MASSAROTTI, Angelo (Angelo Innocente). – Figlio di Bartolomeo e di Angela, nacque il 3 giugno 1654 a Cremona, dove fu battezzato il giorno dopo nella parrocchia di S. Paolo (Bonometti, p. 84)
Intorno al 1667 il padre lo avviò allo studio della pittura presso Agostino Bonisoli, che aveva aperto un’accademia del nudo alla corte del marchese di Bozzolo. Qui, secondo la testimonianza di Zaist (p. 105), studiò circa tre anni ricevendo le basi del mestiere. Tra il 1673 e il 1674 soggiornò a Faenza, terra pontificia dove il governatore Gianfrancesco Rota, nobile e dotto prelato di origine cremonese, si era fatto carico di sostenere economicamente il giovane pittore. Rota, riconosciute le qualità del M., decise di indirizzarlo a Roma, presso la prestigiosa Accademia di S. Luca. Fu così che nel giugno del 1674 il M. raggiunse la capitale pontificia; nemmeno un anno dopo, nel maggio del 1675, il suo nome risulta fra gli iscritti dell’Accademia (Barchielli, A. M.…, p. 70). Trascorsi pochi mesi sotto l’insegnamento di Carlo Ciagni, il M. passò alla scuola del pittore reatino Carlo Cesi, un seguace di Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona (Cipriani - Valeriani).
Gli anni di studio che seguirono furono fondamentali per la maturazione del linguaggio artistico del M., che convertì le nozioni apprese a Cremona, dove il manierismo locale aveva ricevuto una sferzata di novità caravaggesca grazie alle opere del Genovesino (Luigi Miradori), in un linguaggio più aggiornato nella duplice direzione classicista e barocca della scuola pittorica romana: egli affinò la pratica del disegno e lo studio degli antichi maestri, copiando soprattutto le opere di Raffello e della sua scuola; nello stesso tempo si interessò alle composizioni più dinamiche e teatrali di Pietro da Cortona e di Giovan Battista Gaulli.
Nella cerchia di Cesi il M. ebbe l’opportunità di frequentare un vivace cenacolo artistico e letterario, dove conobbe Giuseppe Ghezzi, artista piceno, perito d’arte, oratore e scrittore, che vantava preziosi agganci con gli accademici e i Virtuosi al Pantheon. Il buon rapporto tra i due è testimoniato dal ritratto di Ghezzi che fece il M. nel 1680 (Ajaccio, Musée Fesch). Fu probabilmente lo stesso Ghezzi a presentare il M. a Carlo Maratti, che, nel 1679, quando Cesi abbandonò Roma per tornare a Rieti, accolse il M. nella sua cerchia. In ogni caso la stima e la protezione di questi personaggi, tutti poi eletti principi dell’Accademia di S. Luca, permisero al M. di farsi conoscere negli ambienti curiali, dove si fece apprezzare per il suo modo di dipingere con maestria grandi storie piene di figure e di colorire ritratti «in grande ed in picciolo» (Zaist, p. 108).
Il M. ottenne il primo incarico importante da monsignor Francesco Maria Febei, commendatario di S. Spirito, che nel 1680 lo pagò per due opere eseguite nella chiesa di S. Anastasia in Roma.
Questi lavori sono stati identificati in due tele, un tempo nella cappella di S. Gerolamo e ora in deposito presso la Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico di Roma, raffiguranti il Ritrovamento dell’arca con le spoglie di s. Anastasia e la Sepoltura della santa, quest’ultima in realtà opera di Fabrizio Chiari e solo ritoccata in alcune parti dal M. (Barchielli, A. M.…, pp. 71-73). Sono ancora prove acerbe; ma nel Ritrovamento il M. manifesta un’assimilazione avveduta e scaltra dei principî del classicismo alla moda: distribuisce con misura i personaggi in primo piano; lascia sullo sfondo un paesaggio scuro con l’orizzonte alto; nei volti e nei gesti non manca di evocare le figure dei Carracci, di Guido Reni e di Domenichino (Domenico Zampieri).
