BUTTAFUOCO, Annarita
Nacque a Cagliari il 15 marzo 1951. La madre Raffaella Buttafuoco, in rotta con la famiglia, lasciò con lei la Sardegna per l’isola d’Elba, dove sarebbe nato il secondo figlio Marco. Malgrado le ristrettezze economiche, seguì un regolare corso di studi e frequentò il liceo classico Raffaele Foresi di Portoferraio, terminato il quale progettò di iscriversi alla facoltà di Lettere di Firenze, alternando studio e lavoro presso un pensionato di suore. «Questo discorso che lei faceva pacatamente mi produceva via via un senso di tristezza. Dai colori luminosi dell’Elba pensarla chiusa tra le mura di un convento mi pareva un affronto a una ragazza così intelligente e così caldamente apprezzata nell’ambiente dove viveva». Così racconta oggi Tilde Capomazza, allora quarantenne, regista televisiva, che offrì quindi ad Annarita di proseguire gli studi ospite della sua casa romana. Ebbe così inizio un lungo, proficuo sodalizio, affettivo e intellettuale, durato dieci anni, che ne istradò e accompagnò la formazione (Capomazza, 2015)
La stanca routine dell’università di Roma venne interrotta dall’incontro con la antropologa Ida Magli e col suo lavoro su Gli uomini della penitenza (Bologna 1967), dove la storia del Medioevo era vista in chiave antropologica. Buttafuoco mutuò questo approccio nella sua tesi sui Lineamenti antropologici del sanfedismo – discussa con Vittorio Giuntella e con la stessa Magli – con cui si laureò nel 1974 col massimo dei voti.
Tanto l’ascendente di quest’ultima che l’argomento della ricerca sarebbero stati determinanti nell’indicare il cammino che stava per intraprendere.
Poco dopo, il nuovo libro di Ida Magli La donna, un problema aperto (Firenze 1974) fornì a Capomazza e a lei, nel 1975, lo spunto per la nascita di DWF, la prima rivista italiana dedicata, con qualche ritardo rispetto alle esperienze estere, agli women’s studies. Attorno a loro si raccolse un drappello di intellettuali e docenti universitarie di varie discipline «unite da un forte interesse per le istanze politiche del movimento femminista , benché nessuna di loro potesse dirsi vera e propria militante» (De Longis, 2004, p. 222). Magli entrò anche lei nella redazione, di sole donne, ma non chiusa a collaborazioni maschili.
Il sottotitolo, Rivista di studi antropologici, storici, sociali sulle donne era di per sé rivelatore del progetto culturale condiviso, un’opzione per l’interdisciplinarietà e, in fatto di storiografia, per la storia sociale su modello Annales, che già da qualche tempo aveva soppiantato in Italia la storiografia politica di matrice crocio-gramsciana. Forte l’attenzione alla produzione d’Oltralpe, che occupò per intero il quarto fascicolo della rivista, dedicato alla storia del lavoro delle donne; in un certo senso, «una scelta obbligata, in assenza di una crescita visibile della storia delle donne in Italia» (ibid., p. 234). In un contesto ancora così sguarnito, il piglio pionieristico di DWF era destinato a suscitare reazioni contrastanti. Se pure dunque avesse tutte le carte in regola per richiamare su di sé una indiscriminata area di consenso, si vide invece ristretta in una sorta di segregazione bifronte: la cultura maschile, accademica e no, la ignorò e irrise a lungo alla storia delle donne, mentre il movimento femminista, in prevalenza colonizzato dal differenzialismo, la accusò di «essere al servizio di una cultura tradizionale e maschilista». Ad onta di queste ostilità, il pubblico delle lettrici cresceva a vista d’occhio e, dopo qualche anno, la tiratura avrebbe raggiunto le 3500-4000 copie e i circa 800 abbonati (ibid., p. 235).
Buttafuoco utilizzò subito il primo numero per rendere pubblica la sua meditata vocazione di storica, con un intervento dal titolo rivelatore: Il tempo ritrovato. Riflessioni sul mestiere di storica, dove Proust andava a braccetto con Marc Bloch; in calce la qualifica di borsista della facoltà di magistero dell’Università di Siena, primo gradino di una probabile carriera universitaria.
