anima
Il termine ricorre assai di frequente nelle opere di D., nella Commedia innanzi tutto, e nel Convivio, più raramente nelle altre. Spesso è inteso in senso rigorosamente filosofico di ‛ principio vitale ' o ‛ entelechia del corpo ', che si specifica in a. delle piante (vegetativa), degli animali (sensitiva) e dell'uomo (intellettiva): questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sì come vedemo ne le piante (Cv III II 12); l'anima d'ogne bruto e de le piante / di complession potenziata tira / lo raggio e 'l moto de le luci sante (Pd VII 139; v. anche If XIII 39); altrimenti da li animali, la cui anima tutta in materia è compresa (Cv III VII 5); sensibilis anima et corpus est animal (VE II X 1); sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, l'anima è atto del corpo (Cv III VI 11); la sua forma, cioè la sua anima (VI 12); l'anima umana... è forma nobilissima (II 6). In uso figurato a. è forma della filosofia (III XIII 10, due volte), e le vocali sono l'‛ essenza ', cioè anima e legame d'ogni parole (IV VI 3). In Cv IV IV 12, l'a. è vista come causa ‛ efficiente '.
Altre volte a. designa propriamente la parte spirituale dell'uomo, come in Mn III XV 4 Nam homo, si consideretur secundum utranque partem essentialem, scilicet animam et corpus; Cv II VIII 6 ché [l'anima, poi che] è partita, perpetualmente dura in natura più che umana; If X 15 Suo cimitero da questa parte hanno / con Epicuro tutti suoi seguaci, / che l'anima col corpo morta fanno; Pg X 124-126 non v'accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l'angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi? In tal senso il vocabolo designa la ‛ persona ' vivente, in quanto entità spirituale: Ahi anime ingannate e fatture empie (Pd IX 10, dove agisce in direzione semanticamente qualificante il parallelo fra a. e fatture); Come anima gentil, che non fa scusa, / ma fa sua voglia de la voglia altrui (Pg XXXIII 130); simili i casi di Pg XIX 113 e XXVII 11; in quest'ultimo luogo un angelo chiama anime sante D. e Virgilio, comprendendo col medesimo appellativo chi è solo spirito e chi lo spirito porta ancora nel corpo mortale.
Con accezione particolare, in qualche caso a. è usata per indicare l'intelletto o la volontà; L'anima s'intende, come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero col consentimento (Cv II VII 8, due volte); così l'anima nostra... dirizza li occhi al termine del suo sommo bene (IV XII 15; cfr. anche § 17); Per che è manifesto che per mente s'intende questa ultima e nobilissima parte de l'anima (III II 16); dì ove s'appunta / l'anima tua (Pd XXVI 8; cfr. XXII 122); la mia anima, cioè lo mio affetto (Cv III III 14); ragiona dinanzi a li occhi del mio intelligibile affetto (II VII 11), dove chiaro è l'accenno alla volontà definita dagli scolastici appetitus rationalis.
In altri luoghi il termine assume il senso propriamente cristiano di parte incorruttibile dell'uomo, infusa da Dio, capace di atti meritevoli o di colpe e perciò destinata al premio o alla pena eterna nella vita celeste; Angelo dama in divino intelletto / e dice: " Sire, nel mondo si vede / maraviglia ne l'atto che procede / d'un'anima che 'nfin qua su risplende " (Vn XIX 7 18); piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna (Vn XLII 3); Dentro da l'uomo possono due difetti e impedi[men]ti: l'uno da la parte del corpo, l'altro da la parte de l'anima... Da la parte de l'anima è quando la malizia vince in essa (Cv I I 3); però che de la immortalità de l'anima è qui toccato (II VIII 7); essa anima massimamente desidera di tornare a quello [Diò] (IV XII 14); Poi fummo dentro al soglio de la porta / che 'l mal amor de l'anime disusa (Pg X 2); mondo fallace, / lo cui amor molt'anime deturpa (Pd XV 147); chéd e' sarebbe troppo gran dolore / se ciaschedun su' anima perdesse, / perché vestisse drappo di colore (Fiore XCIV 10); vedi ancora Vn XIX 18 (due volte), XXXII 6 13, XXXIII 8; Rime CXVI 19; Cv II Voi che 'ntendendo 19 (ripreso in VII 7), 17, VIII 5, XV 8, III Amor che ne la mente 30 (ripreso in VI 11), VII 6, 14, VIII 13, 4, IV XV 12, XX 7, 8, XXI 10; Pg V 46, XIV 10, XIX 51, Pd V 15; Fiore XCVI 6, CVI 9, CIX 2, 11, CXV 14, CXL 4, CXCIII 1, CXXXII 7.
Conseguentemente, l'a. può essere concepita e rappresentata come sciolta dal corpo, nella sua definitiva condizione di abitatrice dei regni ultraterreni: mi parea tornare ne la camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: " Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede! " (Vn XXIII 10); Partissi de la sua bella persona / piena di grazia l'anima gentile (XXXI 11 30; vedi ancora XXIII 28 83, XXIX 1, XLI 6; Cv IV XXVI 9).
In tale accezione il vocabolo indica numerosissime volte, nella Commedia, le ombre dei morti nella loro concreta individualità, così come appaiono a D. durante il suo viaggio; O anima cortese mantoana (If II 58); Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude, / cangiar colore (III 100); Questo misero modo / tegnon l'anime triste di coloro / che visser sanza 'nfamia e sanza lodo (III 35). Nell'Inferno il sostantivo è spesso accompagnato da attributi e locuzioni avverbiali che denotano la qualità e la sofferenza dei dannati: anime prave (III 84); anima mal nata (V 7); anime affannate (V 80); anime offense (V 109); anima trista (VI 55, XIX 47, XXX 76); son tra l'anime più nere (VI 85); anime stanche (VII 65); anima fella (VIII 18); anime distrutte (IX 79); anima fuia (XII 90); anime lasse (XVII 78); anima ria (XIX 96); Anima sciocca /... anima confusa (XXXI 70, 74). Per converso, nel Purgatorio incontriamo anime fortunate (II 74); anima gentil (VI 79); anime degne di salire a Dio (VII 5); anime care (XIV 127); anima monda (XXI 58); anima degna (XXII 126). E nel Paradiso, ancora, anima degna (V 128); anima santa (X 125 e XVII 101); l'anime che son di fama note (XVII 138); anima gloriosa (XX 112).
