SAVELLI, Angelo
– Nacque a Pizzo (Vibo Valentia) il 30 ottobre 1911, secondogenito di Giorgio (1873-1952), farmacista, e di Maria Virginia Barone (1884-1966). Ebbe quattro tra fratelli e sorelle: Vincenzo, farmacista (1909-1982), Maria (1913-1973), Vincenzina (1915-2000) e Carmelo, insegnante e pittore (1919-1991); agli ultimi due fu sempre molto legato. Studiò con il pittore Alfonso Barone (1878-1951), zio materno e membro di una famiglia di artisti: a lui e a suo padre Angelo Barone (1845-1917) si deve la chiesetta di Piedigrotta a Pizzo, venerata dai pescatori: i Barone scolpirono nelle rocce statue di santi, scene bibliche ed episodi devozionali, e vi dipinsero molti affreschi. Angelo imparò dallo zio Alfonso il disegno e le tecniche pittoriche di base, affresco compreso.
Nel 1930 andò a studiare a Roma: alla Scuola libera di nudo, dove iniziò l’amicizia con Pericle Fazzini, e al liceo artistico; poi all’Accademia di belle arti: qui ritrovò Ferruccio Ferrazzi come docente di decorazione; con lui acquistò padronanza nell’affresco e nella tempera grassa all’uovo, trovando un punto di riferimento per le sue prime scelte artistiche.
Nel 1935 fu designato littore per l’affresco e vinse i premi Mattia Preti e Balestra dell’Accademia di S. Luca. Diplomato nel 1936, ricevette varie commissioni, fra cui il ciclo di affreschi nella cappella di villa Boimond a Sora (Frosinone). Ormai ben ambientato a Roma – frequentava gli artisti della scuola di via Cavour, Mario Mafai e la moglie Antonietta Raphaël, oltre a Scipione (Gino Bonichi), cui guardò in particolare – il pittore vi trasferì la sua residenza il 12 aprile 1937. Dal 1940 insegnò al liceo artistico (continuò sino al 1954, quando andò negli Stati Uniti) e prese studio in via Margutta 49, come tanti artisti dell’epoca, da Fazzini a Nino Franchina, da Gino Severini a Renato Guttuso (il cui studio era al n. 51/A). L’insegnamento gli garantì autonomia economica, e si dedicò alla ricerca: in pittura scoprì una propria via, con echi di Ferrazzi, Scipione e Guttuso, ma risolti in un linguaggio che colpì la critica per la sua originalità: pennellate materiche, forti contrasti di colore, una figurazione tesa e decisa, con atmosfere cupe e insieme accese, che suggeriva drammatiche e violente tensioni sotterranee; un espressionismo dai risvolti misteriosi e come sospesi. Savelli stesso scrisse: «Amo i colori vivi, sonori e carnosi, cupi e profondi» (Roma 1934, 1986, p. 229).