Con tutte le ingenuità del caso, quel testo ripercorreva a grandi linee – quasi un tracciato genealogico –, il lascito della storiografia francese, e anticipava alcuni dei temi caratterizzanti del suo profilo di studiosa: il difficile rapporto delle donne col tempo e la urgente necessità di restituirle alla storia: «Lungi da me, ebbe a precisare più tardi, l’idea di “fondare la storia delle donne”», aveva soltanto cercato di mettere nero su bianco «un problema che in Italia non era mai stato posto per iscritto». E di accennare al tempo stesso al traguardo più ambizioso di «una prospettiva più ampia possibile, perché finalmente la storia sia un’altra storia, conoscenza reale di tutto il passato umano» (Buttafuoco, 1990, p. 15).
Giovane com’era – aveva allora appena ventisei anni – era di fatto l’unica storica ma anche l’anima della rivista, alla quale sarebbe rimasta fedele fino all’ultimo e che avrebbe rappresentato un elemento di continuità del suo percorso di vita. A DWF avrebbe affidato gran parte dei suoi lavori più significativi, mentre le molte recensioni, traduzioni, ecc., e la cura della biblioteca del centro studi nato con la rivista sarebbero stati la costante riprova di questa dedizione.
Fin dagli esordi, però, il gruppo redazionale venne attraversato da tensioni presto sfociate in una rapida resa dei conti; e il quarto numero fu, al momento, anche l’ultimo. Causa scatenante, il dissenso sulla battaglia femminista per l’aborto manifestato da Ida Magli, che abbandonò la partita. Ma le promotrici non si rassegnarono alla chiusura e le pubblicazioni ripresero nell’ottobre 1976 come Nuova DWF, un sottotitolo appena più sobrio Quaderno di studi internazionali sulla donna, una nuova capofila, Bianca Maria Scarcia Amoretti, altre redattrici, carattere monografico di ciascun numero (Donne e trasmissione della cultura, Donne e ricerca storica, ecc.), mentre l’editore Bulzoni lasciò il campo dapprima a Coines, poi alla cooperativa autogestita Utopia .
Nel volgere di qualche anno, nel 1979, sarebbe stata Buttafuoco a prendere in mano le redini della rivista, continuando a dirigerla fino al 1986.
Nello stesso periodo, collaborò a varie trasmissioni televisive, tra cui Si dice donna, progettata da Tilde Capomazza.
A prescindere da quella, certo spiacevole, rottura, Buttafuoco – a suo dire, fino ad allora 'gender-blinded', – avrebbe riconosciuto a Ida Magli un merito affatto involontario: «È attraverso di lei, che poi sono arrivata al femminismo […] che lei ha sempre rifiutato» (ibid., p. 14) e che si fece organizzatrice e docente «entusiasta e appassionata» di quel «luogo di ricerca collettiva» che era il centro romano intitolato a Virginia Woolf (Bocchetti, 2001, p. 93).
Anche il Centro studi donnawomanfemme, una sorta di retrobottega della rivista, dove si tenevano seminari e interventi in vista dei numeri futuri, venne ben presto incluso in una rete omogenea poi confluita in un convegno nazionale svoltosi a Siena nel 1986 (Bono, 2001, p. 100).
I rapporti con le nuove formazioni femministe non escludevano quelli con la sinistra tradizionale, ormai riveduta e corretta. Nel 1978, venne eletta nel Consiglio nazionale dell’Unione donne italiane (UDI). Che in quel X congresso cambiò pelle, si liberò di antiche incrostazioni e rimodellò i suoi interessi attorno al ruolo della soggettività (Ombra, 2001, p. 109). Ma la permanenza in quel consesso durò pochi mesi, una borsa di studio la chiamò a Parigi, maturò il distacco da Roma e iniziò al contempo un assiduo pendolarismo milanese. E proprio a Milano, su incarico dell’Unione femminile nazionale (UFN), portò a termine la sua opera più impegnativa.
In DWF – nel numero monografico del 1977 Donna e ricerca storica (n. 3, pp. 51-92) – aveva frattanto pubblicato il suo primo saggio di ampio respiro: Eleonora Fonseca Pimentel: una donna nella rivoluzione. Una scelta fuori dal coro rispetto al paradigma allora dominante nella storiografia di punta, che preferiva privilegiare «le masse finora dimenticate» (Buttafuoco, 1990, p. 16), a scapito, e in spregio, delle figure eccezionali. In Eleonora – che già vantava un biografo d’eccezione in Benedetto Croce – Buttafuoco si era imbattuta studiando il sanfedismo ed era rimasta colpita dalla sua «particolare sensibilità rispetto al problema del consenso popolare» (ibid.).
