MOTTA, Angelo
– Nacque a Villa Fornaci, frazione di Gessate, alle porte di Milano, l’8 settembre 1890 da Alessandro, cocchiere, e Rosa Motta, lavandaia.
Iniziò a lavorare giovanissimo in un panificio di Treviglio per trasferirsi, all’inizio del nuovo secolo, a Milano. Qui completò l’apprendistato, concluso, alla vigilia della Grande Guerra, con la promozione a capopasticciere. Al ritorno dal fronte decise di mettere a frutto la propria esperienza professionale e di avviare un’attività imprenditoriale che, rispondendo alle esigenze di un mercato locale in timida ripresa, consentisse anche di far fronte alla difficile congiuntura. Grazie a un capitale d’avvio formato dal premio di smobilitazione di 700 lire e dagli scarsi risparmi materni, poté acquistare gli utensili necessari e affittare i locali nella centrale via Chiusa (o via della Chiusa). Nel 1919 nacque così la ditta artigiana individuale «Angelo Motta».
Il laboratorio di Motta esemplifica bene la tipologia del comparto alimentare fra età giolittiana e primo dopoguerra, quando la frammentazione e il localismo dei consumi rendevano problematico il superamento di strutture di dimensioni ridotte. La tecnologia rudimentale, l’assenza di qualsiasi pianificazione produttiva e di mercato, il basso livello d’investimento, la marcata stagionalità, la commistione tra attività commerciale di vendita al pubblico e fabbricazione erano caratteri comuni a tutte le produzioni alimentari non di prima necessità (birra, liquori, dolciumi e caramelle).
Motta iniziò presto a confezionare il dolce tipico milanese, il panettone, tradizionalmente mangiato nelle festività natalizie. Prodotto da forno sufficientemente economico da poter essere consumato anche nella difficile congiuntura del primo dopoguerra, veniva preparato un po’ in tutte le pasticcerie di un certo livello partendo da una ricetta base relativamente semplice e introducendo a volte alcune varianti. Motta riuscì a ottenere un panettone che, grazie all’impiego del lievito di birra, risultava soffice e leggero. Data la ciclicità nei consumi, concentrati nel periodo natalizio, a tale fornitura si affiancò a quella di molti altri prodotti da forno e di pasticceria fresca la cui vendita si distribuiva lungo tutto l’anno.
Nonostante alcuni sporadici tentativi di ingrandimento dimensionale e di produzione per medi volumi, come ad esempio nel comparto cioccolatiero, la frammentazione produttiva perdurò per tutti gli anni Venti. Nel 1927 secondo quando riportato nella Guida ai piccoli industriali di Milano curata dalla locale Camera di Commercio, vi erano in città – limitatamente al settore dolciario e dei prodotti da forno – 14 fabbriche «minori» di biscotti (con 110 addetti), 13 di cioccolato (con 126), 18 di caramelle (con 132); i produttori di pasticceria, dolciumi, prodotti da forno erano ben 76, con oltre 300 addetti. Molti dei nomi menzionati nella Guida sparirono nell’anonimato, si trasferirono o abbandonarono l’attività; altri restarono uguali a se stessi non mutando vocazione di mercato e facendo delle loro piccole imprese realtà specializzate durevoli. Altri ancora si trasformarono nel giro di pochi anni in realtà di tutt’altra portata. Di lì a qualche tempo, né per la «F.lli Alemagna» di via Bramante 28 né, soprattutto, per la «Motta Angelo» si sarebbe più potuto parlare di «piccoli esercizi artigianali» condotti in prevalenza col lavoro del titolare e di qualche componente della famiglia.
