ANGILBERTO
Salito alla cattedra di S. Ambrogio il 27 od il 28 giugno 824, la resse per oltre trentacinque anni. Fu uno dei più importanti presuli milanesi: si deve ad A infatti il merito di aver risollevato le sorti della sua diocesi sia sul piano strettamente religioso sia sul piano dei rapporti con le supreme autorità laiche le quali s'erano rivolte nuovamente a potenziare Pavia, da che un predecessore di A., Anselmo, aveva appoggiato la ribellione di Bernardo re d'Italia contro lo zio Lodovico il Pio (fine 817). Tutti gli storici milanesi lo annoverano tra quei grandi presuli che, da Anselmo ad Ariberto, condussero una politica di autonomia e supremazia nei territori dell'antico "regnum" longobardo, con progressiva invadenza dei poteri ecclesiastici nel mondo laico.
Forse franco d'origine (sembra da scartare la notizia della sua appartenenza al Pusterla), A. certo s'ispirò nella sua azione agli ideali di rinnovamento spirituale che, affermatisi oltr'alpe, s'erano estesi all'Italia in seguito alla conquista franca, contribuendo fortemente all'espansione dei più significativi contributi di tale rinnovamento, che inserì nel vecchio contesto longobardo. Nell'ambito di questo orientamento rientrano le cure assidue che A. prestò al monastero ed alla chiesa milanese di S. Ambrogio: del primo nominò abati e confermò beni e privilegi onde si riportasse nuova vita nell'ordine "corruptus" (atti del 10 marzo 835 e dell'843: il primo è assai sospetto e sicuramente interpolato in alcuni punti, ma con ogni probabilità riflette un originale perduto); della seconda si preoccupò di sistemare il clero, affidando a quello secolare la custodia e l'officiatura. La cura per s. Ambrogio, per la chiesa del santo milanese, non s'esaurì qui: il mosaico dell'abside, l'affresco a questo sottostante con i nomi delle sedi suffraganee, il famoso altare d'oro infine, in cui compaiono ricordi precisi dell'arte lombarda, tutti questi elementi mostrano, pur nell'incertezza d'una loro precisa datazione, l'intento che ebbe il nostro arcivescovo di porre su un piano ben preciso la sua sede, di nobilitarla, di darle la possibilità di nuovi sviluppi, quali si verificheranno allorché S. Ambrogio diverrà sede, in concorrenza con Pavia, di elezioni e coronazioni di re d'Italia.
Ma ancora altre prove abbiamo della sua vasta attività. Portò a termine, se non addirittura iniziò, la costruzione della chiesa iemale di S. Maria Maggiore e tale opera è da porsi con ogni probabilità in relazione con l'introduzione o il potenziamento della vita comime del clero, istituzione questa tipicamente franca. Legò "insolubili vinculo" alla sua diocesi due monaci francesi, Leodegario abate ed Ilduino, forse venuti dal famoso centro monastico di Corbie; collaborò all'opera di riforma del vescovo di Brescia, Ramperto, fondatore (31 maggio 841) del monastero di S. Faustino e Giovita, cedendogli i due monaci francesi perché potessero ivi dare inizio ad una vera vita religiosa di comunità e confermando, prima del settembre 842 in un sinodo tenuto a Milano, tale istituzione con le immunità che le permettessero di vivere e prosperare; condusse, insieme al patriarca d'Aquileia Andrea ed all'arcicappellano e vescovo d'Ivrea Giuseppe, su sollecitazione diretta ("viva voce") del re Lodovico II, un'inchiesta sulle condizioni del clero e del popolo, sulle relazioni tra clero ed ufficiali regi. Il risultato di tale inchiesta, reso noto in un sinodo tenuto a Pavia tra l'ottobre 845 e l'aprile 850, costituisce un insieme prezioso di testimonianze che da una parte illumina l'intimo rapporto ed il reciproco appoggio che univa le autorità ecclesiastiche con le supreme autorità laiche, e la posizione che su questo piano aveva raggiunto il nostro arcivescovo, dall'altra ci dà un quadro preciso del non felice stato del clero e del popolo i cui maggiori, "divites" e "nobiles", trascuravano i loro doveri religiosi, e delle non sempre buone relazioni del clero con gli ufficiali regi.
Ad A. è attribuita anche la costruzione del monastero di S. Vincenzo in Prato, alla periferia di Milano, al quale nell'833, avrebbe unito l'altro di S. Pietro di Mandello.
