RICCI, Angelo Maria
RICCI, Angelo Maria. – Nacque a Mopolino di Capitignano (L’Aquila) il 24 settembre 1776 da Serafino e da Giuseppa Pica, entrambi di nobili famiglie.
Un ramo del casato Ricci era presente anche a Rieti dall’inizio del XVII secolo. Il padre ricopriva l’incarico di regio tesoriere dei Borbone.
Per gli studi superiori, Angelo Maria si trasferì a Roma nel Collegio Nazareno degli scolopi. Suoi maestri furono padre Carlo Giuseppe Gismondi, per le materie scientifiche, e padre Francesco Antonio Fasce, per quelle letterarie. Prima ancora di concludere gli studi entrò a far parte dell’Arcadia con il nome di Filidemo Liciense. Già nel 1792 vedevano la luce a Napoli alcune sue poesie, raccolte nel volumetto Omaggio poetico, dedicato a Domenico di Gennaro, duca di Cantalupo. Quattro anni più tardi, sempre a Napoli, fu la volta del De gemmis, poemetto latino per il matrimonio di Francesco III di Borbone con Maria Clementina d’Austria. I fatti del 1798-99 si fecero sentire anche al Nazareno: Angelo Maria, come tutti i giovani nobili non romani, prese la via del ritorno in famiglia. Il cardinale Stefano Borgia lo riportò a Roma, dove fu insignito del cavalierato gerosolimitano; si accostò agli studi biblici riprendendo la volontà di conciliare la scienza con la religione e diede alla luce la Cosmogonia mosaica, fisicamente sviluppata e poeticamente esposta in sei meditazioni filosofico-poetiche (Roma 1802), in contrasto con le teorie materialistiche e sensistiche. A Napoli entrò in contatto con i nobili-poeti Tommaso Gargallo, marchese di Castel Lentini, e Carlantonio de Rosa, marchese di Villarosa. Manifestò un certo entusiasmo per la svolta napoleonica e re Giuseppe Bonaparte lo fece capodivisione della Real Segreteria. Da Gioacchino Murat ebbe la cattedra universitaria di eloquenza. Ricci manifestò in modo evidente la sua riconoscenza: nel 1809 pubblicò un canto in ottava rima intitolato La pace; in un’altra ode, La verità, pubblicata l’anno dopo, definì Murat «di Goffredo assai maggior nel senno», anteponendolo all’eroe della Gerusalemme liberata. La musa murattiana raggiunse il culmine con I fasti di Gioacchino Murat (1813); non a caso, ottenne l’incarico di istitutore dei principini Achille e Luciano e di lettore personale della regina.
Dopo il congresso di Vienna e il ritorno di Ferdinando di Borbone Ricci mutò rotta, da un lato, ponendo fine alla sua simpatia per le idee innovative e i nuovi progetti politici, dall’altro, manifestando apertamente una volontà di pace e tranquillità. Scrisse quindi un’ode per l’imperatore Francesco I: A sua Maestà C.R.A. Francesco I Imperatore d’Austria per lo stabilimento del nuovo Regno Lombardo Veneto (Venezia 1816). E pubblicò la composizione Il simulacro d’Augusto nel tempio dell’immortalità (Napoli 1816) per l’arrivo a Napoli dello stesso Francesco I d’Austria (II come imperatore del Sacro Impero). I Borbone confermarono a Ricci una serie di incarichi: fece parte della commissione dei teatri e venne nominato revisore dei testi teatrali.
Ricopriva indubbiamente un ruolo significativo all’interno dell’intellettualità napoletana, tanto da essere chiamato a collaborare con Gioachino Rossini per il libretto di una cantata. Il giovane musicista pesarese era stato convocato a Napoli dall’impresario Domenico Barbaja e il successo dell’opera Elisabetta, regina d’Inghilterra (1815), affidata a Rossini per celebrare l’onomastico del principe ereditario Francesco di Borbone, indusse Barbaja a trattenerlo a Napoli con nuovi incarichi. Per uno di questi fu scelto come librettista proprio Ricci. Si trattava di celebrare il genetliaco di Ferdinando I e ribadire tutta la forza della restaurazione napoletana. La cantata intitolata Pel faustissimo giorno natalizio di Sua Maestà il Re Ferdinando IV, nostro Augusto Sovrano (Napoli 1816) doveva fungere da prologo al ballo La virtù premiata del compositore viennese Robert Wenzel.
Le precarie condizioni di salute e una grave malattia del padre indussero Ricci a lasciare la città partenopea. Con la moglie Isabella Alfani, nobile nolana, e con quattro figli, nel dicembre del 1817 tornò a Mopolino. Il soggiorno non fu duraturo. Nel 1819 si trasferì definitivamente a Rieti nell’elegante palazzo neoclassico, realizzato alla fine del Settecento dal padre su progetto dell’architetto romano Giovanni Stern. Nello stesso 1819 vide la luce a Livorno, presso l’editore Glauco Masi, L’Italiade, poema epico in dodici canti, iniziato a Napoli dopo la caduta di Murat e il ritorno dei Borbone.
