MARINI, Angelo
MARINI (de Marinis), Angelo (Giovan Angelo). – Non si conosce la data di nascita di questo scultore originario della Sicilia, figlio del palermitano Antonino, che nel gennaio 1551 abitava a Milano in Porta Romana, nella parrocchia di S. Nazaro in Brolio (Sacchi, p. 575) e nel novembre 1559 in Porta Ticinese (Morscheck).
Spesso chiamato «il Siciliano» nelle fonti, egli stesso aggiunge l’appellativo «sicvlvs» alla firma incisa su alcune statue. Ricordato da Lomazzo tra i maggiori scultori del Ducato milanese, il M. è generalmente menzionato nella storiografia artistica in relazione alle statue della certosa di Pavia e del duomo milanese.
Secondo Ciceri (1587) era arrivato a Milano al seguito di Ferrante Gonzaga, viceré di Sicilia dal novembre 1535, che nell’aprile 1546 era stato nominato governatore di Milano, dove giunse il 19 giugno.
Degli anni della formazione non si sa nulla di certo: Gallo dava per scontato l’alunnato presso la scuola siciliana dei Gaggini, evidente nelle prime opere pavesi, e giovanili viaggi d’istruzione a Firenze e a Roma, circostanze che non trovano riscontro nei documenti.
È probabile che in Sicilia il M. fosse stato, almeno per qualche tempo, al servizio del Gonzaga che, nel quinto decennio, aveva affidato all’architetto Domenico Giunti l’incarico di dare una nuova veste alle residenze vicereali (C.M. Brown - G. Delmarcel, Tapestries for the courts of Federico II, Ercole and Ferrante Gonzaga 1522-1563, Seattle-London 1996, pp. 54-60; M. Zaggia, Tra Mantova e la Sicilia nel ’500, I, Firenze 2003, pp. 167-175).
Dal 1547 Gonzaga affidava a Giunti la direzione dei cantieri milanesi, ma nulla si sa circa l’eventuale partecipazione del M. alle imprese promosse in questi anni dal governatore (Baroni, 1968, pp. 481-499).
La più antica notizia documentaria risale al 3 genn. 1551, data del contratto per l’esecuzione del Monumento ad Andrea Alciati commissionato dal cardinale Francesco Alciati, oggi conservato nei chiostri dell’Università di Pavia (Sacchi).
Secondo gli accordi, il M. si impegnava a realizzare l’effigie di Alciati sotto la direzione di Giulio Oggiono il quale, a sua volta, lavorava seguendo il disegno di Cristoforo Lombardo. Nel monumento, dove l’Alciati è ritratto in piedi e non sdraiato come indicava il progetto del Lombardo, dovrebbero spettare al M. anche i rilievi del Parnaso, ispirato al modello raffaellesco della prima stanza vaticana.
Come testimoniano in modo inequivocabile le Memorie della certosa di Pavia, dal 1552 il M. lavorava alle statue della facciata della certosa di Pavia al cui completamento, in questi anni, soprintendeva Cristoforo Lombardo: se la rilevante commissione è da mettere in relazione ai rapporti creatisi con quest’ultimo in occasione della commissione del Monumento Alciati, è anche probabile che sia stata caldeggiata da Ferrante Gonzaga.
La consistenza dell’intervento del M. si ricava, oltre che dalle firme e dalle date apposte dallo scultore su alcune statue (Battaglia, 1992, p. 161 n. 258), dalle notizie riportate dalle Memorie Braidensi e da un rogito del 27 nov. 1559 nel quale il M. è saldato per le opere scolpite tra l’agosto 1554 e il luglio 1559 (Baroni, 1943, p. 181 n. 8; Morscheck).