Proprio in coincidenza con il Censimento dei piccoli industriali e con la fase di crescita precedente la crisi dei primi anni Trenta, Motta compì un passo ulteriore. Nel 1927, gli acquisti di macchinari e attrezzature adeguate a sostenere un incremento dei volumi di produzione furono potenziati da uno sforzo nel sistema distributivo (l’apertura nel 1929 di un punto vendita in piazza Lima) e da una serie di iniziative pubblicitarie con le quali il pasticciere tentò di distinguere la propria produzione da quella di altri artigiani cittadini, firmandola con l’iniziale del suo cognome, una «M» che richiamava la stessa città di Milano. Il passo verso la vera e propria dimensione industriale avvenne di lì a poco. Il 21 ottobre 1930 si costituì a Milano la «Dolciaria milanese» con un capitale sociale di 1,5 milioni, un primo stabilimento in viale Corsica 21 e Motta consigliere delegato, azionista di maggioranza, ma anche responsabile della produzione della quale si occupava fin nel dettaglio giungendo a curare personalmente le modifiche ai macchinari utilizzati.
La Dolciaria – consigliere della quale fu nominato Guido Sacchi, un industriale di ambito conserviero molto legato alla comunità finanziaria milanese – fu la prima, vera esperienza industriale di un Motta pienamente inserito nei circuiti economici del capoluogo e capace di intensificare la sua presenza con nuovi negozi-pasticceria, tutti riforniti dal nuovo stabilimento di viale Corsica. Nel 1931, anno nel quale sposò Eleonora Dacquino, furono inaugurati nuovi punti vendita nel centro della città, seguiti nel 1932 da altri al Carrobbio e in piazzale Baracca, e poco dopo dall’entrata in funzione del primo forno continuo. Nel 1934 fu inaugurato il negozio in galleria Carlo Alberto (ora galleria Unione), l’anno dopo quello di porta Vittoria. A questi ne seguirono vari altri di tutte le dimensioni, in locali in parte affittati, in parte di proprietà dell’azienda. I negozi furono subito inseriti in un circuito di attenta valorizzazione commerciale, per certi versi anticipatore della leva pubblicitaria, potenziato, a partire dai primi anni Trenta, dalla collaborazione con il designer Dino Villani. Il programma espansivo non mancò tuttavia di incidere sul bilancio societario. Gli ampliamenti di viale Corsica e l’apertura dei nuovi punti vendita avvennero in prevalenza attraverso il ricorso all’indebitamento, in una fase congiunturale non particolarmente favorevole.
A metà degli anni Trenta la Dolciaria milanese si imponeva oramai nel settore, tanto da meritare di essere inclusa, a fine ottobre 1936, fra le tappe della visita ufficiale del Duce a Milano, accolto da «maestranze festanti» e da un Motta nel frattempo divenuto commendatore. Proprio il 1936 segnò un ulteriore punto di svolta nella vita dell’imprenditore. L’espansione della società lo spinse infatti a compiere scelte coraggiose, anche sul piano personale. L’assemblea della Dolciaria del 15 giugno 1937 approvò l’assorbimento di una neocostituita «Motta panettoni», di cui assunse anche la denominazione sociale. Il capitale sociale fu portato da 1,5 a 25 milioni. Il nuovo consiglio d’amministrazione, presieduto da Motta, vedeva già in posizione centrale la figura di un manager, Alberto Ferrante, bocconiano, fidato consigliere del pasticciere sin dai primi anni alla Dolciaria milanese. Spersonalizzare l’azienda, affidandone la guida a un soggetto esterno, si rivelò scelta obbligata e coerente con i programmi di espansione aziendale.