Ma non avrebbe forse ripreso i suoi studi settecenteschi se, inseguendo piste suggerite da altri studiosi, non si fosse imbattuta negli atti del processo di separazione di Eleonora dal marito, il capitano Pasquale Tria de Solis, conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli. Dai documenti era emersa la storia di un matrimonio infelice – un vero 'inferno domestico' – con un dissipatore delle limitate sostanze della moglie, ostile alle sue amicizie e alla sua attività intellettuale, solito a scenate pubbliche e a maltrattamenti che le erano costati l’aborto del secondo figlio. Il processo era andato per le lunghe ed era terminato solo perché don Pasquale, forse persuaso da un esborso di denaro versato dal suocero, aveva deciso di ritirarsi. Sarebbe morto dieci anni dopo, nel 1795, quando Napoli era attraversata dai fermenti della imminente rivoluzione ed Eleonora si era da tempo incamminata nella nuova vita che l’avrebbe portata a dirigere l’organo principe della rivolta giacobina: Il Monitore Napoletano.
Una documentazione di questo genere rappresentava un’occasione imperdibile per scandagliare quella reciprocità tra pubblico e privato, che tanto la appassionava.
Di Eleonora, le carte giudiziarie restituivano infatti un ritratto inedito, spogliato dall’aura eroica e libertaria e presago di un agire politico più complesso di quello fino allora conosciuto, pervaso di rispetto per le culture antagoniste: dal sanfedismo, cui riconosceva «forza e dignità», alla religiosità popolare, che le consigliavano «una politica quanto mai prudente» (Buttafuoco, 1977, p. 87). Un modo, insomma, di declinare la democrazia che apriva a Buttafuoco nuovi orizzonti di riflessione.
Sul triennio giacobino sarebbe tornata più volte, sia per esplorarne il versante 'causa delle donne', a cui Fonseca era rimasta estranea (La causa delle donne. Cittadinanza e genere nel triennio "giacobino" italiano, in Modi di essere. Studi, riflessioni, interventi sulla cultura e la politica delle donne in onore di Elvira Badaracco, a cura di Annarita Buttafuoco, Bologna 1991, pp. 99–106), sia per immetterlo nelle genealogie storiche della democrazia e dell’emancipazione femminile.
Nel 1982, si tenne a Modena il primo convegno nazionale di storia delle donne Percorsi del femminismo e storia delle donne, presenti Sandra Cavallo, Vanessa Maher, Angela Groppi, la stessa Buttafuoco – che figurava tra le organizzatrici –, e tante altre, vale a dire la nuova generazione delle storiche cresciute col movimento degli anni Settanta. Il suo intervento su Il sentimento della politica denunciava senza mezzi termini «l’assenza quasi totale di una produzione di storia politica strettamente intesa connessa […] al movimento» (Percorsi del femminismo e storia delle donne. Atti del Convegno di Modena, 2-4 aprile 1982, in Nuova DWF, 1983, suppl. al n. 22, monografico, p. 49) e, prendendo le distanze dal ricorso alle metodologie tradizionali, insisteva sul «tentativo di coniugare […] la storia politica con la storia sociale» (ibid.). Tutt’altro che una dichiarazione di principio, perché in quella stessa circostanza comunicò di aver avviato la ricerca sull’Asilo Mariuccia, pubblicata tre anni dopo presso Franco Angeli col titolo Le Mariuccine. Storia di un’istituzione laica: l’Asilo Mariuccia (Milano 1985).
L’Asilo, sorto a Milano nel 1902,e intestato a una delle figlie, morta a tredici anni, della fondatrice Ersilia Majno, si prefiggeva il recupero delle giovani prostitute ed era ispirato da due principi basilari: il rigetto della predestinazione genetica al crimine e alla prostituzione, teorizzata da Cesare Lombroso, e una rigorosa laicità, destinata a diluirsi in periodo fascista (Buttafuoco, 1985, p. 414).