Negli stessi anni, tra il 1679 e il 1680, su ordine del medico piceno Giovanni Tiracorda, eseguì la decorazione della cappella di famiglia dedicata a S. Lutgarda in S. Salvatore in Lauro.
La committenza fu suggerita da Ghezzi, curatore dell’ornamentazione delle cappelle della chiesa (ibid., p. 74). Le tele dipinte dal M. illustrano episodi tratti dalla Vita di s. Lutgarda di Tommaso da Cantipratano: S. Lutgarda in estasi scambia il suo cuore con quello di Cristo nella pala d’altare (firmata e datata 1679) e nelle due tele laterali S. Lutgarda sfugge ai soldati e l’Apparizione della Madonna a s. Lutgarda. Il M., a cui spetta anche il disegno per gli stucchi e per l’altare, mette in mostra in queste tele tutta la completezza della sua eclettica formazione: composizioni ardite, strutturate su diagonali cortonesche, arricchite da citazioni di Reni, Paolo Caliari detto il Veronese e Raffaello, si riempiono di personaggi dai visi tondi, gli incarnati morbidi, carracceschi, mentre i colori intensi e gli effetti di luce calda sembrano memori del periodo romano di Giovanni Lanfranco. Per seguire l’andamento dei lavori Tiracorda aveva incaricato come supervisore Giovanni Maria Lancisi, anch’egli medico e quasi coetaneo del Massarotti. Suo convinto estimatore, Lancisi gli ordinò due tele per arricchire la propria collezione: l’Ercole al bivio e l’Allegoria della Fortuna, conservate nel palazzo del Commendatore dell’ospedale di S. Spirito in Sassia (Barchielli, Due tele…, pp. 228-233). In entrambe, ma soprattutto nella prima, è evidente il confronto con le interpretazioni del tema di primo Seicento, come quella che Annibale Carracci aveva eseguito per il cardinale Odoardo Farnese.
L’impresa della cappella Tiracorda, che suscitò unanime consenso, spronò il M. a chiedere l’ammissione all’Accademia di S. Luca. Per l’occasione realizzò, come prevedeva il regolamento della scuola, una Madonna col Bambino, riconosciuta in quella che si trova nella collezione dell’Accademia stessa. La commissione esaminatrice valutò positivamente il lavoro e ammise il M. fin dal 1680. Subito dopo, nel gennaio del 1681, il M. divenne membro dell’altra grande istituzione artistica romana, l’Accademia dei Virtuosi al Pantheon (Id., A. M., pp. 74 s.).
In questi mesi al successo dei titoli accademici si accompagnarono varie committenze, tra cui la decorazione dell’oratorio di S. Maria Annunziata, un’istituzione legata all’ospedale di S. Spirito in Sassia.
Patrocinatore di quest’opera fu Vincenzo Guerrieri da Ripatransone, membro della confraternita e cassiere del banco di S. Spirito. Il M. dipinse cinque tele, tuttora conservate in loco: l’Annunciazione, la Nascita di Maria, l’Adorazione dei pastori, il Compianto su Cristo morto e la Morte di Maria. Se l’impostazione generale rimane coerente alla tradizione classicista, queste tele sono più scure, con pochi personaggi, più scarne e più drammatiche di quelle di S. Salvatore in Lauro. Solo la prima, tuttavia, fu realizzata a Roma.
Infatti, nel corso del 1681, probabilmente dopo il mese di luglio, il M. decise di tornare a Cremona (ibid., p. 75).
Non si conoscono le ragioni esatte di questa decisione, che di certo lo avrebbe costretto a ritirarsi in un circuito limitato e provinciale, proprio quando le prime affermazioni nell’ambiente accademico romano sembravano schiudergli le porte per una carriera più prestigiosa. D’altro canto può essere valsa la considerazione che nella sua città natale egli avrebbe trovato un mercato più libero e avrebbe potuto avviarsi senza rischi all’affermazione professionale.