Nel 1940, alla IX Mostra del Sindacato interprovinciale fascista belle arti del Lazio, vinse il premio del Duce e la Galleria nazionale acquistò Capriccio (maschera con barba), la prima sua opera entrata nelle collezioni del prestigioso museo. Nel 1941 partecipò al III premio Bergamo, con Nel mio studio, Fine di una speranza e I fiori di Annabella Sian Lee, vincendo uno dei quattro premi aggiunti di 2500 lire: Guido Piovene (1941) scrisse di «una nuova esplosione di colorismo nella pittura italiana», indicando Savelli come «la sorpresa più gradevole» (p. 19); Attilio Podestà (1941) lo disse artista «intelligente e sensibile» (p. 32). A dicembre ebbe la prima personale, alla Galleria di Roma, presentata da Guglielmo Petroni;la Galleria nazionale ne acquistò un altro dipinto, Natura morta (fiori). Nel 1942 partecipò al IV premio Bergamo con Natura morta con flauto, Composizione e Piazza del popolo di notte, e vinse uno dei quattro premi aggiunti di 5000 lire. Ebbe personali in gallerie di primo piano (Cairola a Genova, presentato da Virgilio Guzzi; galleria della Spiga a Milano, presentato da Podestà). Iniziò a leggere libri sulla filosofia Zen e la meditazione yoga (che a Venezia, nel 1947, divenne per lui un esercizio quotidiano, da cui trasse ispirazione come uomo e come artista). Nel 1943 espose Natura morta, Il folle, La cuffietta olandese di Liana e Omaggio a Poe alla IV Quadriennale di Roma; ebbe personali nelle gallerie Il Ritrovo e S. Marco (vi espose poi più volte). Richiamato alle armi il 26 maggio 1943, fu ufficiale nell’82° Reggimento di fanteria Torino sino all’8 settembre. Rientrato a Roma, visse il pesante periodo dell’occupazione nazista della capitale. I temi dei suoi dipinti ne risentirono, con lacerazioni figurative sempre più drammatiche. Iniziò un percorso di riflessione anche esistenziale che lo portò a riconsiderare senso e obiettivi della propria ricerca artistica ed espressiva. Fin da allora, riguardò a Enrico Prampolini e all’eredità dei primi futuristi, di un respiro tanto più internazionale degli artisti della Scuola romana.
La Liberazione portò una ventata di novità; come molti coetanei, Savelli si confrontò con l’arte internazionale, sperimentando accostamenti ai nuovi linguaggi d’Oltralpe. Fu tra i fondatori dell’Art Club, l’associazione artistica internazionale indipendente che dal 1945 contribuì, per iniziativa dell’artista polacco Józep Jarema (1900-1974), a creare un vivace dibattito. Evitò sempre di schierarsi nello scontro fra astrattisti e realisti, che, più per ragioni ideologiche che artistiche, avrebbe creato poi artificiose contrapposizioni. Difese la propria autonomia di ricerca, e approfondì il ruolo della luce in pittura, ripensando al Futurismo ma pure alla considerazione che Ferrazzi aveva per Seurat.
Sin dalla prima mostra dell’Art Club, nel 1945, fu notato dalla migliore critica del tempo; fu vicino a Giulio Turcato e a Piero Dorazio, cui lo legò un’amicizia durata tutta la vita; non fece mai parte di Forma 1 né del Fronte nuovo delle arti o di altri gruppi del dopoguerra.
Importanti i suoi soggiorni a Firenze e Venezia, dove nel 1947 la galleria Sandri gli dedicò una personale; la presentò Marco Valsecchi, che vide nelle sue opere «l’incubo di un nordico protestante più che il sogno di un calabrese». Nel 1948 Savelli ebbe una borsa con cui visse a Parigi per quasi un anno. Qui – studiando la cattedrale di Notre-Dame, visitando mostre e frequentando gli ateliers degli artisti più aggiornati – giunse a una svolta radicale: colpito dai colori luminosi delle vetrate e dalle linee delle piombature, quanto dai modi di Georges Rouault, passò a una pittura dal forte linearismo geometrizzante, dove vibravano campiture di colori dinamizzati dalla luce; Savelli stesso la definì la sua 'Linea zero' (un dipinto del 1948 è intitolato Dalla linea zero).
Tornato a Roma, frequentò gli studi di tanti suoi amici – Afro Basaldella, Pietro Consagra, Achille Perilli, Severini, Salvatore Scarpitta, Giuseppe Capogrossi, pure Corrado Cagli – discutendo con loro, ma proseguì le ricerche sui materiali (dando spazio al disegno e all’illustrazione, in forme ormai astratte), e operando una distillazione di linguaggio, purista ed essenziale.