Altri esempi in If I 122, III 127, VI 33, VII 116, XII 74, XIII 47, XIV 19, 137, XV 16, XXV 136, XXVIII 36, XXX 37, XXXIII 125, XXXIV 61, Pg II 67, III 59, IV 17, VI 58, 61, VII 46, 83, XII 2, XIII 92, XIV 70, XIX 116, XX 34, XXIII 21, 53, XXIV 40, XXVI 53, Pd XVII 20, XIX 3, XXV 90.
Due volte il termine, al plurale, designa D. e Virgilio, ma visti da peccatori che non suppongono la condizione umana di D. e li credono ambedue dannati all'Inferno: Ed elli a noi " O anime che giunte / siete a veder lo strazio disonesto / c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, / raccoglietele al pie' del tristo cesto..." (If XIII 139); O anime crudeli / tanto che data v'è l'ultima posta, / levatemi dal viso i duri veli (XXXIII 110); l'anima prima (Pg XXXIII 62, Pd XXVI 83) e l'anima primaia (Pd XXVI 100) è Adamo. Nelle parole di Caronte rivolte a D., E tu che se' costì, anima viva,/ partiti da cotesti che son morti (If III 88), l'espressione anima viva è intesa comunemente dagli interpreti come un'indicazione che D. sia vivo nel corpo, cioè nella prima vita, e contemporaneamente nello spirito, cioè in grazia di Dio. Qualche titubanza mostra Benvenuto: " potest intelligi historice sic... anima viventis corporaliter... Vel moraliter sic... non mortua in peccatis "; deciso invece il Buti: " il quale era vivo, non pur quanto al corpo; ma quanto alla grazia di Dio "; e come lui chiosano Scartazzini, Barbi, Chimenz, Sapegno. Che l'a. sia viva in quanto congiunta col corpo è tesi esegetica del Rossi e del Torraca, ma già il Magalotti aveva intuito che l'individuazione del valore semantico della locuzione non può prescindere dal suo rapporto col successivo cotesti che son morti e, appuntandosi sul maschile cotesti, notava: " non disse ‛ da codeste '... perché come anime eran vive; ma da codesti, cioè uomini, de' quali si potea veramente dire ch'e' fosser morti ". Di parere opposto si mostra il Porena, che basandosi sulle successive parole di Caronte, Per altra via, per altri porti / verrai a piaggia, non qui, per passare, dice: " se Caronte nella prima sua apostrofe ha fatto difficoltà a Dante non è perché è vivo fisicamente; altrimenti con quel che poi aggiunge mostrerebbe di pensare che se un vivo fisicamente non può andare all'Inferno, possa però ben andare in Purgatorio ".
Il termine ricorre nel titolo volgarizzato del De Anima (v.) di Aristotele, come de l'Anima, in Cv II VIII 9, IX 7, XIII 30, III II 15 (nell'edizione Simonelli), VI 11, IX 6, IV VII 11 e 13, XIII 8, XV 11, XX 7. La forma latina anima compare in Pg XIX 73, in una citazione di Ps. 118, 25.
Il discorso che qui s'inizia, occorre appena dirlo, vuoi esporre la dottrina di D. intorno all'a., intesa come una delle due parti costitutive dell'uomo, e metterne in luce il significato attraverso il confronto con le dottrine psicologiche più autorevoli del tempo.
L'a. umana. - Al pari di tutti i maestri medievali, D. vede nell'uomo un essere composto di corpo e a.: In prima è da sapere che l'uomo è composto d'anima e di corpo (Cv IV XXI 2). Per il rapporto fra le due componenti D. si attiene alla soluzione aristotelica, adottata all'unanimità dai teologi del tempo, da quelli che aderivano all'aristotelismo moderato di Tommaso a quelli che preferivano la linea agostino-francescana. Anche per D. l'a. si unisce al corpo a modo di forma sostanziale: lf XXVII 73-74 Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe / che la madre mi dié; Cv III VI 11 Ove è da sapere che, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, l'anima è atto del corpo e - aggiunge - se ella è suo atto, è sua cagione. Da queste parole si rileva la piena aderenza di D. alla dottrina aristotelica sul rapporto fra a. e corpo, secondo cui il corpo riceve la sua attualità di corpo umano dall'a, in quanto causa formale intrinseca. (Della differenza de le nostre anime secondo i vari filosofi, D. discute in Cv IV XXI 2 ss.).
Il rispetto che D. dimostra per Averroè (If IV 144) e Sigieri di Brabante (Pd X 136) non gl'impedisce di condannare recisamente la nota teoria averroista che considerava l'a. intellettiva una sostanza separata, unita all'uomo in operando, ma non in essendo: Pg XXV 62-66 quest'è tal punto, / che più savio di te fé già errante, / sì che per sua dottrina fé disgiunto / da l'anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto.
Tuttavia D., con la stessa energia con cui afferma la sostanziale unità dell'uomo (in Cv IV XXIX 3 e 8 si dice che la progenie per sé non hae anima, cioè presa nel suo complesso), difende, sempre d'accordo con la scolastica, la natura spirituale dell'anima. L'a. dell'uomo infatti setta / è da matera (Pg XVIII 49); dall'a. degli animali che tutta in materia è compresa quella dell'uomo si differenzia avvegna che da una parte sia da materia libera (Cv III VII 5). Essa è di natura più che umana (II VIII 6), è angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi (Pg X 125-126); ha in sé qualcosa di eterno e divino dal momento che Ciascuna forma sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Iddio... ciascuna forma ha essere de la divina natura in alcun modo: non che la divina natura sia divisa e comunicata in quelle, ma da quelle è participata per lo modo quasi che la natura del sole è participata ne l'altre stelle (Cv III II 4-5); è l'anima umana, la quale con la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l'anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l'uomo divino animale da li filosofi chiamato (II 14). Mentre L'anima d'ogne bruto e de le piante / di complession potenzïata tira / lo raggio e 'l moto de le luci sante (Pd VII 139), vive cioè e agisce per l'influsso esercitato su di essa dalle Intelligenze separate, che sovrintendono ai cieli (v. Cv II V 13, VI 10), l'a. dell'uomo è in rapporto diretto con Dio che l'attrae a sé: vostra vita sanza mezzo spira / la somma beninanza, e la innamora / di sé sì che poi sempre la disira (Pd VII 142-144).
Le due terzine enunciano una dottrina agostiniana fatta propria da tutti gli scolastici. S. Agostino, preoccupato di correggere le conseguenze etiche dell'emanazionismo neoplatonico, aveva energicamente escluso ogni forma di subordinazione dell'uomo da creature superiori, fossero pure gli angeli: tra Dio e l'uomo non esistono intermediari di sorta.