Tra le dodici statue elencate nel saldo non compaiono sei statue delle diciotto elencate nelle Memorie, cioè la Maddalena (firmata), il S. Raffaele (firmata), la S. Elena (firmata), il S. Michele (firmata), l’Adamo e la Eva (firmate e datate 1554), che probabilmente erano state consegnate e pagate prima dell’agosto 1554. Tra il 1554 e il 1559, dunque, il M. scolpiva le altre dodici figure, cioè S. Gregorio, S. Ambrogio, S. Agostino, Abramo, Giobbe (firmata e datata 1555), S. Martino, S. Brunone, S. Bartolomeo (firmata e datata 1556), S. Andrea (firmata e datata 1558), S. Tommaso, Costantino imperatore e la Vergine con il Figlio. Le fonti concordano inoltre nel registrare altre tre statue, S. Luca, S. Maurizio e S. Filippo, lasciate incompiute da altri maestri, il Tamagnino secondo Bossaglia (pp. 65-67), terminate dal M. entro lo stesso termine del 1559. L’unica statua non individuata è il S. Gregorio, forse sostituita con una secentesca dello stesso soggetto. Nel 1566 tredici statuette del M. furono poste in opera nel tabernacolo dell’altare maggiore. Tra i bronzi ancora in sito, fatti da vari artisti e in tempi diversi (Zanuso, 2006), quelli del M. sembrano da identificare con le tredici figure dallo stile unitario, arcaicizzante e a tratti neoquattrocentesco, che raffigurano S. Pietro, S. Paolo, S. Rocco e S. Giovanni Evangelista, collocati in linea con i timpani, e con le otto statue, più piccole delle precedenti e in alcuni case abbigliate con toghe all’antica, collocate nelle nicchie del tamburo e prive di attributi che permettano di individuarne il soggetto. La tredicesima figura si trova in una nicchia posteriore del primo ordine.
Il 18 giugno 1556 il M. compariva per la prima volta nei documenti del duomo milanese (Annali…) quando i procuratori della Fabbrica, riferendosi a una decisione presa precedentemente, ordinavano di stipulare un accordo, non meglio specificato, con il M. che probabilmente, già a queste date, mentre lavorava alle statue delle certosa, aveva ricevuto qualche commissione.
L’assunzione alla Fabbrica con stipendio mensile di 50 lire imperiali a patto che lo scultore «non possa servire alcun altro» veniva stipulata il 5 febbr. 1560, una data non a caso di pochi mesi successiva al saldo del 27 nov. 1559 con il quale si concludeva, temporaneamente, il suo rapporto coi certosini. Del 26 sett. 1560 è la commissione della statua di Pio IV, finita nel 1564 (Monti) che veniva collocata il 23 marzo 1568 (Marcora) nella sesta campata del deambulatorio, con l’aggiunta del piedistallo scolpito da Francesco Brambilla. Mentre il Pio IV era ancora in lavorazione, il 2 dic. 1563 gli veniva dato l’incarico di scolpire due statue raffiguranti Eva e S. Tecla.
In questa occasione la Fabbrica si lamentava dello stipendio troppo alto concesso allo scultore e proponeva di stipulare un contratto solo per le due statue citate, provvedimento che si concretizzava il 14 dic. 1564, quando il M. veniva ufficialmente escluso dalla lista degli scultori stipendiati. Il collaudo di una statua raffigurante Eva, «noviter factam», avveniva il 2 luglio 1565 a opera di Bartolomeo Caimi, Leone Aretino e Vincenzo Seregni. Solo recentemente (Franco Fiorio - Valerio, p. 131 n. 27) la statua è stata definitivamente identificata con la Eva, attualmente al Museo del Duomo, che il M. aveva realizzato, come scriveva Monti, «per accompagnarla con quella de Adam sì ecelente della mano del Gobbo». Problematica è invece l’identificazione della S. Tecla, che secondo chi scrive è possibile sia da identificare con la bella statua di Santa con libro in mano oggi collocata sul pilone n. 70.