Oltre a partecipare a mostre dell’Art Club in Italia e all’estero, fu invitato alle Biennali di Venezia del 1950 (Scoperta inquietante, Attualità vivente, Gli elementi provocati), del 1952 (Nello spazio, Travolgente, Il sole penetra dentro la terra, Noi alla conquista dello spazio, Realtà dinamica dello spazio) e del 1954 (Apparizione all’alba, Natura ribelle, Il polline sui fiori, Turbolenza benefica della natura, Flusso vitale). La tensione della sua ricerca ha riscontro nei titoli delle opere; le sue audaci soluzioni formali continuarono a essere apprezzate dalla critica.
Dal 1953 si dedicò alla serigrafia, lavorando sul supporto cartaceo, e trasformandolo in una sorta di calco che manteneva il ricordo fisico dell’impressione. Le personali in gallerie fra le più importanti (Naviglio a Milano; Cavallino a Venezia; S. Marco, Chiurazzi, Schneider a Roma) dimostrano quanto Savelli fu un protagonista di quella stagione artistica.
A Roma conobbe la scrittrice e poetessa statunitense Elizabeth Fischer; la sposò nel 1953 e nel 1954 andò con lei a New York, pensando di starci sei mesi. Invece vi si trasferì per decenni, con una netta svolta umana e artistica; molte novità d’oltreoceano gli erano già note, grazie agli incontri romani con vari artisti americani (da Theodoros Stamos a Cy Twombly); ma il confronto diretto con l’intensa vitalità e i ritmi quotidiani del mondo artistico negli Stati Uniti fu un’esperienza forte, quasi sconvolgente. Ancora una volta ripartì da zero, misurandosi con quel nuovo orizzonte dalle inusitate dimensioni. Prima che partisse, era uscito un libro (Pittori che scrivono, 1954, curato da Leonardo Sinisgalli) con una significativa dichiarazione di Savelli: «I miei occhi hanno come una sottilissima punta; e vogliono penetrare, penetrare dentro. Vedere, sentire, amare» (p. 190).
A New York, Savelli trovò interlocutori nell’Art Club della Decima Strada, dove al venerdì sera si vedeva con lo scultore Philip Pavia e con Jack Tworkov (che gli lasciò poi il suo studio fra quella via e la 4th Avenue, davanti a quelli di Franz Kline e di Willem de Kooning). Il candore nel modo di porsi e la scarsa competitività del suo carattere gli conquistarono la stima di Barnett Newman, Robert Motherwell e Ad Reinhardt. Approdò presto a un nuovo linguaggio: è del 1956 una serigrafia 'bianco su bianco'; dell’anno dopo è Fire Dance (Fondazione Prada, Milano), il primo dipinto tutto 'bianco', dalle dense stesure fortemente materiche. Nel 1958 ebbe luogo l’importante personale alla Leo Castelli di New York, la più prestigiosa galleria della seconda metà del Novecento (dove aveva esposto già nel 1957).
Anche negli USA, Savelli si dedicò all’insegnamento; alla New School for social research di New York (1959-65); fra il 1960 e il 1969 alla University of Pennsylvania di Philadelphia: qui furono gli architetti Romaldo Giurgola e Louis I. Kahn a consigliare lui e Dorazio per impostare un nuovo corso di laurea, la Graduate School of fine arts, tra i più noti e apprezzati di quel decennio.
Continuò a esporre in Italia; nel 1961 ottenne un premio Lissone, e l’anno dopo realizzò le prime opere in cui utilizzò corde – un elemento spaziale e simbolico che rinviava al lavoro dei pescatori – sia in dipinti sia in litografie a rilievo bianco su bianco. Una cartella di tredici litografie (presentata da Giulio Carlo Argan, e con una poesia dell’artista: «Io vedo con occhi bianchi / io penso con bianca mente / io agisco con bianche mani in un bianco corpo / io cammino in un bianco mondo / io respiro in un bianco cielo / io sono in alto su una bianca montagna / e sto guardando giù profondamente») venne edita nel 1962 dalla Galleria milanese Grattacielo; nel 1963 fu pubblicato il volume Dieci poeti americani (Romero, Roma), con sue litografie in rilievo. Nel 1964 Savelli fu invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia, e vinse il Gran premio per la grafica. Lo stesso anno iniziò una scultura che Kahn (Newman, secondo James Harithas, 1969) gli suggerì di intitolare Dante’s Inferno; la espose poi nel 1969 alle Peale Galleries di Philadelphia.