A fine anni Trenta, l’azienda impiegava circa 2000 unità compresi gli stagionali, contava su una rete non trascurabile di terzisti e aveva avviato un’ambiziosa operazione di razionalizzazione e specializzazione degli stabilimenti; obiettivi difficilmente perseguibili senza una riorganizzazione complessiva di competenze e responsabilità. Motta assunse la gestione degli aspetti produttivi, lasciando a Ferrante la gestione amministrativa e a Villani la cura dell’immagine. I contemporanei non mancarono di riconoscere a Motta la visione innovativa e la capacità di trasformare radicalmente le logiche del comparto dolciario muovendosi verso una riduzione dei margini unitari di guadagno più che compensata da un incremento nei volumi complessivi di vendita. Strategia, questa, che consentì all’azienda di mantenersi seppur moderatamente in utile – rafforzando la propria penetrazione di mercato anche nella difficile congiuntura dell’anteguerra – e non a caso perseguita sino alla vigilia della guerra, con un ampliamento di volumi e stabilimenti, con una specializzazione delle linee produttive e con l’apertura di nuovi punti vendita (tra 1938 e 1940 fu la volta di piazza San Babila e di Monza). Alla politica di espansione si affiancò, durante la guerra, una spinta verso l’integrazione verticale a monte (gli approvvigionamenti di materie prime) e a valle (l’apparato distributivo) che finì con l’allargare lo scopo sociale della Motta oltre i confini del settore dolciario, una scelta simboleggiata dalla trasformazione della ragione sociale in «Motta - Società per l’Industria dolciaria e alimentare». Entrarono così a far parte della società la tenuta agricola La Fiorita di Medole, presso Mantova, che forniva frutta e in particolare uva, la SPICA (conserve alimentari), la Società anonima Macello e Frigo di Lissone (acquisita e fusa con la Motta stessa) che permetteva di internalizzare, al contempo, la funzione di conservazione delle materie prime e del magazzino, e la GEA, una consociata di natura commerciale cui era affidata la gestione dei negozi di vendita diretta.
Né la guerra, né il crollo istituzionale del Paese fermarono, sorprendentemente, l’espansione territoriale dell’azienda: tra 1943 e 1944 furono aperti altri punti vendita in vari capoluoghi lombardi. E alla fine della guerra la Motta – oramai seconda impresa italiana di produzioni dolciarie dietro alla Venchi-Unica e davanti a Perugina, Caffarel e Ambrosoli – chiuse l’esercizio con un utile di più del 5% su un fatturato di 56 milioni.
Angelo Motta aveva oltrepassato il punto di non ritorno nella direzione di un’industrializzazione delle produzioni dolciarie, con una volontà innovatrice che arrivava ad auspicare – recitano le relazioni di bilancio – il superamento di una concezione del dolce quale alimento voluttuario e superfluo, riaffermandone, invece, i valori nutrizionali in una dieta equilibrata.
Dichiarazioni un po’ stridenti nell’Italia delle tessere annonarie e delle ristrettezze del dopoguerra, ma sempre accompagnate da un’ininterrotta politica espansiva, attuata ricorrendo alle possibilità offerte dai finanziamenti esterni, tra cui quelli dell’IMI e dell’Eximbank. I finanziamenti di quest’ultima, in particolare, furono destinati all’acquisto di macchinari statunitensi e a consentire una politica di costante ricapitalizzazione posta in essere, parte con aumenti gratuiti, parte a pagamento, in contemporanea a un’emissione obbligazionaria di mezzo miliardo, rimborsabile in vent’anni a partire dal 1951. Della rilevanza quantitativa, sia assoluta sia relativa, raggiunta dell’azienda nel dopoguerra non era possibile dubitare: con i suoi circa 3000 addetti la Motta impiegava quasi il 10% di tutta la mano d’opera del settore dolciario nazionale; il suo fatturato, che annualmente cresceva nell’ordine del 20-30%, nel 1948 oramai oltrepassava il miliardo, mentre le esportazioni rappresentavano il 25% del totale di quelle dell’intero comparto.
Il mercato interno riservava all’impresa milanese ancora ampi spazi di manovra, essendo i consumi procapite inferiori rispetto all’anteguerra, e considerevolmente più bassi di quelli di altri paesi avanzati. Si trattava di un potenziale notevole, che fu sfruttato con successo, sia grazie alle basi gettate nel passato, sia a qualche nuova fortunata intuizione. Fu questo il caso della diversificazione, tramite macchinari acquistati direttamente negli Stati Uniti, nella produzione di gelati confezionati: il Mottarello, il gelato fiordilatte da passeggio, consumato su di un bastoncino alla maniera ‘americana’, divenne uno dei simboli del ‘miracolo economico’.
