angoscia
Termine che in campo psicologico designa uno stato doloroso di ansietà. Dopo una lunga elaborazione nel campo della religione e della teologia gnostica, ebraica e cristiana, a partire soprattutto dal 19° sec., con l’opera di Kierkegaard, il termine ha assunto un significato filosofico, designando lo stato di smarrimento che l’uomo prova quando è posto di fronte all’incertezza e indeterminatezza della sua esistenza, caratterizzata dall’essere un mero possibile, e alla tragica prospettiva della morte e della perdizione. Nel 20° sec., con la filosofia esistenziale, che ha riscoperto Kierkegaard, il concetto di a. si è arricchito di nuove sfumature, ma ha conservato sempre la caratteristica di essere un concetto filosofico fortemente legato alla dimensione psicologica e a uno sfondo metafisico e teologico.
L’a. è un tema che non è sconosciuto alla filosofia antica: nel De rerum natura di Lucrezio la paura della morte e l’oppressione dell’umanità sotto la cappa della superstizione si colorano, rispetto alla tradizione epicurea da cui Lucrezio le riprende, di un cupo pessimismo in cui si avvertono, soprattutto nelle famose pagine dedicate alla peste di Atene, accenti che fanno pensare alla moderna tematica esistenziale. Ma è soltanto con il cristianesimo che l’a. acquista un significato metafisico universale: non solo nella passione di Cristo, ma anche in episodi che la precedono e la preparano, come quello dell’orto del Getsemani, in cui compaiono una serie di esperienze (dolorosa consapevolezza di un destino tragico, dubbi e incertezze sull’essere abbandonati da Dio, senso di solitudine assoluta) che saranno paradigmatiche per le riflessioni filosofiche dei secoli successivi. Importanti sono anche le nuove sfumature e la nuova centralità che il tema acquista nella tradizione protestante, giansenista e, in senso lato, ereticale, come in Lutero, la cui esperienza religiosa è caratterizzata dall’ansiosa insicurezza del credente nei confronti del decretodi salvezza o di condanna di un Dio terribile e misterioso, o nel teosofo e filosofo tedesco Böhme, che vede l’a. insita nello stesso Dio creatore e la lega al processo di creazione come lotta drammatica fra bene e male. In campo giansenista, Pascal, nei suoi Pensieri, considera l’uomo perso in «un Universo muto» e «senza luce, abbandonato a sé stesso, e come smarrito in un angolo dell’Universo», in preda al terrore e alla disperazione di fronte alla mancanza di segni da parte di un Dio nascosto. In Schelling, nella fase di pensiero successiva all’idealismo dell’identità, la tematica dell’a. di Böhme viene ripresa su un piano più schiettamente filosofico: l’a. è del Dio o principio assoluto che è sottoposto a una vera e propria caduta nella finitezza e nella mortalità, ma è anche dell’uomo che nel dramma della sua libertà rivive a livello individuale la lacerazione divina fra bene e male, fra scelta e destino.
È soltanto con Kierkegaard che il concetto di a. riceve una dignità filosofica piena, pur mantenendo un profondo rapporto con l’esperienza religiosa. Nel quadro della sua ricerca sul significato dell’esistenza, per la quale Kierkegaard è a giusto titolo considerato il padre dell’esistenzialismo, l’a., a cui il filosofo danese dedica un’opera classica, Il concetto dell’angoscia (1844), rappresenta il sentimento di smarrimento che investe l’uomo quando si rende conto che la sua esistenza è una mera possibilità, che egli può volgere verso il bene o verso il male. In tal senso, l’a. non è timore di qualcosa di determinato, ma sentimento di paura del tutto indeterminata e, proprio per questo, vera e propria formatrice dell’uomo come essere libero; essa lo educa alla possibilità, gli apre la dimensione del futuro e quindi lo porta alla vera e propria infinità: «Colui che è formato dall’a. è formato mediante possibilità. E soltanto chi è formato dalla possibilità è formato secondo la sua infinità». Ma tale apertura assoluta al possibile data dall’a. si realizza solo in quanto in essa il possibile è esperito nel suo aspetto più terribile: nella consapevolezza che in ogni momento siamo esposti all’annientamento e alla morte. Questa costante coscienza della morte ci stacca da ogni finitezza e ci rende veramente infiniti aprendoci alla fede, che è, dice Kierkegaard riferendosi esplicitamente a Hegel, «la certezza interiore che anticipa l’infinito».