A questa dottrina si appoggiavano anche gli scolastici che accettavano le concezioni astrologiche arabe, al punto da diventare sospetti agli occhi dei teologi come capitò, per esempio, a Ruggero Bacone (cfr. Th. Crowley, R. Bacon. The problem of Soul, in his philosophical Commentaire, Lovanio 1950, 56-59). Anch'essi si sentivano autorizzati a escludere che la volontà dell'uomo potesse essere determinata dalle influenze astrali, a cui tutti gli esseri del mondo sublunare soggiacciono. Che anche D. si sia dato pensiero di confutare il " determinismo astrologico che uccideva nell'uomo la libertà " è fuor di dubbio (cfr. B. Nardi, D. e la cultura medioevale, Bari 1949, 74-82).
L'A. e le sue potenze, operazioni e passioni. - Era insegnamento comune della scolastica che nell'uomo ci fosse una sola a.; e questo contro l'opinione di Platone il quale parlava di un triplice principio vitale: l'a. concupiscibile, l'a. irascibile e l'a. razionale, localizzate in diverse parti del corpo. D. non pensa diversamente. Parlando dell'a. intellettiva infusa da Dio (in Cv IV XII 14 Dio è principio e fattore delle a. e da lui dipende il suo essere; cfr. III II 7 e 8) nell'organismo giunto alla sua perfezione, scrive che tale spirito novo, di vertù repleto /... ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira (Pg XXV 72-75).
A giudizio di D. l'opinione platonica è chiaramente smentita dall'esperienza, la quale ci attesta che un'operazione dell'a. può diventare intensa al punto da renderne impossibile un'altra: " operatio ", dicevano gli scolastici, " cum fuerit intensa impedit aliam ". È un fenomeno che si produce in modo particolare per virtù della musica; infatti La Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: si è l'anima intera, quando l'ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono (Cv II XIII 24). E D., riferendosi alla sentenza platonica, scrive: E questo è contra quello error che crede / ch' un'anima sovr'altra in noi s'accenda (Pg IV 6). Delle opinioni platoniche sull'a., D. parla ancora in Cv II XIII 5, IV XXI 2, e ampiamente discute le tesi del Timeo in Pd IV 22-24, 49 ss. (cfr. anche Cv IV XXI 9).
L'a. dunque è una sola, ma dotata di molteplici potenze che la rendono capace di svariate operazioni. D. pertanto sottoscrive la tradizionale partizione dell'a. in vegetativa, sensitiva e intellettiva o razionale. La diversità della loro origine, come vedremo meglio più innanzi, non impedisce che nell'uomo esse siano consustanziali e naturalmente ordinate l'una all'altra: Dico adunque che lo Filosofo nel secondo de l'Anima, partendo le potenze di quella, dice che l'anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare... E secondo che esso dice, è manifestissimo che queste potenze sono intra sé per modo che l'una è fondamento de l'altra... la potenza vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra 'l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca... La sensitiva sanza quella essere non puote, e non si truova in alcuna cosa che non viva; e questa sensitiva potenza è fondamento de la intellettiva, cioè de la ragione: e però ne le cose animate mortali la ragionativa potenza sanza la sensitiva non si truova... E quella anima che tutte queste potenze comprende, [e] è perfettissima di tutte l'altre, è l'anima umana (Cv III II 11-14).
L'a. intellettiva, a sua volta, si suddivide in intelletto e volontà, principi prossimi di differenti operazioni e di molteplici virtù: qui s'intende animo solamente quello che spetta a la parte razionale, cioè la volontade e lo intelletto. Infatti l'uso del nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo (pratico è tanto quanto operativo), l'uno e l'altro dilett[os]issimo (Cv IV XXII 10).
In Cv III VII 8 l'a. razionale (v. anche Vn XX 3 alma razional) è definita dalle operazioni caratteristiche dell'uomo, come il parlare (cfr. Cv II IX 8) e l'agire secondo ragione, mentre il parlare e l'agire dell'anima bruta (III VII 10), cioè priva della parte intellettiva, non sono vere rappresentazioni razionali. L'intelletto è la parte più nobile dell'a. (IV XV 11), e tramite i suoi ‛ occhi ', le dimostrazioni della filosofia innamorano l'a. (II XV 4). L'a. con gli ‛ occhi ' della parte sensitiva distingue le qualità delle cose, e con quelli della razionale ne discerne l'uso (I XI 3).
In Cv III II 11 D. dunque distingue le tre potenze dell'a., sulla scorta di Aristotele (An. II 2), in vivere, sentire e ragionare, riducendo la quarta, muovere, al ‛ sentire ', però che ogni anima che sente... si muove (sulle tre potenze v. anche III VIII 8, IV XXIII 3 [2 volte]; sull'a. che ‛ ascolta ' e ‛ sente ', III III 15, sull'a. che conosce III II 8). Lo stesso in IV VII 14-15 (3 volte), dove le tre potenze sono ricondotte alla figurazione aristotelica (An. II 3) del triangolo, quadrato e pentagono, disposte l'una sull'altra dalla vegetativa all'intellettiva. Le tre potenze o operazioni tornano in IV XXI 9 (2 volte), a proposito dell'a. nobile (cfr. anche III XIV 9, 13 e 10, dove le altre anime son dette ancille rispetto a lei) che nel De Causis (III 3 " Omnis anima nobilis tres habet operationes... operatio animalis et operatio intelligibilis et operatio divina ") designa il " beato motore " o " mente profonda " che volge le sfere celesti, mentre in D. è concetto adattato all'a. umana, dove sotto la potenza animale sono sussunte la vegetativa e la sensitiva, e con la divina si indica la partecipazione a Dio dell'intelletto che specula, nobilissima parte de l'anima ove sono più vertudi intellettuali
(III II 15), fine e preziosissima parte de l'anima che è deitade (§ 19), e parte de la nostra anima che mai non muore (IV XXIII 3). Se tutte tre le ‛ virtù ' dell'a. si accordassero nella loro migliore disposizione nel formarla, questa quasi sarebbe un altro Iddio incarnato (IV XXI 10; V. INTELLETTO POSSIBILE).