Se la produzione di gelati era, per definizione, anticiclica rispetto ad altre, non fu tuttavia priva di impatto sulle strutture produttive e organizzative dell’azienda. Nel 1950, anno del lancio ufficiale del prodotto, i rivenditori di gelati Motta erano 2000, sparsi un po’ ovunque in Italia. Il sistema di distribuzione era basato su centri di raccolta (le «celle», magazzini frigoriferi di una certa dimensione di proprietà dell’azienda, dapprincipio una trentina, quasi 50 nel 1951) che costituivano la tappa intermedia tra la Motta e i dettaglianti.
La produzione di gelati confezionati prese a crescere vertiginosamente, con ritmi annui dell’80-90% e dalle sue linee di produzione, nel 1954, arrivarono a uscire 750.000 pezzi al giorno. Su queste basi la Motta si trovò ad affrontare il miracolo economico, forte di una non trascurabile esperienza nelle produzioni alimentari di massa. Le linee produttive principali erano rappresentate dai prodotti da forno, panettone in testa – da tempo affiancato dalle colombe e, sempre in funzione di attenuazione della stagionalità produttiva, da una merendina destinata a enorme fortuna, il Buondì –, dai gelati confezionati e dalle caramelle, una linea, quest’ultima, che ricevette una spinta consistente dalla decisione di produrre su licenza statunitense il tipo Life Savers. Oltre a ciò la Motta, che aveva sino a quel momento rinunciato a impegnarsi nella produzione di cracker e biscotti, sull’onda di un considerevole aumento nel consumo dei prodotti da forno, decise di avviare la produzione su licenza dei prodotti della statunitense National Biscuit Company.
L’accordo con la Nabisco, perfezionato nel corso del 1954, prevedeva per la Motta l’esclu-siva di produzione e vendita per l’Europa e i paesi del Mediterraneo dei cracker e degli altri prodotti da forno, e si inquadrava nella consolidata strategia aziendale di aumento delle linee produttive e di saturazione della capacità attuata attraverso produzioni su licenza.
Per la Motta, l’accordo significò anche l’accesso privilegiato a macchinari e tecnologia d’avanguardia; i reparti per la produzione di cracker furono infatti attrezzati in gran parte con macchine di fabbricazione americana, e i tecnici della Nabisco effettuarono un lungo periodo di formazione per il personale. Né la società milanese trascurò altre direttrici di espansione, ora su base geografica: i suoi prodotti, esportati in oltre 50 paesi incidevano per 1/4-1/5 del totale delle esportazioni del comparto nel corso del decennio 1950. Alla fine del 1954 fu inaugurato un nuovo stabilimento per la produzione di gelati realizzato a Napoli dalla controllata «Motta Sud». L’anno successivo, il primo investimento diretto all’estero: la Motta Perù, fondata nel 1955 con sede a Lima, avrebbe dovuto fungere da unità produttiva e distributiva dei prodotti in Sudamerica.
Alla vigilia della morte del suo fondatore, l’azienda milanese, tra consociate, partecipate e controllate era un gruppo industriale di tutto rispetto. La produzione era aumentata di oltre sette volte rispetto al 1937, e di quasi cinque volte dal dopoguerra, arrivando a comprendere una decina di linee produttive (dai panettoni ai cracker, dal gelato al torrone, dai marron glacé ai confetti, e così via), ciascuna composta da più varietà, e costituiva circa il 10% dell’intero fatturato del comparto, pari – a fine anni Cinquanta – a circa 185 miliardi. Per alcuni prodotti (panettoni, colombe, gelato industriale), la quota di mercato nazionale detenuta era particolarmente elevata, tra 25 e 35%. I rivenditori – a loro volta riforniti da oltre 200 concessionari – erano circa 67.000, sparsi in tutta Italia (con prevalenza settentrionale), realizzavano i 4/5 delle vendite e vantavano una trentina di negozi di proprietà e gestione diretta dell’azienda, anche di considerevoli dimensioni, come quello di piazza Duomo (con oltre 140 addetti). Per i suoi circa 3600 dipendenti l’azienda stessa organizzava corsi di formazione e di qualificazione professionale al fine di elevare lo standard medio del capitale umano impiegato. Da sola, contribuiva per oltre il 7% al totale delle spese pubblicitarie effettuate in Italia.
