ANGKOR (A. T., 95-96)
Si dà il nome di monumenti di Angkor ad un insieme di rovine che si estendono in un quadrilatero irregolare, di oltre 10 km. di lato, a N. del Toulè sap (Grand Lac), nella provincia cambogiana di Siem reap (Battambang). Essi segnano l'apogeo dell'antico impero Khmer (v.) la cui storia va dal sec. VI al XIV d. C. Le rovine formano due gruppi contigui: Angkor-Thom, la "Grande Capitale" e Angkor-Vat, il "Tempio". La prima fu costruita verso il 900 da Yasovarman che la denominò Yasodharapuri; i suoi successori, e specialmente Suryavarman II (1112-1152 circa), ne iniziarono l'ingrandimento con la costruzione del gran tempio. Questi resti grandiosi, gradualmente dissepolti e liberati dalla foresta tropicale per opera della Scuola francese dell'Estremo Oriente, rivelano cinte estesissime, larghe strade d'accesso selciate, bacini d'acqua, fortilizî e, soprattutto, l'architettura mirabile dei templi e dei numerosi santuarî, che narrano, con le sculture, le scene della vita dei Khmer, le gesta della trimurti indiana e anche la presenza del Buddha. Angkor-Thom, la città regale, aveva nell'insieme quella planimetria regolare e simmetrica che distingue le costruzioni dei Khmer, anche di pianta complicatissima: quadrata, cinta di fossato e di mura, con cinque porte turrite, divisa da quattro strade al cui incrocio, nel suo centro, è il tempio. Questo, detto Bayon, fu incominciato dal re Indvavarman I (877-889): ha tre piani di gallerie con torri alla sommità in forma di quadruplice maschera umana che sorride serenamente; al centro, si eleva gigantesca sulle altre una torre modellata in ugual modo. Alle sue masse lapidee, enormi ma frastagliate, si accorda la vivace decorazione e la varietà dei bassorilievi che istoriano le gallerie con leggende, con animali, con rappresentazioni svariate e di genere, tutte esuberanti di movimento e di vitalità. Dinnanzi al palazzo reale, scomparso intieramente forse perché costruito in legno, formava un belvedere - dove ora è la potente e compatta figura ignuda detta del Re lebbroso - la grande spianata a terrazzo, che ancora rimane con le sue scalee e col prospetto coperto di rilievi d'animali, di cacce, di giochi, di divinità, di danzatrici. Sulla spianata è ancora il tempio regale (Fimeanakas) anch'esso della fine del sec. IX, semplice, al paragone del Bayon, nei grandi ripiani che sembrano rastremati verso il vertice, dov'è il sacrario, animati nei complessi profili, e interrotti da quattro scalee che accentuano l'ascendere della costruzione, quasi piramidale.
Angkor-Vat, il gran tempio del regno, costruito più che due secoli dopo, dimostra la continuità della tradizione architettonica, nel tema generale e nell'esecuzione, ma con un nuovo senso di ampiezza e di chiarezza. Nella costruzione domina sempre il concetto della sovrapposizione piramidale di diversi ripiani che culmina in una parte centrale torreggiante; la pianta con cortili a loggiati, con gallerie cruciformi, con piscine, è estremamente complessa sebbene regolata da rigida simmetria; la decorazione plastica, con figurazioni dei miti e della poesia indiana, mostra un'arte più delicata che ad Angkor-Thom, quantunque intimamente affine (v. khmer: arte).
Non lontano da Angkor, a 25 chilometri, sono le rovine del tempio di Isvanapura, del sec. X nelle parti più antiche, del XIV nelle sculture. Nel sec. XV i Khmer cessarono di costruire ed Angkor fu abbandonato. (V. tavv. LXXI a LXXIV).
Bibl.: F. Garnier, Voyage d'exploration en Indochine pendant les années 1866-1868, Parigi 1873, voll. 2; L. Delaporte, Voyage au Cambodge: Architecture Khmère, Parigi 1880, voll. 2; G. Maspero, L'Histoire Khmère. Histoire et documents, Pnompenh 1904; E. Lunet de Lajonquière, Inventaire archéologique de l'Indochine: I. Monuments du Cambodge, Parigi 1902, in 8° (Public. de l'École française de l'Extrême-Orient; G. Coedès, Les bas-reliefs d'Angkor-Vat, in Bulletin de la Commission archéol. de l'Indo-Chine, 1911; H. Dufour e C. Carpeaux, Le Bayon d'Angkor-Thom, Parigi 1914; A. C. Coomaraswamy, History of Indian and Indonesian Art, Londra 1927, p. 187 segg.; per riproduzioni: G. H. Monod, Les ruines d'Angkor, Parigi 1926.