All'a. (nei suoi rapporti con il corpo) conviene grande parte de le sue operazioni operare con organo corporale (Cv IV XXV 11), e tanto meglio opera quanto meglio il corpo è disposto. Tuttavia gli organi del nostro corpo possono ‛ legare ' e ‛ incarcerare ' l'a. impedendole la vista degli occhi intellettuali (II IV 17). Il suo operare nel corpo (III VIII 6) avviene particolarmente nel volto e massimamente in due luoghi ... cioè ne li occhi e ne la bocca (§ 8). Proprio in quanto abita nel corpo (essa è la donna che nel dificio del corpo abita, III VIII 9), l'a. è posta nel mezzo d'una successione gerarchica che, senza soluzione di continuità, va dall'a. dei bruti agli angeli (tra l'angelica natura... e l'anima umana non v'è grado alcuno... e tra l'anima umana e l'anima più perfetta de li bruti animali non c'è mezzo alcuno, III VII 6; per l'a. e la natura angelica v. anche Pd XXXII 110). Sicché l'a. da una parte [è]... da materia libera, da un'altra è impedita (Cv III VII 5), in quanto posta tra il corpo e le sostanze intellettuali. Essa perciò è più amabile del corpo: con ciò sia cosa che più [nobile] parte de l'uomo sia l'animo che 'l corpo, quello più ama... e amando di sé la migliore parte più, manifesto è che più ama l'animo che 'l corpo... lo quale animo naturalmente più che altra cosa dee amare (IV XXII 8; spesse volte in D. compare la correlazione a.-corpo: vedi tra l'altro If XIII 94, XVI 64, XXXIII 129; Pg VI 19; Cv II VIII 6, III V 1 [due volte], VII 1 [due volte], XIV 1, IV Le dolci rime 121, XVI 5 animo... corpo; Vn VIII 1 corpo... sanza l'anima, XXIII 8; in If XIII 88 l'a. ‛ legata ' in vita al corpo si lega, nell'Inferno, ai nocchi, ai tronchi nodosi; in Pd II 133 alma è in correlazione con polve=corpo; cfr. anche XI 115 ss.).
L'a. nel corpo è soggetta alle passioni, ed è quella che D. chiama a. passionata (Cv III VIII 10 [due volte], II X 5 [due volte], l'a. passionata dal timore; cfr. Pg XIII 137). Le passioni proprie dell'a, sono sei: grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna (in Cv II X 6 la pietà è definita non passione ma disposizione d'animo); le quali, se incontenibili, manifesta per la finestra de li occhi. Altra sua manifestazione è nel ridere, che è una corruscazione de la dilettazione de l'anima, e l'uomo deve ridere moderatamente per mostrare la sua anima ne l'allegrezza moderata (Cv III VIII 11). Occhi e riso sono dunque i due luoghi per i quali l'a. si manifesta (ne la faccia massimamente in due luoghi opera l'anima... cioè ne li occhi e ne la bocca, Cv III VIII 8), sicché è verso di essi che s'esercita l'amore de l'anima (§ 13), che è amore speziale a questi luoghi.
Ma l'a. passionata oltre misura e soggiogata dal desiderio, è resa inferma e incapace di discernere il vero (Cv III X 1), perché quanto più s'avvicina la cosa desiderata, tanto più l'a. è appassionata e s'unisce alla parte concupiscibile, abbandonando la ragione (§ 2; per l'a. assorta da un affetto grande o da una delle sue potenze, sì che rimane estraniata da ogni altra attività, cfr. Pg IV 3, 8 e 11, IX 53, XV 115, Pd XVIII 24, XXI 2, XXIII 98, Vn IV 1). La volontà, offuscata dal desiderio, si allontana dalla ragione, mentre invece nell'uomo di diritto appetito e di vera conoscenza (Cv IV XIII 15), intelletto e volontà si accordano, e l'animo... diritto, cioè d'appetito, e verace, cioè di conoscenza (§ 16), persegue rettamente con la volontà ciò che la ragione ha determinato come vero, in modo tale che non si unisce a ciò che vuole sia lungi da sé (per l' ‛ animo diritto ' cfr. anche IV X 8 e Pg XVIII 44).
In quanto passionata, l'a. è dunque sede degli affetti (cfr. Cv III III 14 la mia anima, cioè lo mio affetto), e pertanto si fa soggetto di diversi sentimenti: dolore... distruggitore de l'anima mia (Vn XXX 1); Pensando a quel che d'Amore ho provato, / l'anima mia non chiede altro diletto, / né il penar non cura il quale attende (Rime LXVIII 30); un lume de' belli occhi ond'io son vago, / che l'anima contenta (Rime dubbie III 5 6); e l'anima sen dol sì che ne stride (XIII 11); L'anima piange, sì ancor len dole (Cv II Voi che 'ntendendo 30, ripreso in IX 2 e XV 6); quella gloriosa' donna... de la quale fu l'anima mia innamorata (VIII 16; cfr. X 4); ché l'anima temea, / e teme ancora (Cv III Amor che ne la mente 84, ripreso in X 2); quivi [nella bellezza della donna gentile - filosofia] s'inebria l'anima (III VIII 14); Mentre che piena di stupore e lieta / l'anima mia gustava di quel cibo / che, saziando di sé, di sé asseta (Pg XXXI 128). Analogamente in Via II 8, XXIII 21 32, XXVI 7 14, XXVII 4 7, XXXI 12 40, XXXV 8 12; Rime LXVII 25, LXVIII 25, LXXX 10; Rime dubbie III 9 21, XXVII 11; Cv II Voi che 'ntendendo 41, II 1, IX 2, X 2 (due volte, in un'integrazione dell'edizione del '21 accettata dai successivi editori), 5, 11, XII 1, III Amor che ne la mente 6, II 9 (tre volte), III 14, IV 4, XI 13, XII 4, IV II 16; If II 45; Detto 385. In Fiore LXVII 5 è in un vocativo a persona cara: e po' sì le dirai: " Anima mia, / istanotte ti tenni in mio dormire / intra le braccia... ".
A proposito della teoria d'amore (che è unimento spirituale de l'anima con la cosa amata, Cv III II 3, due volte), a. è in correlazione con ‛ cuore '. Dice D. in Cv II VI 2, a proposito di Voi che 'ntendendo, che lo ‛ core ' si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte de l'anima e del corpo, mentre in Vn XXXVIII 5 (due volte) e 7, l'a. dell'amante, in quanto sinonimo di ragione, è distinta dal cuore, quale sede dell'appetito: l'una parte chiamo cuore, cioè l'appetito; l'altra chiamo anima, cioè la ragione. Per questo vedi anche Vn XVI 10, XXXVIII 9 e 10 (a. pensosa); Cv II Voi che 'ntendendo 11, VII 10; Rime LXVIII 25, XC 18, CXVI 49; Rime dubbie XII 1, XIV 13. Di a, come pensiero D. parla in Cv II VI 7, VIII 2, IX 1 e 3, X 1, VII 12 (l'a. come mente che ‛ consente '); Rime CXVII 6 (l'a. che acconsente).