Le vicende politiche, con le loro alternative, hanno certo contribuito al crearsi di quegli scambi, in campo culturale e religioso, che dovevano essere così felici di conseguenze per l'Italia longobarda. Molti studiosi infatti ritengono che i due monaci francesi Leodegario ed Ilduino cui s'è fatto cenno, fossero stati costretti ad allontanarsi dalla Francia al seguito del loro abate Wala, sostenitore dello sfortunato Lotario I nella sua lotta contro i fratelli ed il padre Lodovico il Pio, nell'834. Le stesse vicende politiche rendono poi cariche di ulteriore significato determinate azioni di A., come le traslazioni del corpo di s. Calogero da Albenga al monastero di S. Pietro di Civate, sul lago di Lecco, e quello di s. Pietro nella chiesa di S. Primo a Leggiuno, sul lago Maggiore. Se infatti il trasporto di s. Calogero avvenne prima dell'843, è forse da mettere in relazione con il desiderio di A. di assecondare gli sforzi del suo re ed imperatore Lotario per strappare la Rezia prima al fratello Lodovico il Tedesco: l'abazia di Civate era posta proprio sulla strada più diretta che da Pavia a Milano portava verso la Rezia, ed è probabile che la stessa ragione abbia spinto il nostro arcivescovo a collocare a Civate anche Leodegario ed Ilduino ove li troviamo nell'845. Il trasporto del corpo di s. Primo a Leggiuno, avvenuto il 10 agosto 846, sarebbe invece indizio dello spostarsi dei traffici milanesi verso occidente dopo che il trattato di Verdun (agosto 843) sancì la perdita della Rezia da parte di Lotario a favore di Lodovico il Tedesco. Il trattato di Verdun incise molto probabilmente sulla compagine stessa dell'arcidiocesi milanese: il vescovato di Coira infatti venne aggregato all'arcidiocesi moguntina tra l'842, ultimo anno in cui compare tra le diocesi suffraganee di Milano, e l'847, anno in cui risulta attestata la sua dipendenza dall'arcivescovo di Magonza.
Notevole l'attività più direttamente politica di A., causa e, successivamente, conseguenza insieme del suo prestigio religioso, in un'età turbata dalle rivalità dei discendenti di Carlo Magno. Fu, se è da credere il cronista Andrea da Bergamo che lo riferisce, tra coloro che consigliarono Lotario a ribellarsi al padre (833), episodio da alcuni valutato come segno d'uno spirito italico o comunque autonomistico e della volontà dell'arcivescovo d'avvantaggiarsi personalmente delle discordie della famiglia carolingia, e da altri studiosi invece visto come segno di fedeltà di A. agli schemi che hanno costituito l'elemento di continuità del dominio carolingio: l'universalismo cioè e l'osservanza dei patti di famiglia, ripetutamente violati da Lodovico il Pio. Fu comunque lo stesso A. che ebbe funzioni felici di intermediario tra Lotario ed il padre forse intorno all'837. Inoltre, A. fu il primo arcivescovo milan ad avere la dignità di "missus", attestataci nell'aprile 844 e nel maggio 859, il che gli permise di inserirsi di diritto nella vita politica mwtante, in posizione di primo piano. A capo dei "proceres" ecclesiastici, e quindi anche dei laici, presenziò ad una dieta che, con ogni probabilità, insieme ad un concilio riformatore, si tenne a Pavia alla fine dell'850; due volte si recò a Roma: il 15 giugno 844 per l'incoronazione a "rex Langobardorum" di Lodovico II figlio di Lotario; nell'aprile 850 Per l'incoronazione imperiale dello stesso., Di particolare importanza il titolo regio attribuito a Lodovico II perché poneva in primo piano la figura dell'arcivescovo di Milano e dava forse anche nuova importanza all'elemento longobardo, di cui solo potevano tornare a giovarsi i re italici nella lotta contro i fratelli, e nel compito di difesa della Chiesa. Non è senza significato a questo proposito la benevolenza con cui A. raccomandò la causa del longobardo diacono Ansperto, molto probabilmente il futuro arcivescovo di Milano, presso l'imperatore Lodovico II (20 giugno 857). Che in occasione dell'incoronazione regia di Lodovico II iniziasse uno scisma tra la Chiesa milanese e Roma è notizia delle fonti, ma del tutto priva di fondamento: può però nascondere un risentimento da parte di A. perché gli era stata sottratta da parte del Papa l'elezione del re, cui forse credeva d'avere diritto come capo dei "proceres" ecclesiastici.
Morì il 13 dicembre 859. Fu sepolto nella chiesa di S. Nazaro, sulla strada da Milano per Roma, quasi a riaffermare, come fu notato, forse memore delle giornate romane, il monito ambrosiano "ubi Petrus ibi ecclesia Mediolanensis".
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