Poco dopo, nel 1682, il M. si trasferì a Parma dove soggiornò per circa nove mesi. Qui si mise a studiare le opere del Correggio (A. Allegri), che integrarono il bagaglio culturale della sua formazione, e la cui influenza si coglie in alcune figure delle tele per l’oratorio, fatte quando già aveva lasciato Roma.
Nell’autunno del 1682 è documentata la sua presenza a Busseto, dove dipinse per il nuovo palazzo del Monte di pietà due lunette ad affresco raffiguranti Gesù deposto dalla croce e il Martirio di s. Bartolomeo (oggi staccate e riportate su tela, si conservano a Parma nel Museo Fondazione Cariparma: ibid., p. 78). Del soggiorno emiliano rimane testimonianza anche nella pala con la Trinità adorata da s. Paolo della parrocchiale di Trecasali. In data imprecisata, ma forse subito dopo il soggiorno emiliano, il M. avrebbe lavorato a Milano, eseguendo opere di soggetto storico e religioso per il senatore Filippo Archinto e per il marchese Giorgio Clerici, presidente del Senato milanese (Tassini, 1990, p. 248).
Rientrato in Cremona, il M. divenne ben presto con Francesco Boccaccino – con il quale aveva condiviso la giovanile esperienza capitolina e la fascinazione classicista – il pittore più affermato sulla piazza.
Licenziò infatti una grande quantità di opere a fresco e a olio, ma anche ornati, chiaroscuri, portine di tabernacoli a testimonianza di un’attività alacre ed eclettica. Lavorò spesso per esponenti della nobiltà locale e per gli ordini religiosi; d’altronde la sua maniera a un tempo equilibrata e teatrale si prestava a illustrare le nuove forme di pietà e devozione scaturite dalla Controriforma lombarda. Allo stato attuale delle conoscenze documentarie, però, è molto difficile stabilire un’esatta scansione cronologica delle numerosissime opere lasciate dal M. in quasi quarant’anni di attività.
Negli anni Ottanta, forse intorno al 1686, dipinse su commissione di Felice de Pardo, che fu governatore spagnolo di Cremona tra il 1675 e il 1688, la tela raffigurante l’Immacolata con s. Nicola da Tolentino, due santi monaci e le figlie del committente, per la chiesa di S. Ilario.
Si tratta di un’opera ben strutturata, in cui l’impostazione marattesca si vivacizza nel recupero del naturalismo del Genovesino, visibile nei volti di s. Nicola, che è quello di Felice de Pardo, della santa monaca, che è quello di Margherita Schinchinelli, moglie del governatore, e dei bambini in primo piano. Se ne conserva un grazioso bozzetto nel Museo civico Ala Ponzone di Cremona (Puerari, pp. 211 s.).
Del 1689 è la tela firmata in S. Agostino con S. Tommaso di Villanova che distribuisce l’elemosina ai poveri. Non troppo lontano da questa data deve collocarsi l’altra grande tela che si trova nella stessa chiesa, in controfacciata sopra la porta d’ingresso, con S. Agostino che consegna la regola.
Il dipinto, ritenuto da Lanzi il capolavoro del M., raffigura al centro Agostino seduto su un trono barocco, circondato da un’accolita di prelati, esponenti di ordini religiosi e personaggi d’alto rango, che si dispongono in vari atteggiamenti e con splendidi abiti contemporanei all’interno di un porticato sormontato da un architrave curvilineo, che vuol essere un omaggio al genio di G.L. Bernini. Sempre agli anni Ottanta si può datare la tela del convento cappuccino dei Ss. Apostoli con il Re David che ha la visione della fuga della Sacra Famiglia in Egitto. Più tarda è invece la tela con la Buona Morte della pieve di Soncino, proveniente dal locale oratorio della Compagnia della Buona Morte, che già all’inizio del Seicento era divenuto la sede della Compagnia della Dottrina cristiana (Tassini, 1990, p. 90).
