SBARDELLOTTO, Angelo Pellegrino
– Nacque a Mel (Belluno) il 1° agosto 1907 dal mugnaio Luigi (1876-1949) e da Giovanna Dall’Omo (1880-1970).
Quintogenito di dieci figli, fu stalliere al famoso albergo Cappello fino a 17 anni, quando – preceduto da un fratello – emigrò in Francia dove, dopo qualche mese, lo raggiunse anche il padre. Stabilitosi poi a Seraing (Belgio) lavorò come minatore e svolse un’intensa propaganda anarchica, partecipando anche alla campagna a favore di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Venne segnalato per la prima volta nell’aprile del 1929 dalla Divisione Polizia politica che, in via confidenziale, aveva appreso della sua attività di propagandista anarchico, «sembra istruito ed intelligente ed è abbonato a numerosi giornali e riviste anarchiche» (ACS, Polizia Politica, b. 88/A).
Attivata la macchina repressiva il prefetto di Belluno trasmise due sue foto, informando che quando nel 1928 la madre – non avendo sue notizie – gli aveva fatto scrivere dalla sua maestra per chiedergli di rientrare in Italia, aveva risposto che sarebbe rientrato solo alla scomparsa del fascismo. Venuta a conoscenza delle idee sovversive del figlio, distrusse la lettera. Un altro confidente – il romano Andrea Vari – lo definì «uno dei principali anarchici». Il 29 maggio 1932 il prefetto di Belluno comunicò che si trovava all’estero. Invece, da ottobre viaggiò tra l’Italia, la Francia e il Belgio e attraversò per ben quattro volte la frontiera senza che nessuno lo riconoscesse. Prima di partire scrisse: Benito Mussolini «deve rispondere delle lacrime delle madri, dell’abbandono dei figli, del sangue dei caduti, dell’agonia dei reclusi, del silenzio e della miseria di tutti» e ancora: «Io non chiedo agli uomini gratitudine o ricompense d’onori pel sacrificio che sto per compiere. Chiedo solo che quanti avranno compreso il significato del mio atto, ne seguano l’esempio. Viva la Rivoluzione! Viva l’Anarchia!» (L’Adunata dei refrattari, 16 luglio 1932, p. 1).
A Roma, in piazza Venezia, il 4 giugno 1932, alle 14:45 due agenti fermarono casualmente un giovane dall’«aspetto preoccupato». Dal passaporto svizzero risultò essere Angelo Galvini, commerciante di Bellinzona. Sprovvisto del permesso di soggiorno riservato agli stranieri, lo invitarono a seguirli nell’androne di un palazzo. In una tasca trovarono una rivoltella automatica caricata con sette colpi e nell’altra una bomba. Proseguendo nella perquisizione trovarono un’altra bomba sagomata sulla pancia, 385 lire e altro. Interrogato sulle bombe e la rivoltella «ha esplicitamente dichiarato di volere con esse attentare alla vita di S.E. il Capo del Governo». Dichiarato in arresto fu accompagnato in questura, dove – sottoposto a duro e stringente interrogatorio – confessò che avrebbe voluto commettere un attentato alla vita di Mussolini, senza riuscirci perché la macchina del duce, che al Gianicolo partecipava all’inaugurazione del monumento e alla traslazione delle ceneri di Anita Garibaldi, aveva seguito un percorso diverso. Dichiarò di essere stato a Roma il 28 ottobre 1931, nono anniversario della marcia su Roma, portando le bombe e di non essere riuscito a realizzare l’attentato. Era tornato altre due volte ed era in Italia dal 31 maggio. Nel corso dell’interrogatorio svelò che il suo nome era Angelo Sbardellotto di Mel (ACS, Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, anno 1932, f. 3680: Procedimento penale contro Sbardellotto Angelo).
Alle 18:20 un telegramma al prefetto di Belluno ordinava di perquisire immediatamente la casa dei genitori e di accompagnarli con urgenza in prefettura. Il prefetto alle 2:45 telegrafò di aver disposto l’arresto dei genitori e del fratello sedicenne Olivo, ignari di tutto. Nella perquisizione, furono sequestrate tre lettere nelle quali Sbardellotto spiegava ai familiari – in maniera lineare, discorsiva e senza errori – le sue idee: «La maggioranza ha la forza ma non la ragione. L’uomo virtuoso non comanda, non obbedisce» (ACS, Ministero dell’Interno, Categoria H2, Complotti e attentati, anno 1932, f. 267: Sbardellotto Angelo).