Buttafuoco conferiva grande risalto al valore politico-sociale dell’istituzione, alla sua capacità innovativa della cultura dell’epoca, al suo programmatico porsi a mo’ di crocevia tra il socialismo riformista di ambiente milanese, ben rappresentato dai coniugi Ersilia Bronzini e Luigi Majno, e la politica giolittiana del primo quindicennio del Novecento. Alla ricostruzione degli esordi, degli sviluppi e del declino dell’Asilo faceva inoltre da sfondo «un grande affresco sociale dell’Italia, e in particolare di Milano» (Gagliani, 2001, p. 67).
Tuttavia non venivano taciuti i limiti di questa impresa. Perché, in effetti, il progetto pedagogico, l’obiettivo di restituire alla società una 'donna nuova', a cui le giovani ospiti venivano ammaestrate, prevedeva «di riportare alla loro età anagrafica di bambine persone che l’avevano superata da tempo o che non l’avevano mai avuta […] di voler fare tabula rasa del loro passato» (Buttafuoco, 1985, p. 301). E, di conseguenza, la stessa enfasi sul lavoro – una sorta di logo dell’Asilo –, era spesso e volentieri messa a rischio.
Con buona pace dunque della generosità e delle consapevolezze delle donne impegnate a vario titolo nell’Asilo, la distanza tra le loro esperienze di vita e quelle delle giovani ospiti risultava davvero incolmabile, anche e soprattutto in fatto di sessualità, che trovava quelle signore borghesi educate alla morale vittoriana affatto disarmate e perciò incapaci di offrire strumenti idonei ad affrontare il mondo esterno.
Vale a dire che nulla l’autrice concedeva alle mitologie. La messa a nudo delle fragilità e delle inadeguatezze delle consigliere dell’Asilo e della stessa Ersilia Majno «ribalta[va] quel ritratto di gruppo eroico ed idealizzato che finora aveva contrassegnato il discorso storico femminista sull’emancipazionismo» (D’Amelia, 1986, p. 125).
Ad onta di ciò, e in definitiva, i difetti e le sconfitte dell’Asilo non avevano, a suo avviso, inficiato il nucleo politico del progetto: dimostrare che «il problema della prostituzione poteva essere affrontato, che non era affatto un dato naturale, ineliminabile». E offrire, altresì, allo Stato un modello di laicizzazione dell’assistenza, sottratta ai filantropi e alla Chiesa e trasformata in «diritto del cittadino» (Buttafuoco, 1990, pp. 19-20).
Occorre aggiungere infine che un’indagine così ampia e articolata sarebbe stata impensabile senza l’accesso all’archivio privato dei Majno, eccezionale per ricchezza e tipologia documentale, prime fra tutte le innumerevoli schede individuali delle ragazze, che recavano in dettaglio – e in una sorta di repertorio antifoucaultiano (Gibson, 1987) – le loro storie di vita, ma anche il dipanarsi del percorso esistenziale di Ersilia Majno, presidente dell’Unione femminile nazionale e già a capo del Comitato contro la tratta delle bianche, il cui agire politico appariva a Buttafuoco, che la fa giganteggiare nelle pagine del libro, così intriso di affettività e dedizione da suggerirle la definizione di «leader morale».
La vicenda de Le Mariuccine, tratteggiata con mano sicura e indubbio talento storiografico, si guadagnò un riconoscimento immediato e durevole: il libro ha avuto al suo attivo tre edizioni, molte recensioni e reiterate riletture postume.
Che questo lavoro sia stato poi un autentico laboratorio metodologico lo dicono le proiezioni interpretative a cui Buttafuoco approdò in momenti successivi, la sua constatazione di quanto gli effetti del reintegro delle donne nella storia politica potessero andare ben oltre la cosiddetta storia 'aggiuntiva', a cominciare dalla genesi dello Stato sociale, da riconsegnare in toto alla cultura e alla pratica emancipazioniste (Buttafuoco, 1990, p. 29). Il suo revisionismo radicale le consentì quindi di riscrivere da cima a fondo una pagina della storia nazionale, di sperimentare, insomma, l’altra storia preconizzata fin dai primordi del suo itinerario intellettuale.