Il 4 luglio 1565 il M. stava lavorando al modello di uno dei rilievi destinati alla porta verso Compedo. Tra i sei rilievi realizzati in marmo per la porta, oggi murati nell’arco della cappella dell’Albero, quello che raffigura il Presepe è l’unico avvicinabile al suo stile (per esempio, gli angeli ricordano quelli ai lati della Maddalena del duomo), ma resta difficile stabilirne l’autografia: l’opera potrebbe essere stata realizzata da altri su suo modello.
Prima del 1566 il M. aveva sicuramente scolpito la Maddalena, oggi al Museo del Duomo, ammirata da Vasari, variante di quella firmata della certosa. Rispetto a quest’ultima, consegnata tra il 1552 e il 1554, quella del duomo sembrerebbe più tarda, forse realizzata tra il 1556 e il 1560, quando il M. non era ancora stato assunto dalla Fabbrica. In entrambi i casi, si tratta di un esplicito omaggio alla statua, di identico soggetto, scolpita nel 1524 da Antonello Gaggini per Monteleone Calabro. Ricorrente nella produzione del M. è la rivisitazione di riconosciuti capolavori del primo Cinquecento, peculiarità peraltro già adombrata da Vasari che aveva confrontato la Maddalena del M. allora sulla facciata del duomo milanese con la produzione di C. Solari e che ha condotto gli studi moderni a confondere le opere dei due artisti: la S. Elena, l’Adamo e il Giobbe che il M. scolpiva per la certosa sono infatti statue esemplate su quelle di analogo soggetto che Solari aveva scolpito per il duomo all’inizio del Cinquecento (Zanuso, 2000). La vocazione retrospettiva del M. è testimoniata anche dall’Abramo, che riflette una nota invenzione di Raffaello per uno dei basamenti delle logge vaticane, forse conosciuta attraverso riproduzioni a stampa.
Conclusi temporaneamente i lavori in duomo e in certosa, nel 1567 il M. lavorava alla decorazione, non meglio specificata e non più esistente, della cappella della Madonna del Parto nella chiesa di S. Maria presso S. Celso (Baroni, 1943, p. 182). Successivamente era a Bosco Marengo, impegnato nei lavori per il coro ligneo della chiesa di S. Croce realizzato a partire dal 1566 circa e finito nel 1571, sotto la direzione del toscano Giovanni Gargiolli (Spantigati - Jeni, 1985; Natale, 2002).
Un ruolo significativo nell’esecuzione degli intagli del coro gli è riconosciuto da padre Giovanni Della Valle, autore di un manoscritto sulla storia della chiesa (1783 circa). Sono state riferite al M. varie figure di santi delle spalliere, il rilievo centrale con S. Michele che sconfigge l’Eresia e le tre statue a tutto tondo del coronamento con il Salvatore tra S. Giovanni Evangelista e S. Giovanni Battista. Della Valle registra inoltre che il M. aveva realizzato anche quattro Profeti, un S. Domenico e un Crocifisso destinati alla grande ancona dell’altare maggiore progettata da Vasari (1567-69 circa). Tali statue sono andate disperse in seguito allo smembramento dell’altare avvenuto nel 1710, a esclusione del Crocifisso, oggi collocato sopra l’altare maggiore. Secondo la testimonianza di Della Valle, la macchina vasariana comprendeva anche i rilievi lignei con Entrata di Cristo a Gerusalemme (oggi in S. Maria della Corte a Castellazzo Bormida) e Visita di Gesù Cristo nell’orto (oggi nel transetto della chiesa di Bosco); Della Valle non menziona invece un altro rilievo simile con la Samaritana al pozzo (in relazione con il disegno di Michelangelo per Vittoria Colonna) che si trova anch’esso nel transetto della chiesa, e un quarto rilievo, disperso, ma segnalato all’inizio del secolo scorso nella casa Frascara presso l’abbazia di Sezzadio con provenienza da Serravalle. Tutte queste opere sono state riferite al M., a fianco del quale forse lavorava l’intagliatore Stefano Vil, come ipotizzato da Natale (2002, p. 84).