Probabilmente dell’ultimo decennio del Seicento è la tela di S. Imerio a Cremona, con S. Teresa d’Avila che prega la Vergine Maria perché Cremona sia liberata dall’assedio del 1648, sul cui sfondo, in basso, il M. ha raffigurato la città, allora dominio asburgico, circondata dalle truppe franco-piemontesi guidate dal duca di Modena Francesco I d’Este. Nel 1702 dipinse per i gerolamini la tela con il Crocifisso e la Maddalena in S. Sigismondo, chiesa suburbana di Cremona.
È possibile che nello stesso periodo il M. eseguisse anche la decorazione della cappella dedicata a S. Ignazio di Loyola, sempre in S. Sigismondo. Queste opere presentano tonalità chiare, neocorreggesche, e figure dalle pose patetiche, che si adeguano alla moda elegante e piacevole del barocchetto lombardo.
Non lontano dal 1702 dovrebbe essere il grande affresco che si trova nella volta dell’ex chiesa di S. Benedetto a Cremona con l’Apoteosi del santo.
La complessa composizione, in cui si mantengono i toni limpidi e vivaci già adottati in S. Sigismondo, si snoda all’interno di una trama quadraturista di stampo bolognese, in cui il M. sembra divertirsi ad alternare forme concave e convesse, ricalcando quanto avevano già fatto in ambito locale Giulio Trolli, maestro di Ferdinando Galli Bibiena, e Francesco Villa, rispettivamente nelle chiese di S. Sigismondo e S. Domenico. All’inizio del Settecento devono datarsi anche le grandi tele dipinte dal M. per la chiesa dei Ss. Marcellino e Pietro: nelle cappelle laterali la Vergine con il Bambino tra i ss. Luigi Gonzaga, Francesco Borgia e Stanislao e il Cristo portacroce appare a s. Ignazio; ai lati del presbiterio il Trasporto delle spoglie dei ss. Marcellino e Pietro e I ss. Marcellino e Pietro proteggono le milizie cremonesi nella battaglia delle Bodesine. Quest’ultima, in particolare, è un’opera di grande respiro, dominata dai cavalli bianchi dei santi che, sullo sfondo di un paesaggio alpino su cui incombono nubi minacciose, cavalcano quasi volando sopra le truppe in fuga: rievocazione allegra e fiabesca della vittoria con cui i Cremonesi nel lontano 1213 erano riusciti a strappare a Milano il carroccio e a rivendicare la propria indipendenza. La maggiore delicatezza espressiva, il colore brillante delle vesti e delle architetture, la gestualità efficace, gli artifici luministici hanno fatto pensare a un influsso del fiammingo Robert De Longe, che all’inizio del Settecento era attivo tra Cremona, Parma e Piacenza (Bandera, La seconda metà…, 1990, p. 64). A questa fase appartengono anche i quattro Evangelisti nei pennacchi della cupola di S. Gerolamo e la Pietà della parrocchiale di Castelverde, presso Cremona.
Nel 1709 il M. risulta essere priore della Confraternita della chiesa dei Ss. Egidio e Omobono a Cremona, dove decorò, forse proprio intorno a quella data, la cappella dei Ss. apostoli Pietro e Paolo, patronato di Giulio Cesare Visconti, con una pala d’altare raffigurante il Commiato di Cristo dalla madre e altri ornamenti (Bonometti, pp. 83, 150). Nel 1715 dipinse per i teatini di S. Antonio Abate nove tele con episodi della Vita e dei miracoli di s. Andrea Avellino, ora conservate nella sagrestia di S. Abbondio a Cremona (Bandera, in S. Abbondio…, 1990).