Il controverso rapporto delle donne col loro passato, la «rimozione di quest'ultimo dalla memoria collettiva», il loro rifiuto di «fondare una tradizione», di riconoscere le continuità genealogiche e l’ereditarietà del patrimonio comune vennero da lei costantemente stigmatizzati. Questa sorta di 'diritto all’amnesia' le appariva un elemento di debolezza e una peculiarità tutta nostra; le italiane, specificò più volte «non danno testimonianza di sé, vivono. È la loro vita che è documento». Tra le molte cause possibili – una soverchiante nell’ultima ondata del femminismo – spiccava l’esaltazione del movimento in atto e della sua assoluta unicità (Buttafuoco, 1991).
E sulla falsariga dei progetti di documentazione sistematica e di trasmissione realizzati in Germania o negli Stati Uniti aveva incluso nel suo magazzino di storica lo scavo documentale, infaticabile organizzatrice com’era di archivi e biblioteche.
Il panorama storiografico non era proprio esaltante, e tuttavia la quotidianità dei rapporti accademici le riservava frequenti incontri con una autorevole esponente della generazione precedente come Franca Pieroni Bortolotti. Ma al di là di una naturale forma di rispetto, e malgrado il convergere delle tematiche care a entrambe – i movimenti femministi, l’Ottocento italiano –, le separava un’irriducibile discontinuità, anagrafica e culturale. L’ambiente storico-politico della loro formazione, le rispettive opzioni metodologiche e una diversa concezione della politica misuravano una distanza, che più tardi, e solo dopo la morte di Pieroni Bortolotti, sarebbe riuscita, per sua stessa ammissione, a ridurre (Buttafuoco, 1993).
Della storica fiorentina curò e firmò un’ampia introduzione alla raccolta postuma Sul movimento politico delle donne. Scritti inediti (Roma 1987), che non dissimulava significative divergenze interpretative, ma giovò a farla entrare in maggior sintonia con l’altra.
Qualche anno dopo, vinto un concorso per professore associato, insegnò per un biennio Storia del Risorgimento presso l’Università di Perugia, finché, nel 1994, non poté rientrare all’Università di Siena, dove insegnò, nella sede di Arezzo, Storia dell’Europa contemporanea.
Nel frattempo la cultura femminista italiana cominciava a dare i suoi frutti e già nel 1981 vide la luce il primo numero di Memoria. Rivista di storia delle donne, un’esperienza che sarebbe giunta a termine nel 1993 lasciando un segno in questo ambito di studi.
Sull’onda poi del successo di due affollati convegni – Ragnatela di rapporti (Bologna 1986) e La ricerca delle donne (Modena 1987) – che funsero da manifesto programmatico (Cabibbo, 2001, pp. 40 e 52), venne fondata a Roma, nel 1989, la Società italiana delle storiche, con sede a Bologna presso il Centro di documentazione delle donne. Benché dapprima dubbiosa (Buttafuoco, 1993), Buttafuoco figurò tra le socie fondatrici, assieme, tra le altre, a Maura Palazzi, la prima presidente, Marina D’Amelia, Angela Groppi, Anna Rossi-Doria, Dianella Gagliani, Lucia Ferrante, Nadia Filippini. Ne ebbe a sua volta la presidenza tra il 1991 e il 1995, quando riuscì a realizzare una delle imprese di cui andava più orgogliosa, la Scuola estiva di storia delle donne, ospitata nella splendida dimora senese della certosa di Pontignano. Il rettore Luigi Berlinguer delegò lei a rappresentare l’università, in accordo con la Società delle storiche, responsabile scientifica della Scuola.
La Scuola aveva un carattere stanziale e seminariale, e reclutava anche dall’estero docenti che condividevano una settimana di vita comune con una sessantina e più di donne di varie età e condizione; una formula inusitata e innovativa, che decostruiva i codici, i soggetti e i ruoli del processo di apprendimento, e un’occasione pressoché unica di conoscenza e di socializzazione. La Scuola, che con questa formula ebbe una lunga vita, fu subito accolta con grande entusiasmo e venne imitata da altre istituzioni.
In quegli anni Novanta, Buttafuoco visse una fase di grandi cambiamenti, sia affettivi – contrasse un duraturo legame con lo storico Camillo Brezzi –, che professionali: fu eletta presidente dell’Unione femminile nazionale per il 1993-96 e, nel 1994, istituì gli Archivi riuniti delle donne, dove confluirono i carteggi della famiglia Majno, di donne eminenti come Ada Sacchi e Tullia Carettoni Romagnoli e, da ultimo, delle sorelle antifasciste Adele e Bianca Ceva.