Il 6 giugno, nell’ufficio politico della questura di Roma, fu costretto a scrivere a matita una confessione, sgrammaticata e per nulla lineare. I giornali sottolinearono che fu l’attentatore a scegliere la matita, senza però precisare quale particolare interesse poteva avere un candidato al patibolo a insistere per usare la matita. Scritta a matita poteva essere tranquillamente cancellata, aggiustata, manipolata.
Indicò come suoi complici alcuni antifascisti che vivevano all’estero e che tornava utile al fascismo accusare. Nell’interrogatorio affermò – o gli fecero affermare – che, quando a Bruxelles il calzolaio anarchico Vittorio Cantarelli (1882-1957) gli aveva dato delle cartoline raffiguranti Michele Schirru, fucilato l’anno prima per aver avuto ‘l’intenzione’ di uccidere il duce, si era detto disponibile a ritentare, purché gli dessero i mezzi. Cantarelli lo aveva messo in contatto con Nemo, ovvero Emidio Recchioni (1864-1934), un anarchico italiano che a Londra gestiva un negozio di generi alimentari e frutta e aveva fatto una discreta fortuna. L’altro complice era il giornalista Alberto Tarchiani (1885-1964) del Corriere della sera, che viveva in esilio a Parigi. Era un trio di tutto rispetto, costruito ad arte dalla polizia fascista per un complotto organizzato nientemeno che in tre capitali europee.
Tarchiani, appresa la notizia del proprio coinvolgimento nell’imputazione, spedì un telegramma a Guido Cristini, presidente del tribunale speciale per la difesa dello Stato: «Sbardellotto non può aver indicato mia fotografia o nome che per imposizione vostri aguzzini sotto azione torture consuete vostre istruttorie» e dimostrò che nei giorni indicati non si trovava a Parigi ma in Germania (Proteste, smentite e rettifiche. Un telegramma di A. Tarchiani, in La Libertà, Parigi, 16 giugno 1932, p. 2).
Recchioni denunziò per calunnia e diffamazione il corrispondente romano del quotidiano londinese Daily Telegraph. Il 5 luglio 1933 il quotidiano fu condannato a risarcirlo con 1750 sterline, che Recchioni mise a disposizione dell’attività antifascista (Strascichi dell’affare Sbardellotto. Un processo a Londra contro il «Dail Telegraph» e il fascismo. Il giornale inglese condannato a pagare 350.000 franchi, in La Libertà, 13 luglio 1933, p. 3).
Cantarelli dimostrò, con dichiarazioni delle autorità postali belghe, di non aver mai ricevuto gli inesistenti telegrammi di Sbardellotto. Sull’affidabilità degli informatori valga che quando, il 20 giugno 1932, quello contrassegnato con il numero 173 accusò Cantarelli di aver ricevuto lettere di Sbardellotto suggerendo al capo della polizia fascista di interrogarlo, Arturo Bocchini, o chi per esso, con la matita rossa, scrisse stizzito sul foglio dell’informatore: «Ella è pregata di fare ella stessa l’interrogatorio all’inferno!» (ACS, Polizia Politica, b. 88/A). Alla caduta del fascismo né Tarchiani né Cantarelli rivendicarono mai un ruolo nell’attentato di Sbardellotto, quando l’attribuirsi qualche merito li avrebbe potuti favorire.
Conclusa l’istruttoria, Sbardellotto, accusato di aver attentato alla vita del duce, venne deferito al tribunale speciale per la difesa dello Stato. I giornali fascisti chiesero di giudicarlo senza pietà, perché «la vita del duce è sacra» (Corriere della sera, 11 giugno 1932, p. 2).
Presidente del tribunale Guido Cristini, il processo iniziò il 16 giugno 1932, alle ore 9, nell’affollatissima Aula IV. Difese l’imputato l’avvocato Michele Fusco, nominato d’ufficio, anche se gli anarchici in esilio pensavano – come risulta da una lettera intercettata dalla polizia – di affidarne la difesa all’avvocato ed ex deputato socialista Mario Trozzi, che però era appena morto.