Sono tele dal sapore languido, con gesti affettati e melodrammatici, le espressioni che tendono al patetico; il colorito, già tenero e lustro, si fa ora più oleoso e le luci chiare, alla Reni, sono illividite da ombre vistose. Questa trasformazione dell’ultima maniera del M. è forse imputabile alla sempre maggiore presenza degli aiuti e degli allievi, tra i quali è doveroso ricordare Giovan Angelo Borroni e Sigismondo Benini. Per gli stessi teatini il M. aveva realizzato, in data imprecisata, una serie di affreschi con La vita e i miracoli di s. Gaetano da Thiene in una cappella della chiesa di S. Vincenzo a Piacenza. Del M. è anche la tela sull’altare della cappella, che raffigura il fondatore dell’Ordine teatino (Mendogni).
L’ultima opera del M. dovrebbe essere il S. Agostino che medita sul mistero della Trinità, conservata nel presbiterio di S. Agostino a Cremona.
La grande tela, rimasta incompiuta, ricorda nei toni incupiti e gravi la versione, più sottilmente malinconica, che Lanfranco aveva lasciato nella chiesa romana di S. Agostino.
Il M. morì a Cremona nel 1723 e, secondo le sue ultime volontà, venne sepolto nella chiesa del monastero francescano del Corpus Domini (Bonometti, p. 84).
Non è certo se il M. si sia mai sposato, ma ebbe un figlio, il cui nome rimane ignoto, che secondo Zaist (pp. 106, 112) fu «non curante e trasandato» e alla morte del padre ne disperse la raccolta dei disegni.
Fonti e Bibl.: Cremona, Biblioteca statale, Fondo civico, AA.2.43 (XVIII secolo): D. Arisi, Galleria di pittori, scultori ed architetti cremonesi, cc. 34-40; F. Titi, Ammaestramento di pitture, sculture e architetture, Roma 1686, p. 379; G.B. Zaist, Notizie istoriche de’ pittori, scultori, ed architetti cremonesi, II, Cremona 1774, pp. 105-113; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia, II, Bassano 1796, pp. 381 s.; A. Puerari, La Pinacoteca di Cremona, Cremona 1951, pp. 211-213; F. Voltini, L’abbazia di S. Sigismondo, Cremona 1952, p. 11; A. Cipriani - E. Valeriani, I disegni di figura nell’Arch. stor. dell’Accademia di S. Luca, Roma 1988, p. 189; L. Bandera, La pittura a Cremona nel Seicento, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989, I, pp. 134 s.; II, p. 808; Id., La seconda metà del Seicento e il Settecento, in Pittura a Cremona dal romanico al Settecento, a cura di M. Gregori, Milano 1990, pp. 64, 209 s., 297 s.; Id., in S. Abbondio in Cremona, a cura di L. Bandera - A. Foglia - L. Romai, Piacenza 1990, pp. 72, 74; S. Tassini, A. M. La Buona morte, in Soncino. Catalogo dei dipinti mobili, a cura di G. Maina - M. Marubbi, Soresina 1990, pp. 90 s., 247 s. (con bibl. precedente); P.P. Mendogni, La cultura figurativa dei teatini a Parma e a Piacenza, in La pittura in Emilia e in Romagna. Il Seicento, II, Milano 1994, pp. 112 s.; S. Tassini, in Museo civico Ala Ponzone. La pinacoteca. Origini e collezioni, a cura di V. Guazzoni, Cremona 1997, p. 106; M.A. Donzelli - U. Bocchi, in I dipinti della chiesa di S. Stefano in Casalmaggiore, Casalmaggiore 1998, pp. 36 s., 148; P. Bonometti, in Omobono: la figura del santo nell’iconografia, secoli XIII-XIX (catal., Cremona), Cinisello Balsamo 1999, pp. 81-84, 150; C. Barchielli, A. M. a Roma, 1674-1681, in Arte lombarda, n.s., CXL (2004), 1, pp. 70-78; Id., Due tele dipinte a Roma da A. M. per Giovanni Maria Lancisi, in Boll. stor. cremonese, n.s., XI (2004), pp. 225-235; M. Morandi, in La Pinacoteca Ala Ponzone. Il Seicento, a cura di M. Marubbi, Cremona 2007, pp. 210 s.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, p. 218.