Sempre nel 1994, designata erede testamentaria e garante del suo patrimonio economico, scientifico e politico dalla giornalista socialista Elvira Badaracco, promosse la Fondazione a lei intitolata, dalla quale attinse i materiali per la mostra Riguardarsi sul manifesto politico del femminismo degli anni Settanta, realizzata l’anno dopo a Milano in tandem con Emma Baeri.
Nel 1997 la scrittrice Alba de Cèspedes, che aveva conosciuto la sua grande stagione nel dopoguerra, si rivolse all’archivio della Fondazione per depositarvi la sterminata documentazione in suo possesso e, a breve distanza dalla sua morte, Buttafuoco si recò a Parigi assieme all’italianista Marina Zancan per avviare le procedure di sistemazione di questo lascito, in un secondo tempo ceduto in dono alla Fondazione Mondadori. Sulla figura di de Cèspedes vennero quindi allestiti da entrambi gli istituti una mostra documentaria e un convegno internazionale.
L’amicizia con Zancan contava già circa un decennio; alla fine degli anni Ottanta avevano curato insieme il volume collettaneo Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale (Milano 1988), al quale Buttafuoco aveva collaborato con il saggio Vite esemplari. Donne nuove di primo Novecento (pp. 139-162), dove alla celebre scrittrice veniva abbinata l’amata Ersilia Majno, figure esemplari entrambe, scrisse, di «sante laiche».
Questa febbrile operosità non la distoglieva dal lavoro di ricerca, per il quale riprese e approfondì i suoi temi ricorrenti: il triennio giacobino, le colpe dell’emancipazionismo nei confronti della storia, fino alla scarsa «consapevolezza del proprio ruolo in relazione alla vita politica» (Buttafuoco, 1991, p. 64) e, in primis, il problema della cittadinanza, affrontato da ottiche diverse: la mostra Cittadine. Il voto alle donne in due secoli di discussioni, immagini, racconti, biografie (Arezzo 1° luglio - 28 sett. 1996), in occasione del quinto anniversario del voto alle donne e la pubblicazione di Tra cittadinanza politica e cittadinanza sociale. Progetti ed esperienze del movimento politico delle donne nell’Italia liberale (in Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, a cura di G. Bonacchi - A. Groppi, Bari 1993, pp. 104-127) e Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell’Italia liberale (Siena 1995). Fino all’ultimo scritto, Cittadine italiane al voto, apparso nel 1997 nella rivista Passato e presente (n. 40, pp. 5-11), nel quale l'emancipazionismo, la rimozione della storia e la cittadinanza, o meglio quella malcerta cittadinanza goduta dalle donne, erano figli di una capacità politica depotenziata, poiché, mediante il voto, le donne «entra[va]no in un sistema pensato e strutturato senza di loro». Fin dal tempo del movimento suffragista, infatti, sapevano bene che votare era solo un primo passo; e che l‘acquisto della cittadinanza piena implicava «una [ri]definizione della stessa accezione di politica», volta a conferire valore politico alle «competenze femminili» tradizionali, abbattere quella barriera tra pubblico e privato, che viceversa – con la formula della «essenziale funzione familiare» – era rispuntata surrettiziamente nella nostra Costituzione, pur così ricettiva dei diritti e della dignità delle donne. Ma la precondizione necessaria a conseguirla coincideva col ripristino della «memoria negata».
In queste poche ma dense pagine, Buttafuoco si cimentò insomma con un vero e proprio affondo – più tardi ricordato come 'il testamento' di Annarita (Gagliani, 2001, p. 71) –, sui dilemmi su cui si era arrovellata nel corso della sua esistenza, breve ma intensa, bruciante di 'passione laica'.
Morì ad Arezzo il 26 maggio 1999, a soli quarantotto anni.
Per l'elenco completo delle opere di A. B. in aggiunta a quelle citate nel testo e di seguito si rimanda al sito www.storiadelledonne.it.