A proposito dell'a. e delle sue potenze i maestri della scolastica muovevano varie questioni. Si discuteva, in primo luogo, sui rapporti fra l'essenza e le potenze: queste si distinguono realmente dall'essenza o si identificano con essa? Mentre s. Tommaso e la sua scuola insegnavano che dette potenze sono proprietà (accidens proprium) dell'a. e quindi si distinguono realmente da essa come accidenti dalla sostanza, i maestri della corrente agostiniana sostenevano che in realtà si identificavano con essa: l'a. si designa col termine ‛ intelletto ' quando si rapporta all'essere in quanto vero; le conviene invece la qualifica di ‛ volontà ' quando tende all'essere in quanto buono. Non si tratta, dunque, di una distinzione intrinseca all'a., ma di modi diversi di denominare l'a., giustificati dalla varietà delle sue operazioni. L'a. si dice vegetativa in quanto vivifica il corpo, sensitiva in quanto principio dell'attività sensibile, intelletto in quanto principio della conoscenza intellettuale, volontà in quanto sorgente delle operazioni che caratterizzano la nostra vita volitiva.
Duns Scoto tentò di conciliare queste due soluzioni opposte sostenendo che le potenze si distinguono dall'essenza dell'a. formalmente: cioè non si distinguono fino al punto da caratterizzarsi di fronte ad essa come accidenti di fronte alla sostanza cui ineriscono; ma nemmeno fanno un tutt'uno con essa al punto da designare solo il suo vario atteggiarsi operativo.
Di questa prima controversia non c'è traccia negli scritti di Dante. Del tentativo del Busnelli (G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo D. Alighieri e le sue fonti, Roma 1922, 147-154) di fare di D. un sostenitore della sentenza tomistica, ha fatto giustizia il Nardi, osservando " che tutti i passi allegati dal Busnelli, per attribuire a Dante questa opinione, non esprimono se non concetti comuni, che s'incontrano spesso negli scritti degli stessi avversari dell'opinione tomistica " (B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, 364).
Un'altra vivacissima discussione si accese e si trascinò per lunghi anni fra gli scolastici, quella che riguardava i rapporti fra intelletto e volontà: dal punto di vista della perfezione, l'intelletto è facoltà superiore al volere, o il volere all'intendere? La questione, tutt'altro che insignificante, implicava il problema della libertà. Chi attribuisce il primato all'intelletto, finisce con l'ammettere che la volontà non può mai sottrarsi ai dettami della ragione. Se le cose stanno così facevano notare i volontaristi - la libertà del volere corre seri pericoli. Siccome il conoscere non è libero, ma condizionato dall'evidenza, ne consegue che la volontà potrebbe autodeterminarsi solo quando l'intelletto non fosse in grado di farla trovare di fronte a conclusioni apodittiche. In questo modo la libertà, più che una proprietà intrinseca del volere, si configurerebbe come conseguenza dello stato d'incertezza, nel quale l'imperfetta intelligenza dell'uomo può venire a trovarsi soltanto in questa vita. Considerata la vivacità e l'importanza della controversia, non è possibile che D. ne fosse all'oscuro.
Tuttavia nemmeno il Nardi, attentissimo studioso delle dottrine filosofiche di D., pare abbia trovato elementi sufficienti per decidere se D. abbia preso posizione fra intellettualisti e volontaristi. Comunque molte espressioni del Convivio sembrano favorevoli al primato dell'intelletto e all'intellettualismo aristotelico. Della scienza ultima perfezione dell'a. D. parla in Cv I I 1; e che si acqueta nel vero vedere, in II XIV 20, III XIII 6 (a. e l'atto di speculazione), IV II 17-18 (a. disposata alla filosofia e filosofante); cfr. Pg XXXI 128 e Cv IV XXX 5 per la filosofia che trova la sua camera nell'anima. Per il doppio uso dell'animo, cfr. IV XXII 10 ss. (civili operazioni dell'anima in IV XXVIII 16). Chi non badasse, per esempio, alla particolare concezione dantesca dello speculativo (si è, non operare per noi, ma considerare l'opere di Dio e de la Natura, Cv IV XXII 11) potrebbe attribuire all'elogio della vita contemplativa, che D. tesse in quel capitolo del Convivio, il valore di un'affermazione della superiorità del conoscere sul volere. Altri, al contrario, potrebbe far valere l'importanza che ha l'amore nell'ambito della vita universale, di quella umana (cfr. B. Nardi, La filosofia dell'amore, in D. e la cultura medioevale, pp. 1-92) e di quella divina in specie (cfr. E. Bettoni, D. e la teologia francescana, in Annali dell'Istituto di Studi Danteschi, I, Milano 1967, 6-7) e sentirsi per questo autorizzato ad annoverare il poeta fra i volontaristi.
Struttura dell'anima. - L'accordo fra tutti gli scolastici nell'insegnare che l'uomo mutua dalla forma intellettiva o dall'a. razionale la perfezione specifica e la nobiltà di creatura (per qualche lato superiore perfino agli angeli; ardisco a dire - scrive D. - che la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti, quella de l'angelo soperchia, tutto che l'angelica in sua unitade sia più divina, Cv IV XIX 6) e nell'escludere che si possa parlare di una molteplicità di a., non impedì che sorgessero disparità di opinioni nel determinare la struttura dell'essere umano.
Prima di s. Tommaso si ammetteva senz'altro che la realtà umana risultasse di almeno due forme sostanziali: la forma corporeitatis o forma organica, e l'a. spirituale (R. Zavalloni, Richard de Mediavilla et la controverse sur la pluralité des formes, Lovanio 1951, 418-419). Altri maestri (s. Bonaventura e l'Olivi, per es.) insegnavano che a ogni determinazione essenziale dell'uomo, essere corporeo misto, organico, vivente e senziente, corrispondesse una forma sostanziale. La discussione fra unicisti e pluralisti divampò solo quando s. Tommaso pretese di dimostrare che la teoria aristotelica della materia e della forma, se bene intesa, esclude come assurda la coesistenza in un essere, compreso l'uomo, di più forme sostanziali.
Il Busnelli (op. cit., pp. 115-116) s'industria a dimostrare che D., ancora una volta, abbraccia tacitamente la sentenza tomista. Il che è escluso con osservazioni, che sembrano decisive, del Nardi (Saggi di filosofia dantesca, pp. 359-360).
Vale la pena invece di osservare che alcuni sostenitori del pluralismo delle forme non si sono limitati a sostenere che nel composto umano coesistono, ordinate fra loro a modo di potenza e atto, più forme sostanziali, ma che questa subordinazione di forme si riscontra anche all'interno dell'anima.