A metà degli anni Sessanta, Savelli aveva una consapevole poetica, dove la scelta del bianco esprimeva una matura visione artistica, dispiegata in ogni tecnica come totalizzante realtà di pensiero, materia, spazio ed energia. Non è un caso che i titoli delle sue opere – a lungo considerate dalla critica dipinti ambientati o sculture monumentali, mentre si trattava di installazioni che articolavano lo spazio – si riferissero alla cultura italiana o alla mitologia classica; o che nel nuovo studio di New York, al 186 di Bowery St., l’artista abbia realizzato nel 1965 Paradise I, una vera e propria cella di meditazione. Da allora, ogni sua attività – interventi scritti, insegnamento, opere – sviluppò l’idea di arte cui era approdato. Nel 1966 insegnò alla Columbia University di New York. Nel 1969 espose Paradise II (1967) alla Corcoran Gallery of art di Washington, nella mostra Savelli – Inner Space, curata da Harithas.
Nel decennio successivo, elaborò nuove soluzioni formali, e ‘riconobbe’ le fonti della sua poetica in certe fasi della storia dell’arte; nei titoli di alcune opere, egli indicò i precedenti cui si ispirava. Nella poesia Love letter to the figure point, scritta a New York nel 1970, disse della sua attenzione al punto di fuga rinascimentale, e concluse: «sentii che io stesso ero diventato spazio…»; da un punto, privo di dimensione, ma essenziale come punto di vista, si andava a un altro, di estrema distanza nello spazio, all’infinito. Citò più volte la frase di Leon Battista Alberti «Nulla piace di più agli dei che il bianco»; cominciò a realizzare tele prive di telaio – in cui erano ‘ritagliate’ figure geometriche che parevano librarsi nello spazio – fissate direttamente sulle pareti. Tale percorso culminò, nel 1984, nell’opera Malevich?! “...Yes …I am alive!!!”, quando Savelli rese omaggio al suprematista russo.
Fondamentale la personale all’Everson Museum of arts di Syracuse (N.Y.) nel 1972, presentata da Harithas, dove era esposta l’installazione Illumine one; in catalogo, la poesia Silence and light di Kahn sull’universo figurativo ideato da Savelli; l’anno dopo, al Lincoln Center di Syracuse fu inaugurata l’installazione Empedocles (1973).
Altre personali si tennero alla Stout University Art Gallery, Wisconsin (Menomonie, 1973), e al Tweed Museum di Duluth, University of Minnesota (1974). Vennero inaugurate installazioni come Forum (1970-74), Tree with 84 tree trunks (1978) e l’importante Aglaophon (1981), nell’Audubon Art Center di New Haven, che citava il pittore greco dell’antichità. Intanto Savelli continuò a insegnare: alla Cornell University di Ithaca (N.Y., 1974), come visiting artist alla Pennsylvania State University (1975-76) e come visiting professor alla University of Texas, Arlington (dal 1977).
Nel 1980 gli fu assegnata la Guggenheim Fellowship, che gli consentì di stare in Italia realizzando mostre sia qui sia in Europa. Tappa imprescindibile nella sua storia critica fu la pubblicazione, a cura di Giuseppe Appella, del catalogo ragionato Angelo Savelli. Opera grafica 1935-1981, con le 113 incisioni realizzate sino ad allora.