Rifacendosi direttamente a Kierkegaard, Jaspers, che è il primo grande esponente dell’esistenzialismo del 20° sec., pone l’a. fra quelle che egli definisce le «situazioni-limite» dell’esistenza: situazioni, cioè, che, come il dolore o la morte, mettono l’uomo di fronte alla finitezza della sua esistenza e «sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo». L’inaggirabilità di tali situazioni conduce l’uomo a rendersi conto che esiste qualcosa che lo trascende. In particolare, in Filosofia 2 - Chiarificazione dell’esistenza (1932), l’a. è presentata da Jaspers in una duplice forma: come a. di non-essere, ossia paura del fatto che dopo la morte nulla rimarrà del nostro essere sensibile; e come a. di non esistenza, che, al contrario della prima, parte dalla certezza che l’esistenza è qualcosa di superiore al mondo sensibile e può o far sì che si trovi «pace di fronte alla morte, intesa come serenità nella consapevolezza della fine», se si nutre veramente la fede nella trascendenza, o condurre alla disperazione più totale, in mancanza di tale fede.
Riprendendo direttamente Kierkegaard, Heidegger inserisce il concetto di a. nella complessa analitica esistenziale che egli sviluppa in Essere e tempo (➔) (1927). L’affettività è una dimensione fondamentale del Dasein («esserci»), cioè di quell’ente che è per sua natura aperto all’essere e che solo a titolo indicativo e provvisorio può essere identificato con l’uomo; perciò un’attenzione particolare è dedicata da Heidegger ai sentimenti o stati emotivi; in questo quadro l’a. è uno stato emotivo di primaria importanza, poiché in essa si dà a vedere la struttura fondamentale dell’esserci, la cura: essendo infatti l’a. un’emozione che coinvolge totalmente, essa dà a vedere appunto il carattere di totalità dell’Esserci, ossia il fatto che esso è capace di coinvolgere le cose in un progetto proprio e autentico (➔ autentico/inautentico). Nella sez. 2a di Essere e tempo, in cui Heidegger opera un ulteriore approfondimento della sua analitica esistenziale, è ancora l’a. a essere un filo conduttore fondamentale. Essendo turbamento di fronte al fatto che siamo mera possibilità e tremore di fronte alla morte, essa è fondamentale per quella decisione anticipatrice della morte che è uno dei capisaldi dell’opera heideggeriana: solo attraverso l’esperienza dell’a., che pone la nostra finitezza in rapporto alla morte, possiamo arrivare alle scelte veramente proprie dell’esistenza, che si fanno nell’orizzonte della nostra finitezza, avendo come sfondo la morte quale nostra possibilità più propria.
Ne La nausea (1938) il protagonista del romanzo è afflitto da una vera e propria psicopatologia: attacchi di «nausea», che sono la versione psicologico-letteraria del concetto esistenzialistico di angoscia. Presentandosi dapprima come un senso di oppressione delle cose sull’uomo, come un’invasione del soggetto da parte del mondo, che lo rende del tutto passivo, la nausea è in realtà un sentimento di totale smarrimento che rivela la caratteristica distintiva essenziale del soggetto rispetto alle cose: il fatto che egli è un nulla, che, di conseguenza, non ha valori e fini che possano orientarlo nel mondo e che è assolutamente solo di fronte alla morte e di fronte al compito di progettare un’esistenza sensata. Guardando sia alla lezione di Kierkegaard sia a quella di Heidegger, Sartre pone in maggior risalto, rispetto a essi, il tema della libertà del soggetto umano. Nelle pagine che dedicherà all’a. nell’opera L’essere e il nulla (➔) (1943), questa volta designandola proprio con questo termine, Sartre non si distaccherà sostanzialmente da tale concezione di un’a. come espressione del carattere libero dell’uomo.