Una versione originale di questa teoria pluralistica s'incontra negli scritti di Pier di Giovanni Olivi; proprio da essa deriva come logica conseguenza la sua tanto discussa affermazione che l'a. è forma sostanziale del corpo in quanto sensitiva, ma non in quanto intellettiva (cfr. E. Bettoni, Le dottrine filosofiche di Pier di Giovanni Olivi, Milano 1959, 334-379). D. ebbe modo, forse, di assistere alle lezioni che l'Olivi impartì nello Studio francescano di s. Croce in Firenze (cfr. F. Sarri, P. di G. Olivi e Ubertino da Casale maestri di teologia a Firenze, in " Studi Francescani " n.s. XI (1925) 88-125); questo fatto acuisce la nostra curiosità di sapere quello che il poeta pensava in proposito. Gli elementi si ricavano dalla teoria dantesca sull'origine dell'anima.
Origine dell'anima. - La lettura e lo studio degli scritti aristotelici nei primi decenni del sec. XIII provocò un rivolgimento delle idee tradizionali sull'origine dell'anima. Convinti che l'infusione dell'a. da parte di Dio nel corpo avvenisse una quarantina di giorni dopo l'inseminazione e quando l'embrione umano aveva raggiunto un certo grado di sviluppo, i medievali si trovarono di fronte al problema di quali principi o forme alimentassero la vita del feto umano prima dell'infusione dell'a. intellettiva.
Aristotele, nei primi capitoli del secondo libro del De Generatione animalium, fra molte oscurità, dice chiaramente che l'embrione umano vive e sente anche prima che gli venga dal di fuori la forma intellettiva. Ai tentativi dei commentatori greci e arabi per colmare le lacune del testo aristotelico, gli scolastici ne aggiunsero altri, dando luogo a una notevole varietà di opinioni. Il Nardi ne enumera fino a nove (L'origine dell'anima umana secondo D., in Studi di filosofia medievale, Roma 1960, 9-68). Riccardo Rufo riconduce i vari pareri emersi nella prima metà del sec. XIII a tre sentenze fondamentali: quella dei filosofi i quali " dicunt quod sunt tres substantiae, sed una anima in homine, scilicet quia vegetativa est possibilis respectu sensitivae et haec respectu intellectivae "; quella dei teologi " qui dicunt quod est ibi una substantia numero, in qua fundatae sunt haec tres potentiae et separantur cum anima omnes istae tres "; quella di coloro che, sforzandosi di conciliare filosofi e teologi, insegnano che nell'uomo c'è una potenza vegetativa e una sensitiva acquisite per generazione, e una potenza vegetativa e una sensitiva radicate nell'a. intellettiva creata direttamente da Dio (cfr. D.A. Callus, Two early Oxford Masters on the problem of plurality of forms, in " Revue Néoscol. de phil. " 1939, 439-445). I sostenitori della prima e della terza sentenza spiegavano lo sviluppo dell'embrione umano antecedente all'infusione dell'a. intellettiva allo stesso modo, con la presenza della forma o a. vegetativa e della sensitiva tratte dalla potenza della materia per via naturale. Differivano in un punto: per gli uni, i filosofi, vegetativa e sensitiva si unificavano con l'a. intellettiva rispetto alla quale erano in potenza; per gli altri, i conciliatori, la vegetativa e la sensitiva tratte dalla potenza della materia coesistevano con le due potenze vegetativa e sensitiva radicate nell'a. intellettiva creata e infusa da Dio.
Gli aderenti alla sentenza teologica, per trovare un accordo con l'affermazione aristotelica, " prius est animal quam homo ", ricorsero ad altre ingegnose ipotesi, che non è qui il caso di riferire. Limitiamoci a ricordare quelle di Bonaventura e di Tommaso. Bonaventura riteneva che il principio vegetativo e il sensitivo operanti nell'embrione non erano vere e proprie forme distinte da quella dei genitori, ma una specie di energia vitale contenuta nel seme o sperma paterno, in grado di promuovere lo sviluppo dell'organismo in formazione fino alla sua perfetta maturità. Come un proiettile continua la sua corsa nello spazio fino all'esaurimento dell'energia che gli è stata impressa dal lanciatore, così la crescita del feto sfrutterebbe fino al suo naturale esaurimento la carica vitale di cui il seme maschile è portatore (Sent. II 31 1 1; ed. Quaracchi, II 743).
Tommaso invece, più attento all'ortodossia aristotelica, insegnava che la forma o a. vegetativa tratta dalla potenza della materia scompariva nel momento stesso in cui il feto veniva informato dall'a. sensitiva, la quale, a sua volta, cadeva nel nulla al sopraggiungere dell'a. intellettiva. Questo perché l'apparire di una forma più perfetta rende inutile la presenza della forma precedente (Potentia 3 9 ad 9).
L'opinione dei filosofi, tanto più semplice e lineare, agli occhi dei teologi e soprattutto di s. Tommaso, aveva il difetto di mettere in pericolo l'unità dell'a. umana, risultante di principi formali non solo distinti, ma anche diversi per provenienza. La difficoltà pareva inconsistente ai sostenitori dell'opinione filosofica, in quanto l'unità sostanziale dell'a. pareva assicurata da quanto essi asserivano in armonia con i principii aristotelici: essere cioè la forma vegetativa, in potenza rispetto a quella sensitiva e questa in potenza rispetto all'anima intellettiva. Si trattava dunque non di tre a. o di tre forme giustapposte, ma unite fra loro da un rapporto di potenza ad atto identico a quello che dà luogo al sinolo sostanziale di materia e forma.
D. sia nel Convivio che nella Commedia espresse con una certa ampiezza il processo evolutivo dell'embrione umano dal suo primo formarsi nel seno materno fino alla sua perfetta organizzazione. I testi più compiuti sono quelli di Pg XXV e Cv IV XXI 4-5 E però dico che quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè la complessione; e matura e dispone la materia a la vertù formativa, la quale diede l'anima del generante; e la vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del seme l'anima in vita. La quale, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è (il termine ricorre ancora al § 7 e due volte al § 8). La stessa dottrina D. riespone in Pg XXV 37-75 (2 volte, ai vv. 74 e 96, compare la forma alma).