Il processo terminò alle ore 11. Alle 11:10 Cristini lesse la sentenza: l’imputato risultò colpevole secondo l’art. 280 del codice penale e fu condannato alla pena di morte mediante fucilazione. La severità della condanna dipese dal manifestato proposito di uccidere e non dai reati effettivamente compiuti, come la detenzione di armi o la falsificazione dei documenti.
La sentenza doveva essere affissa in tutti i comuni del Regno d’Italia (ACS, Tribunale speciale per la difesa dello Stato, Procedimento penale contro Sbardellotto Angelo, b. 384, f. 3680; ibid., Registri delle sentenze, A. 1932, n. 51). Il difensore presentò subito una domanda di commutazione della pena capitale al re adducendo, tra i motivi, anche la giovane età (25 anni) del condannato. Un gruppo di fascisti bresciani telegrafò di voler far parte del plotone d’esecuzione. La stampa fascista non pubblicò nessuna foto dell’attentatore: una rarissima foto del processo fu pubblicata dal quotidiano spagnolo Ahora (La condena a muerte de Sbardellotto por el tribunal fascista, in Ahora, Madrid, 22 giugno 1932, p. 17). A conferma che il suo era il progetto di un attentato individuale e non di un atto terroristico, Sbardellotto confessò al secondino che gli fu accanto nelle ultime ore di vita di aver avuto la possibilità di colpire il dittatore, ma di aver rinunciato perché c’era il rischio di coinvolgere degli innocenti (Come morivano gli antifascisti. Lo sprezzante coraggio di Sbardellotto. Poteva aver salva la vita ma rifiutò di firmare la domanda di grazia, in Il Momento, 17 ottobre 1946, p. 1).
Il comandante del carcere Regina Coeli disse a Giuseppe Mariani: «Non ho mai conosciuto un uomo migliore» (Umanità Nova, 13 giugno 1954, p. 1). Finanche Mussolini, dopo averlo fatto assassinare, nel marzo del 1938, in un impeto di falsa e tardiva umanità, dirà a Yvon De Begnac: «Ma Sbardellotto che rispose all’invito del magistrato a firmare la domanda di grazia dichiarando di rimpiangere solo di non avere eseguito l’attentato [...] sono uomini veramente degni di un destino migliore di quello che la sorte ha loro riservato» (Y. De Begnac, Palazzo Venezia, Roma 1950, pp. 376 s.).
Fu fucilato a Forte Bravetta all’alba del 17 giugno 1932, sottoposto – in un certo senso – a una doppia pena. Pochi minuti prima di essere ucciso, Sbardellotto fu costretto ad assistere alla barbara fucilazione dell’antifascista genovese Domenico Bovone, condannato alla pena capitale per aver fabbricato delle bombe. Nel fonogramma dell’esecuzione il questore Cocchia riferì che scacciò il prete, mantenne «contegno sprezzante, cinico e ributtante» e suscitò «profondo senso di disgusto nei presenti» (ACS, Casellario Politico Centrale, b. 4639: Fonogramma interno-ore 7).
I due cadaveri vennero seppelliti in luogo segreto e tutt’ora sconosciuto; per questo nel paese natale, nell’ottobre del 2005, è stata eretta una stele, a rappresentare un ideale cenotafio.
All’indomani dell’esecuzione furono innumerevoli le espressioni di solidarietà umana e politica che la polizia politica fascista registrò a favore dell’anarchico di Mel, come quella del bracciante padovano Albano Masiero, che in un’osteria profetizzò: «A Sbardellotto faremo un monumento!» (ACS, Tribunale speciale per la difesa dello Stato, anno 1932, b. 386, f. 483-3732).
Infine non è da escludere che la barbara esecuzione sia stata un altro duro colpo per Errico Malatesta – il vecchio anarchico ottantenne che, prigioniero del fascismo, viveva a Roma – e ne abbia potuto accelerare la morte, avvenuta il 22 luglio 1932 (Malatesta è morto!, in Studi sociali, 25 luglio 1932, p. 1).
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio Centrale dello Stato (ACS), Casellario politico centrale, b. 4639, f. 30486, A. S.; Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, anno 1932, f. 3680, Procedimento penale contro S. A.; Categoria H2, Complotti e attentati, anno 1932, f. 267: S. A.; Registro delle sentenze, anno 1932, n. 51.
G. Galzerano, A. S. Vita, processo e morte dell’emigrante anarchico fucilato per l’«intenzione» di uccidere Mussolini, Casalvelino Scalo 2003.