Le gesta di Carlo Magno contro Desiderio, ultimo re dei Longobardi, facevano da sfondo alla complessa trama dell’opera. Il tema era lo stesso dell’Adelchi manzoniano, ma con un’ottica ribaltata; per Ricci la caduta del Regno dei Longobardi rappresentava un soggetto di alta epopea e segnava l’alleanza tra trono e altare, il ritorno del dominio austriaco e la fondazione del Regno lombardo-veneto. I conservatori e l’ala austriacante dell’intellettualità del tempo si entusiasmarono. Di diverso avviso la Biblioteca italiana: Giuseppe Acerbi censurò il poema, definendolo «vergognoso per un italiano» (Rati, 2007, p. 15).
L’ambiente reatino, particolarmente sensibile alle istanze papaline, ispirò a Ricci la composizione del San Benedetto, poema in ottava rima, scritto forse anche su sollecitazione dello stesso papa Pio VII, che vide la luce nel 1824 a Pisa. L’anno seguente, sempre a Pisa, pubblicò la Georgica de’ fiori, dedicata a Maria Beatrice d’Este, arciduchessa d’Austria e duchessa di Massa e Carrara, che proprio in quegli anni si andava occupando nel suo territorio di floricoltura. Nell’estate del 1826 tornò per qualche mese a Napoli nella speranza di veder migliorare le non buone condizioni di salute della moglie. Fu ospite nella villa dei conti di Camaldoli. Nel 1827 venne stampato a Rieti L’orologio di Flora: ventiquattro odi anacreontiche nate dalla constatazione che dal maggio all’agosto alcuni fiori si aprivano e chiudevano in ore precise. Tre anni dopo pubblicò un’altra opera di versi nuziali – il poema Conchiglie (Roma 1830), in cui le nozze divine di Oceano e Teti erano augurio per le nozze umane di Maria Cristina, figlia di Maria Isabella regina delle Due Sicilie, con Ferdinando VII, sovrano di Spagna.
Il 27 settembre 1828 era morta la moglie Isabella. Bertel Thorvaldsen curò il monumento funebre collocato nella chiesa reatina di S. Giovenale dove riposavano le ceneri della donna. Il dolore di Ricci fu consegnato a una raccolta di Elegie, con due edizioni: l’una pisana del 1828 e l’altra romana di due anni dopo. Del 1832 fu la traduzione dell’Elegia biblica di Ruth, per le nozze di Ferdinando II di Borbone con Maria Cristina di Savoia. Nel 1837 Ricci pubblicò a Roma Gli sposi fedeli.
La linea classicista sembrava incrinarsi, l’elemento storico veniva infatti evidenziato anche dal sottotitolo di Storia italo-gotica-romantica, e i personaggi Teodorico, Amalasunta, Atalarico, Goti, Ariani, Cattolici si muovevano sullo scenario del VI secolo italiano. Dopo molteplici traversie, Nigilda e Childerico sarebbero riusciti a coronare il loro sogno. Il modello manzoniano era nell’aria e forse più: una peste, il ritiro di Nigilda in convento per evitare di essere sedotta da Crispo, erano indubbiamente elementi di contatto con I promessi sposi. Di certo, l’edizione ricciana ebbe successo: ben quattro edizioni si susseguirono in pochissimo tempo.
Nel 1840 Ricci fece ristampare a Roma tutte le sue poesie di argomento religioso sotto il titolo di Poesie sacre. Acciacchi personali e familiari resero difficoltosi gli ultimi anni della sua vita.
Morì a Rieti il 1° aprile 1850.
L’Arcadia convocò in suo onore un’adunanza il 10 dicembre 1852; per quella ricorrenza Giuseppe Gioachino Belli scrisse e recitò un sonetto commemorativo.
Fonti e Bibl.: La corrispondenza intercorsa fra Angelo Maria Ricci e l’amico Bertel Thorvald-sen dal 1820 al 1838 è conservata a Copenaghen, The Thorvaldsens Museum Archives, http://arkivet. thorvaldsensmuseum. dk/documents/ correspondence/ricci-angelo-maria (19 settembre 2016). A. Sacchetti Sassetti, La vita e le opere di A.M. R., Rieti 1898; G. Rati, A.M.R. e la polemica romantica, in Otto/Novecento, III (1979), 3-4, pp. 61-80 (riedito in Id., Saggi danteschi e altri studi, Roma 1988, pp. 159-181); G. Formichetti, Un classicista austriacante e papalino, in Ottocento nel Lazio, a cura di R. Lefevre, Roma 1982, pp. 239-251; Atti. Celebrazione del II centenario della nascita di A.M. R. (1776-1850), Rieti 1983; G. Formichetti, I testi e la scrittura. Studi di letteratura italiana, Roma 1990, pp. 275-282; M.F. Apolloni, Un poeta mecenate di se stesso: A.M. R. e gli affreschi di Pietro Paoletti in Palazzo Ricci a Rieti, in Ricerche di storia dell’arte, 1992, vol. 46, pp. 35-48; R. Messina, Iconografia di A.M. R. Architettura, scultura, pittura, grafica, Rieti 1996; Tre cantate napoletane. Musica di Gioachino Rossini, a cura di I. Narici - M. Beghelli - S. Castelvecchi, Pesaro 1999, pp. XXI-XXXI; G. Rati, La polemica intorno all’Italiade e altri saggi su A.M. R., Roma 2007; Arte e cultura nel Palazzo Ricci di Capitignano, a cura di G. Paris - F.S. Ranieri - A. De Angelis, Rieti 2011.