Proprio mentre l’artista raccoglieva meritati riconoscimenti per il suo lavoro di ormai mezzo secolo, la drammatica scomparsa della moglie nel 1982 lo gettò in un’acuta crisi esistenziale. Sentì quindi il bisogno di tornare in Calabria, circondato dall’affetto dei familiari; e ricevette, per meriti artistici, la medaglia d’oro del Comune di Pizzo Calabro (una seconda l’ebbe nel 1986). Fra quanti gli furono più vicini, lo scrittore, critico e poeta Luigi Ballerini, da tempo naturalizzato americano, l’editore Vanni Scheiwiller, l’artista Motherwell (sua la lettera con l’annuncio, nel 1983, del premio dell’American Academy of arts and letters di New York); e poi Luigi Sansone, che conobbe e seguì Savelli a partire dall’antologica del 1984, presentata da Ned Rifkin, al Padiglione d’arte contemporanea di Milano: una delle maggiori sue personali, che peraltro dimostrò quanto in Italia tanti critici si fossero ormai dimenticati di lui.
Da allora, però, varie iniziative riproposero la sua figura d’artista di respiro internazionale: nel 1986 il libro Selvaggina, con sue litografie a rilievo e poesie di Ballerini (Scheiwiller editore); e l’ampia mostra alla Pinacoteca comunale di Arona, curata da Guido Ballo e Sansone. Nel 1987 Savelli realizzò l’installazione Inficosmo per il Museo di Gibellina, un’opera che esaltava la sua concezione di spazio infinito; nella sua prima personale torinese espose l’inedita Glory of a Broken Wing, to Elizabeth Fischer, opera (16 metri e mezzo) del 1984 in ricordo dell’amatissima moglie.
Nel 1988 tornò a vivere a New York; trasferì lo studio, l’ultimo, al 257 di Water Street, nel vecchio Sea Port, al Pier 17, in un edificio di mattoni rossi, il secondo più antico della metropoli. Quell’anno la RAI Corporation di New York produsse un documentario sulla sua vita, diretto da Ballerini; e ci fu la vasta personale con white on white paintings, presentata da Howard DaLee Spencer, al Wichita Art Museum, Kansas. Fra le maggiori personali del 1990, una all’Allentown Art Museum in Pennsylvania, presentata da Sarah Anne McNear, e Angelo Savelli. L’Etereo, alla Casa del Mantegna di Mantova, presentata da Flaminio Gualdoni.
Nel 1991 venne fondato il Centro di arte contemporanea Angelo Savelli a Lamezia Terme; e a Parma, alla galleria Niccoli, ci fu l’importante personale presentata da Piergiorgio Dragone, che l’anno dopo fu portata in Giappone, alla Kodama Gallery di Osaka.
Nel 1994 Savelli ebbe grandi soddisfazioni: due personali in Germania, a Magonza e a Viersen; Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, che nel 1993 erano stati per la prima volta nel suo studio di New York, vi tornarono e gli proposero di non limitarsi a essere suoi collezionisti, ma di contribuire, attraverso la loro Fondazione, a promuoverne la notorietà. Soprattutto, il 30 novembre, Gian Luigi Rondi, presidente della Biennale di Venezia, invitò Savelli a partecipare, con una sala personale, alla XLVI Biennale, dall’11 giugno al 15 ottobre 1995. La Fondazione Prada sostenne la sua personale al Museo Pecci di Prato, curata da Antonella Soldaini, e aperta dal 17 giugno al 4 settembre 1995, quasi in contemporanea alla Biennale.
L’anziano 'maestro zen' seguì la preparazione delle due mostre che ne consacravano il lavoro; ma non le vide: ricoverato il 17 aprile all’ospedale S. Orsola di Brescia per un malore, risulta morto il 28 aprile nel Comune di Dello (Brescia).
Fra tanti giudizi, il più sintetico e denso resta quello di Lorenza Trucchi (Un vero Angelo, in Il Giornale, 10 marzo 1991): «Ha cercato un alfabeto di puri segni che si muovono dinamicamente nello spazio e nella luce per leggi non solo formali ma magiche e persino mistiche. Savelli non è un minimalista. Non riduce. La sua geometria non è arida. È piuttosto, come voleva Malevič, “la geometria del sentimento”» (p. 5).
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