Gli studiosi che hanno analizzato e commentato con maggior impegno questi due testi danteschi sono il Busnelli (Cosmogonia e antropogenesi, pp. 201-264) e il Nardi (D. e la cultura medioevale, pp. 260-283; Studi di filosofia medievale, pp. 34-68; Saggi di filosofia dantesca, pp. 365-378); il primo per dimostrare che D. fra le varie teorie proposte dagli scolastici sull'origine dell'a. segue quella di s. Tommaso; il secondo per mettere in chiaro che le preferenze di D. vanno alla teoria filosofica secondo la quale l'a. vegetativa e la sensitiva sono termine del naturale processo generativo, e che soltanto l'a. intellettiva è creata direttamente da Dio. Non è qui il luogo di mettere in luce gli arbitri esegetici e i sottili arzigogoli letterari a cui deve ricorrere il Busnelli per far quadrare la teoria dantesca con quella di s. Tommaso: l'ha già fatto in modo egregio e a più riprese il Nardi.
Al nostro scopo è sufficiente richiamare nei suoi assunti principali la dottrina esposta da D. nei due testi riferiti e rilevare esattamente l'espressione dantesca, il cui fraintendimento permette al Busnelli di far coincidere le concezioni del poeta con quelle tomiste.
Al tempo di D. i medici, come i filosofi, insegnavano che il processo generativo avveniva per l'azione di tre fattori concomitanti: la virtù attiva derivata dall'a. del generante e indicata col nome di virtù formativa o informativa, la quale operava coadiuvata dalla virtù del cielo o dall'influenza degli astri e dalla virtù risultante dall'unione dei quattro elementi che determina la complessione fisica, più o meno buona, del seme. La prima operazione della virtù attiva o formativa, all'atto che s'incontra con l'ovulo femminile, è quella di provocare la fecondazione o, per dirla con D., la coagulazione dei due sangui: e, giunto lui, comincia ad operare / coagulando prima (Pg XXV 49-50). Secondo l'opinione di alcuni scolastici (Alessandro d'Hales e s. Bonaventura, per esempio), è solo questa " virtus decisa a generante " che fa vivere l'embrione e l'organizza fino a quando non è pronto a ricevere l'a. creata da Dio, che è insieme vegetativa, sensitiva e intellettiva. D. invece segue l'opinione di quanti insegnavano che la virtù formativa, appena dopo aver iniziato il processo vitale dell'embrione, con un passaggio dalla potenza all'atto che si compie per vertù celestiale, diventa a. vegetativa, prima, sensitiva poi. Non si vede infatti quale altro senso si possa dare alle espressioni di Cv IV XXI 4 e la vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del seme l'anima in vita, e a quelle di Pg XXV 52-53 Anima fatta la virtute attiva / qual d'una pianta... / ovra poi.
A questo punto D. si è già separato da s. Tommaso, il quale insegnava che la virtù formativa, dopo aver provocato la fecondazione e aver eccitato, con l'aiuto della virtù del cielo, l'a. vegetativa a passare dalla potenza all'atto, scompare: " esse desinit, dissoluto semine et evanescente spiritu qui inerat " (Sum. theol. I 118 1 ad 4). Identica sorte tocca all'a. vegetativa tratta, nel modo suddetto, dalla potenza all'atto, nell'istante stesso in cui compare l'a. sensitiva, e all'a. sensitiva nel momento in cui Dio infonde l'a. intellettiva.
Secondo D., invece, la virtù attiva diventa, cioè si trasforma nell'a. vegetativa, e questa, in virtù di un successivo incremento perfettivo, diventa a. sensitiva. Ci troviamo quindi dinanzi a un processo evolutivo che si realizza in natura per quella virtù celestiale, che produce da la potenza del seme l'anima in vita. E a questo punto che il Busnelli fraintende il pensiero di D.: la vertù celestiale, a suo giudizio, si identificherebbe con l'atto creativo di Dio e l'anima in vita prodotta non sarebbe altro che l'a. razionale. A una simile interpretazione si oppongono due considerazioni incontrovertibili.
La prima è che nel linguaggio dantesco, come ha fatto notare il Nardi (D. e la cultura medioevale, p. 270) l'espressione ‛ virtù celestiale ' e ‛ virtù del cielo ' è sempre usata per indicare la virtù d'i santi giri che spira dai lor propri beati motori come dal fabbro l'arte del martello (Pd II 128); è sempre usata, in altre parole, per indicare l'influenza che gli astri esercitano su quanto avviene nel nostro mondo. La seconda considerazione, ancor più decisiva, è che l'anima in vita non può essere l'a, razionale: in primo luogo perché è tratta dalla potenza del seme e quindi non è creata; in secondo luogo perché (come risulta chiaramente da Pg XXV 52-53) la virtù attiva si fa anima... / qual d'una pianta e quindi a. vegetativa, per diventare successivamente l'a. sensitiva, per cui il feto già si move e sente (v. 55); terzo, infine, perché l'intervento creativo del motor primo fa sì che l'essere in formazione d'animal divegna fante (v. 61).
Operazione divina, meravigliosa al punto che Non è cosa da manifestare a lingua (Cv IV XXI 6); per essa Dio prolunga e completa la mirabile arte della natura, capace di generare un animale, ma non un essere ragionevole. Dall'animale all'uomo c'è un salto qualitativo troppo grande perché lo possano promuovere gli agenti naturali, esso infatti implica la comparsa di uno spirito novo, di vertù repleto (Pg XXV 72), cioè, come chiarisce D. in Cv IV XXI 5, dell'intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore.
L'aspetto più meraviglioso dell'intervento creativo di Dio consiste nel fatto che l'intelletto possibile non solo si associa in operando all'a., come insegnava Averroè, ma unisce a sé sostanzialmente, in essendo, ciò che truova attivo nel feto umano, cioè l'a. vegetativa e sensitiva, e fassi un'alma sola.
Il Busnelli ha ragione quando conclude che se D. intende l'origine dell'a. umana come un successivo attuarsi della virtù formativa in a. vegetativa, della vegetativa in a. sensitiva, per opera di natura, e della sensitiva in a. intellettiva, per opera divina, allora per il poeta l'a. risulta dall'integrazione di più forme sostanziali, teoria energicamente rifiutata da s. Tommaso. Ha torto invece quando pretende di dimostrare che D. così si contraddirebbe col sottoscrivere l'opinione platonica sulla coesistenza di tre a. nell'uomo, da lui già respinta esplicitamente e qualificata come quello error che crede/ ch' un'anima sovr'altra in noi s'accenda (Pg IV 5-6).
Abbiamo già spiegato in che modo i sostenitori della diversa origine dell'a. sensitiva e intellettiva salvavano l'unità sostanziale dell'a. scagionandosi dall'accusa di far propria l'opinione platonica. Evidentemente D. condivide anche per questa parte la loro teoria, nel senso che il rapporto da potenza ad atto fra l'a. inferiore e l'immediatamente superiore è più che sufficiente a salvaguardare l'unità sostanziale dell'anima.
