970, 82 n. 1. A p. 76 n. 1 egli attenua il riscontro col passo lucaneo.
A ogni modo ciò che è stato detto sull'antitesi complementare di Cesare e Catone nella Commedia riguardo a ciò che è il fondamentale telaio d'ispirazione del poema (ideale dell'Impero come potenziamento dei superiori valori etici nella vita terrena ai fini della salvazione eterna) dimostra la fondamentale importanza dell'influsso di L. su Dante. Cesare - come tutti sanno - è quasi del tutto assente dall'Eneide; l'antitesi Cesare-Catone discende tutta dalla Farsaglia, sì che abbiam visto che anche i numerosi spunti lucanei nella Commedia ruotano tutti intorno alle figure di Cesare e di Catone, salvo due eccezioni. L., con la funzione di Catone (che D. ha giustamente intuito come il protagonista della Farsaglia, mentre oggi la critica vorrebbe restringerne il significato), ha fornito alla Commedia l'altro fulcro del congiungimento del mondo religioso e politico di D. con la tradizione classica, accanto a Virgilio. Tutta la struttura del poema conferma quindi perché D. giudicasse L. quello grande poeta.
Bibl. - Oltre alle opere già citate nel corso della voce, si vedano: S. Frascino, Cesare, Catone, Bruto, in " Civiltà Moderna " II (1930) 850 ss.; W.H. Friedrich, Cato, Caesar und Fortuna bei Lucan, in " Hermes " LXXIII (1938) 391 ss.; J. Oeschger, Antikes und Mittelalterliches bei D., in " Zeit. Romanische Philol. " XLIX (1944) 32-33; E. Malcovati, L., Brescia 1947; M. Casella, Interpretazioni. I: La figura simbolica di Catone, in " Studi d. " XXVIII (1949) 183 ss.; R.T. Bruère, The scope of Lucan's historical epic, in " Classical Philol. " XLV (1950) 217 ss.; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1951, passim; H.G. Gmelin, D. und die römischen Dichter, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXII (1953) 58; A. Pézard, Le chant premier du Purgatoire, in " Annales du C.U.M. " IV (1955) 5-20; M. Marti, Aspetti stilistici di D. traduttore, in Realismo dantesco ed altri studi, Milano 1956, 123 (per una poco considerata derivazione di Cv IV XIII 12 da Phars. V 527-529); F. Schneider, D., sein Leben und sein Werk, Weimar 19605; 55; E. Bigi, Il c. I del Purgatorio, in Lett. dant. 671-682; J.L. Pagano, Caton de Utica en la D.C., in Evocaciones, Buenos Aires 1964; E. Fraenkel, Lucan als Mittler des antiken Pathos, in Kleine Beiträge zur klassischen Philologie, II, Roma 1964, 236-237, 256-263; G. Martellotti, D. e i classici, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 125-137; E. Paratore, L. e D., in Antico e nuovo, Caltanissetta-Roma 1965, 165-210; ID., D. e il mondo classico, in Dante, a c. di U. Parricchi, Roma 1965, 109-129; ID., L'eredità classica in D., in D. e Roma, Firenze 1965 (ambedue rist., con altri due studi nei quali sono esaminate le imitazioni e le riprese lucanee - Il c. XIV dell'Inferno, Torino 1959; Il c. XXV dell'Inferno, ibid. 1967 -, in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968).