Nel 1576 il M. era di nuovo impegnato per il duomo milanese: l’8 maggio ricevette un acconto per un Angelo di marmo, non ancora finito il 15 giugno 1577: l’opera, non identificata, si vuole generalmente agganciare alla commissione degli angeli della cinta del coro scolpiti da vari artisti su disegno di Pellegrino Tibaldi e modello di Francesco Brambilla. Il 2 ott. 1583 Riccardo Taurino riceveva un pagamento per aver finito un rilievo ligneo destinato al coro della cattedrale lasciato incompiuto dal M.: forse si trattava della stessa formella con S. Ambrogio sotto il baldacchino per la quale il M. era pagato il 31 genn. 1584. Dopo questa data il suo nome scompare dai documenti milanesi.
Nel 1597-99 un «Angelo Marino» (detto anche «di Marino» o «da Marini») è citato a più riprese nei documenti relativi alla fabbrica dell’altare del Ss. Sacramento della chiesa romana S. Giovanni in Laterano (Corbo; Di Castro), ma l’ipotesi che si tratti dello stesso artista necessita di ulteriori verifiche. Il fatto che il tabernacolo lateranense del Ss. Sacramento sia opera di C. e P. Targone invita tuttavia a indagare sul possibile rapporto tra il M. e i Targone, forse incontrati nel nono decennio del secolo, quando si realizzava in Lombardia la loro opera più prestigiosa, il tabernacolo del duomo di Bergamo (ante 1588), prototipo di quello successivo del Laterano.
In merito all’attività nel campo del ritratto scolpito, sono stati presi in considerazione (Zanuso, 2002) alcuni busti milanesi del sesto decennio avvicinati all’ambito del M.: il busto di Giacomo Maria Stampa (Baltimora, Walters Art Gallery), il busto di Alessandro Grassi (Isola Madre, palazzo Borromeo) e il busto di Ludovico Vistarini (Lodi, Museo civico). Le fonti segnalano, peraltro, che il M. aveva ritratto le fattezze del priore Damiano Longoni nel S. Brunone sulla facciata della certosa pavese (Zanuso, 2006). Inoltre, Ciceri ricordava un gruppo di ritratti del M. nessuno dei quali è stato finora rintracciato: un busto di Ottaviano Ferrari in legno conservato presso Girolamo Capra, un altro busto in marmo dello stesso personaggio, preceduto dai modelli in argilla e gesso, conservato presso Bartolomeo Capra, un busto di Girolamo Ferrari conservato nella biblioteca di Alessandro Rovida. I personaggi menzionati erano tutti variamente in relazione con Ottaviano Ferrari (1518-86), uno degli intellettuali più in vista della Milano di metà Cinquecento, insegnante di morale aristotelica alle scuole Canobiane. Alla stessa cerchia di eruditi milanesi apparteneva anche il protofisico Ludovico Settala (1552-1633), amico e allievo del Ferrari, per il quale il M. aveva realizzato sculture in corallo, un’attività finora ignorata. La collezione di Ludovico avrebbe costituito il primo nucleo del Museo di Manfredo Settala, poi confluito nelle raccolte della Biblioteca Ambrosiana, dove a metà del secolo scorso (Galbiati) si poteva ancora vedere un ramo di corallo con Susanna e i vecchioni assegnato al M.; di altri due coralli del M. raffiguranti una mano, (probabilmente una mano a fico, come quella già in collezione Whitacker, cfr. Splendori…, p. 304) e una complicatissima composizione con Delfino e s. Teresa rimane solo l’ammirata descrizione fatta da P.M. Terzago nel catalogo del Museo settaliano del 1664 (Scarabelli).
Va infine segnalato che nelle raccolte dell’Ambrosiana si conservano due fogli con studi di Busti di satiri (F. 233 inf., n. 483 e n. 484) assegnati al M. da una scritta che sembrerebbe tuttavia recente.
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