Morì d’infarto il 26 dicembre 1957 nella sua abitazione di fronte allo stabilimento milanese, in viale Corsica, lasciando ad Alberto Ferrante la guida dell’azienda.
Fonti e Bibl.: la voce è largamente basata su A. Colli, La Motta: da bottega artigiana a impresa di Stato, in Annali di storia dell’impresa, XI (2000), pp. 571-629. Sulla situazione del comparto dolciario al momento dell’avvio dell’attività si veda: F. Chiapparino, Tra polverizzazione e concentrazione. L’industria alimentare dall’Unità al periodo fra le due guerre, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di A. Capatti - A. De Bernardi - A. Varni, Torino 1998, pp. 206-268, in particolare pp. 207 s.; Id., L’industria del cioccolato in Italia, Germania e Svizzera. Consumi, mercati e imprese tra ’800 e prima guerra mondiale, Bologna 1997, con alcuni accenni al comparto dolciario, così come in Id., Il tentativo di concentrazione dell’industria dolciaria italiana negli anni Venti: Guadino e l’Unica (1924-1934), in Annali di storia dell’impresa, V-VI (1989-90), pp. 323-374. Informazioni sporadiche sulla Motta e sui finanziamenti da questa ottenuti dall’IMI nel corso degli anni Trenta sono in G. Lombardo, L’Istituto mobiliare italiano. Modello istituzionale ed indirizzi operativi: 1931-1936, Bologna 1998, tab. 1, app. statistica, p. 425 e Storia dell’industria lombarda, a cura di S. Zaninelli, Milano - Cremona 1992, tab. XXIV, p. 239. Sulla situazione del settore dolciario alla fine della seconda guerra mondiale: Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea costituente, II - Industria, I - Relazione, I, Roma 1947, pp. 161 ss. Più in generale sulla storia e le dinamiche di sviluppo del comparto si veda L. Sicca - M.V. Colucci, L’industria dolciaria in Italia. Origini ed evoluzione, Milano 1996. Infor-mazioni accurate cominciano a essere reperibili negli anni Trenta sull’annuario dell’Associazione italiana fra le società anonime, Le principali società per azioni in Italia, Roma (vari anni). Sulle strategie pubblicitarie della Motta, e più in generale dell’industria lombarda negli anni fra le due guerre, si veda G.L. Falabrino, Le aziende lombarde e la pubblicità radiofonica, in Storia della comunicazione dell’industria lombarda, 1881-1945, a cura di D. Cimorelli - G. Ginex, Milano 1997, pp. 151-155 (ma ricco d’informazioni è l’intero volume). Dagli anni Trenta in avanti la fonte principale, molto dettagliata nella parte di relazione, è rappresentata dai bilanci della società, che offrono anche una panoramica dell’andamento del settore a livello nazionale. Di una certa utilità sono alcune riviste di settore (Il Dolce e Dolce Alimento; cfr. A. M. cavaliere del lavoro, in Dolce Alimento, novembre 1938, pp. 307 s.) e più generaliste: per esempio, nel 1935 e nel 1936 L’Illustrazione italiana dedicò spazio alla Motta con due articoli (A.M.Z., Il Ghiottone Errante. Storia di una fetta di panettone, 15 dicembre 1935, pp. 1140 s. e Una grande industria dolciaria presentata al Duce, 8 novembre 1936, p. 831). Si veda inoltre il necrologio È morto Angelo Motta, in Corriere della Sera, 27 dicembre 1957.