D. in conclusione concepisce l'unità dell'a. in modo diverso da Tommaso, trattandosi di un'unità in quanto integrazione di più forme subordinate l'una all'altra così come la materia si subordina alla forma per dar luogo al composto sostanziale. E proprio perché l'a. intellettiva, che pur viene dal di fuori, da Dio, attrae a sé l'a. vegetativa e sensitiva così da formare un'a. sola (e come tale fino al venticinquesimo anno di vita intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, Cv IV XXIV 2), e quando essa si separa dal corpo porta seco e l'umano e 'l divino (Pg XXV 81). Com'è ovvio, le potenze della vegetativa e della sensitiva rimangono prive delle operazioni loro proprie, mentre operano con moltiplicato vigore le potenze razionali: l'altre potenze tutte quante mute; / memoria, intelligenza e volontade / in atto molto più che prima agute (vv. 82-84).
Il destino dell'anina. - L'origine divina dell'a. intellettiva anche per D. si manifesta in quella specie di nostalgia di Dio, di inappagata inquietudine, di cui parla s. Agostino: e questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; ché nulla dilettazione è sì grande in questa vita che a l'anima nostra possa torre la sete, che sempre lo desiderio che detto è non rimagna nel pensiero (Cv III VI 7). Difatti, sebbene l'uomo si compiaccia ne le bontadi de la natura (II 8) tuttavia, siccome la sua a. più riceve de la natura divina che alcun'altra forma (§ 6), naturalmente disia e vuole essere a Dio unita (§ 7); così pure la nobile anima... vuole partire d'esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua [oper]azione (IV XXVIII 19); per questo la nostra anima sanza doglia si parte dal corpo ov'ella è stata (§ 4).
A tal proposito va ricordato che D. parla di anima ben posta a ricevere il seme di felicità, che è ‛ dono divino ' (Cv IV Le dolci rime 120, ripreso in XX 9 e 10 [due volte]; XXIX 3; per l'a. ‛ non disposta ' a ricevere, vedi XX 7 e 8. Dell'a, atta a ricevere come paziente ad agente è detto in II V 13, IX 7). Questo seme di felicità dato da Dio rende l'a, nobilitata (IV XXIV 7 e 8; e cfr. XXI 2; in Le dolci rime 116 è detto che solo Dio dona nobiltà all'a.), la quale si manifesta nelle diverse età come nobile natura, conferendo a esse le virtù (che sono beltà de l'anima, III XV 14) particolari d'ognuna, finché nella vecchiezza tende a tornare al suo creatore (dell'a. nobile e della natura buona e nobile D. parla in IV XXV 1 e 12, XXVI 13 e 15, XXVII 1 e 2, XXVIII 1, 5, 7, 11, 13, 15, 17 e 19).
Si tratta di una tendenza innata, insopprimibile, presente in ogni uomo; poiché anche l'anima semplicetta che sa nulla/... mossa da lieto fattore, / volontier torna a ciò che la trastulla (Pg XVI 88-90) ma poi, forte dell'esperienza delle gioie effimere di quaggiù, sempre conclude che già mai non si sazia nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia (Pd IV 124-126).
Ma solo dopo la morte avviene il primo incontro con Dio: E qui è da sapere che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, la naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo. Ed è così: [ché], come lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento, entra in quello; così noi dovemo calare le vele de le nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace (Cv IV XXVIII 3). Il naturale orrore della morte infatti può essere vinto dalla certezza dell'immortalità, immortalità che D. riteneva fuori discussione, in base a fortissimi argomenti: Dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita (II VIII 8). Gli argomenti a cui D. si appella sono tre: il consenso universale: se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de' filosofi come de li altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale § 8); il desiderio e la speranza poste nell'uomo dalla natura: se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro difetto che di nullo altro animale, con ciò sia cosa che molti già sono stati che hanno data questa vita per quella... Ancora, seguiterebbe che la natura contra se medesima questa speranza ne la mente umana posta avesse, poi che detto è che molti a la morte del corpo sono corsi, per vivere ne l'altra vita; e questo è anche impossibile (§§ 11-12); le esperienze divinatorie: vedemo continua esperienza de la nostra immortalitade ne le divinazioni de' nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse (§ 13; sulle fonti e il valore di questi argomenti, cfr. B. Nardi, D. e la cultura medievale, pp. 284-384).
Ma che valore attribuiva D. a questi argomenti? La domanda è giustificata dal fatto che quando D. scriveva non tutti gli scolastici condividevano la convinzione di quanti (s. Tommaso, per esempio) ritenevano dimostrabile filosoficamente l'immortalità o, meglio, la sopravvivenza dell'a. al corpo. È noto che Duns Scoto, e non solo lui, si era rifiutato di ritenere ineccepibili sia gli argomenti tomisti sia quelli agostiniani (E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano 1966, 134-142) e aveva concluso che la certezza dell'immortalità dell'a. è soltanto una certezza di fede.
Verso quale posizione inclina D.? Le righe del Convivio con cui l'autore sembra attenuare la proposizione assertoria vedemo continua esperienza, che aveva introdotto l'argomento delle esperienze divinatorie (noi non potemo perfettamente vedere [la nostra immortalità] mentre che 'l nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamente, e per ragione lo vedemo con ombra d'oscuritade, II VIII 15) ci dicono che, in conclusione, D. non era del tutto sicuro dell'apoditticità degli argomenti razionali proposti. La nostra interpretazione ci pare confermata dall'esplicito richiamo alla rivelazione: Ancora, n'accerta la dottrina veracissima di Cristo... Questa dottrina dico che ne fa certi sopra tutte altre ragioni (§§ 14-15). D. poteva dire che la certezza dell'immortalità data dalla fede ne fa certi sopra altre ragioni, solo se riteneva che la forza dimostrativa di tali ragioni non fosse in grado di dissipare ogni dubbio.
È significativo che nella Commedia a prova dell'incorruttibilità dell'a. sia invocata soltanto la creazione diretta dell'a. da parte di Dio: ma vostra vita sanza mezzo spira / la somma beninanza, e la innamora / di sé sì che poi sempre la disira (Pd VII 142-144). Nell'istante in cui l'a. si distacca dal corpo, le si fa manifesto il suo destino eterno: Sanza restarsi, per sé stessa cade / mirabilmente a l'una de le rive; quivi conosce prima le sue strade (Pg XXV 85-87), o si ritrova dinnanzi alla porta della città dolente, o mette il piede sul primo gradino della scala che reca in Paradiso per correre alla visione beatifica di Dio.