Il tempo ritrovato. Riflessioni sul mestiere di storica, in DWF, 1975, n. 1, pp. 37-47; Introduzione a F. Pieroni Bortolotti, Sul movimento politico delle donne. Scritti inediti, Roma 1987, pp. IX-LXIII; La filantropia come politica. Esperienze dell’emancipazionismo italiano nel Novecento, in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazioni nella storia delle donne, a cura di L. Ferrante - M. Palazzi - G. Pomata, Torino 1988, pp.166-187; Virtù civiche e virtù domestiche. Letture del ruolo femminile nel triennio rivoluzionario, in L’Italia nella rivoluzione, 1789-1799, a cura di G. Benassati - L.Rossi, Casalecchio di Reno 1990, pp. 81-88; Vuoti di memoria. Sulla storiografia politica in Italia, in Memoria, 1991, n. 31, pp. 65, 67; Vie per la cittadinanza. Associazionismo politico femminile in Lombardia tra Ottocento e Novecento, in Donna lombarda, 1860-1945, a cura di A. Gigli Marchetti - F. Torcellan, Milano 1992, pp. 21-45; Passaggi. La SIS (1991-1995 e oltre), Relazione della presidente uscente del 24 settembre 1995, in Agenda, 1996, n. 17, pp. 57-77; Riguardarsi. Manifesti del movimento politico delle donne in Italia (catal. Milano 1996), a cura di A. Buttafuoco - E. Baeri, Siena 1997.
R. Macrelli, Le Mariuccine, in DWF, 1986, n. 1, pp. 133-137; M. D’Amelia, Le Mariuccine, in Passato e presente, genn.-apr. 1986, pp. 229-231; L’emancipazionismo italiano tra ideologia e pratica, in Memoria, 1986, n. 16, pp. 115-129; M. Gibson, Le Mariuccine, in Journal of Social History, 1987, n. 4, pp. 837-839; Giornale di Bordo. Intervista di L. Fortini a A.B., Roma 17 maggio 1993, CD di proprietà di R. De Longis; V. Maher, Le Mariuccine, in Social History, 1987, n. 2, p. 280; A. De Clementi, Il lungo filo di Mnemosine, in Il Manifesto, 27 maggio 1999; E. Baeri, Occhi ridenti sul passato e sul presente, in ibid.; M. De Giorgio, Le donne riscoperte da A. B., in L’Unità, 27 maggio 1999; L. Berlinguer, La mia amica Annarita e la sua passione laica, in L’Unità, 28 maggio 1999; S. Bartoloni - A.M. Crispino, In memoria di un’amica: A. B., in Leggendaria, 2000, n. 15-16, pp. 32-33; DWF, 2000, n. 48, monografico: Una donna del suo genere: A. B. (in partic. Inedita e interrotta, intervista ad A. B. a cura di T. Capomazza raccolta nel 1994, pp. 6-42; E. Baeri, Legami e nodi, pp. 43-56); P. Gabrielli, Programmi, passioni, ritratti singoli e di gruppo. Il movimento politico delle donne negli studi di A. B., in Italia contemporanea, 2000, n. 220-221, pp. 431-462; A. B. Ritratto di una storica, a cura di A. Rossi-Doria, Roma 2001 (in partic. M. De Giorgio, Una storica della nostra età, pp. 13-31; S. Cabibbo, Il “mestiere di storica” e la Società italiana delle Storiche, pp.31-54; D. Gagliani, Itinerari della ricerca storica. Questioni di cittadinanza e di politica, pp. 55-76; E. Vezzosi, Itinerari della ricerca storica. Le politiche sociali nella dimensione internazionale, pp. 77-91; A. Bocchetti, Ilbuio, i rischi e l’oro. Il centro Culturale Virginia Woolf, pp. 93-97; P. Bono, Non di piccola misura (la rivista e il centro studi DWF), pp. 99-108; M. Ombra, Un reciproco innamoramento. L’UDI., pp.109-114); M. Gibson, Annarita Buttafuoco and Women’s History in Italy. Introduction,in Journal of Modern Italian Studies, VII (2002), 1, pp.1-16; P. Gabrielli, Protagonists and Politics in Italian Women’s Movement: a Reflection on the Work of A. B., ibid., pp. 74-84; R. De Longis, Tra femminismo e storiografia: i primi anni di “DWF”, in Storiche di ieri e di oggi. Dalle autrici dell’Ottocento alle riviste di storia delle donne, a cura di M. Palazzi - I. Porciani, Roma 2004, pp. 223-240; T. Capomazza, informazioni rilasciate all’a. nel dicembre 2015.
Foto di Susanna Giaccai, licenza CC BY-SA