DOVIZI, Angelo
Nacque, probabilmente a Roma, sul finire del sec. XV, da Giovan Battista e da Ginevra Tani, ultimo di sette fratelli, Valeria, Caterina, Elisabetta, Antonio, Isabetta e Giovan Battista.
Il padre, che al momento della caduta del regime mediceo nel 1494 ricopriva la carica di capitano di Palazzo, venne bandito da Firenze e portò con sé la famiglia in esilio a Roma. Qui il D. crebbe affidato alle cure dello zio Bernardo, che si era trasferito a Roma alla corte papale. Non si hanno notizie sulla giovinezza e sulla formazione culturale del D., che tuttavia decise ben presto di abbracciare la vita religiosa. Dopo la nomina dello zio a cardinale da parte di papa Leone X, avvenuta nel 1513, si stabili con lui nel palazzo adiacente la sede papale, dove svolgeva le mansioni di segretario, curando la corrispondenza del cardinale (come appare da due lettere di raccomandazione scritte dal D. a nome dello zio a monsignor Giovanni Poppi a Firenze, rispettivamente il 12 e 24 giugno del 1515, e che risultano i primi documenti conosciuti a lui relativi), oppure assumendo le funzioni di maestro di casa durante le frequenti assenze del Bibbiena da Roma. Di questo periodo sappiamo anche, da una lettera scritta dal cardinale alla vedova del fratello Piero, Ludovica, in occasione della morte del figlio Francesco, che il D. si trovava nell'ottobre del 1516 a Roma, gravemente ammalato di febbre quartana. Successivamente il D. fu nominato dal papa protonotario apostolico e il 7 apr. 1518 venne inviato come governatore a Città di Castello, dove rimase per pochi mesi, durante i quali fu coadiuvato nel suo ufficio dal luogotenente Lodovico Lauri di Sant'Angelo in Vado.
Tornato a Roma, continuò il suo servizio di segretario dello zio, del quale curava anche gli interessi, pur se con scarso successo, come il D. stesso dichiarava in una lettera del 28 maggio 1519 scritta al cardinale durante la sua legazione in Francia, al quale confessava di spendere troppo e di non essere in grado di salvaguardare l'economia della casa. A questo periodo risale anche una lettera del D. ad Andrea di Paolo Camesecchi a Firenze, suo patrigno, in quanto aveva sposato in seconde nozze la madre Ginevra. Dalla lettera, datata 24 luglio 1520, risulta che tra il D. e il Carnesecchi esisteva una regolare corrispondenza dovuta a legami anche di carattere economico.
In seguito alla morte del cardinale Bernardo il 20 ott. 1520 il D., che insieme con il fratello Antonio era stato nominato nel testamento dello zio (conservato presso la Bibl. apost. Vaticana, Ferrajoli 424, cc. 277-281v, 282-284, e presso la Bibl. com. di Arezzo, Fraternità dei Laici 62, cc. 1-3v, 17r) erede universale, ricevette in beneficio l'abbazia di S.Giovanni in Venere, situata in Abruzzo. Si è pure ritenuto che egli fosse successo allo zio nel vescovado di Coutances in Francia, ma in realtà questa elezione fu bloccata dal re Francesco I; tuttavia al D. fu corrisposta una certa somma in vitalizio.
La necessità di amministrare la cospicua eredità lasciatagli dallo zio indusse il D. ad assumere al suo servizio il poeta Francesco Berni, che già in passato aveva goduto della protezione e dell'aiuto del cardinale Bernardo e dello stesso D., del quale divenne ora segretario. Tuttavia in seguito all'epidemia di peste scoppiata a Roma nel 1522, il D., temendo il contagio, si trasferì a Firenze, lasciando al Berni il compito di gestire l'eredità del cardinale, insieme con tutti gli oneri derivanti dalle liti che sussistevano per la divisione dei relativi benefici. In questo periodo tra il D. e il Berni intercorse una fitta corrispondenza, ma già l'anno successivo, 1523, avvenne tra i due una prima rottura, di cui il Berni incolpò il D. a causa della povertà in cui lo costringeva a vivere. In realtà la condotta scandalosa del poeta indusse il D. ad allontanarlo da Roma affidandogli un posto di sottovicario nella propria badia di S. Giovanni in Abruzzo. Ritornato a Roma nel settembre del 1524, il Berni cercò di riallacciare i contatti con il D., dedicandogli anche un carme latino in cui ne implorava il perdono e gli manifestava tutto il suo affetto e la sua amicizia. Tuttavia ciò non servì ad evitare la rottura completa, anche se non si conoscono i termmi esatti della questione: sappiamo soltanto che il Berni, alcuni anni dopo, indirizzò al D. alcuni versi con tono di disprezzo e di indifferenza.
Dopo il suo ritorno a Firenze, non abbiamo notizie del D. fino al 1544, anno in cui lo troviamo inserito nella Segreteria del duca Cosimo I de' Medici, come appare dal contesto di una lettera del 6 gennaio di quell'anno indirizzatagli da Bartolomeo da Bibbiena - suo lontano parente - che si trovava a Milano in qualità di ambasciatore fiorentino. Il ruolo del D. come segretario di Cosimo non fu di secondaria importanza, anche se egli non raggiunse la posizione e la fama di altri segretari medicei come Giovanni Conti, Lelio Torelli, Cristiano Pagni, Pier Francesco Ricci. Il servizio che svolse nella Segreteria granducale durò circa quindici anni e si può ricostruire a grandi linee attraverso la corrispondenza che egli curava personalmente per Cosimo. Da questo carteggio risulta, infatti, che il D. seguiva quasi sempre il duca nei suoi spostamenti, che lo portavano spesso a Pisa e a Livorno, oppure a Poggio a Caiano per dedicarsi allo svago della caccia. Sappiamo così che nel novembre del 1546, per sfuggire al contagio della peste a Firenze, il D. si recò con Cosimo a Cerreto, dove si fermò per un lungo periodo. Tornato a Firenze, si occupò della corrispondenza che Filippo Pandolfini - ambasciatore fiorentino presso la corte imperiale - gli inviava, insieme con dettagliati rapporti riguardanti la politica dell'imperatore Carlo V in Italia. Nei primi mesi del 1552 il D. si fermò a Livorno, dove ricevette numerose lettere da Francesco Ricci, Lelio Torelli e Cristiano Pagni, riguardanti la confederazione stipulata tra Cosimo de' Medici e il governo di Siena. Ai primi di marzo dello stesso 1552 Si trasferì a Pisa, e nei mesi seguenti alternò i soggiorni nelle due città, curando in particolare la corrispondenza con Donato Bardi, ambasciatore fiorentino a Venezia.
Nonostante l'intensa attività che svolgeva a fianco di Cosimo de' Medici, il D. non trascurava i rapporti con i propri familiari, in particolare con i fratelli Giovan Battista e Antonio e con il cugino Lattanzio, ai quali era molto legato, e che da Bibbiena gli scrivevano per chiedergli raccomandazioni o per inviargli doni, consistenti in prodotti della campagna.
Dei due anni successivi alla conquista fiorentina di Siena, durante i quali il D. rimase ancora a Firenze, abbiamo numerose lettere inviategli da Bartolomeo da Bibbiena, da Milano, e riguardanti sempre la politica imperiale. Circa a metà del 1558 il D., forse attuando una decisione che maturava da tempo, lasciò l'incarico presso la Segreteria medicea e si trasferì definitivamente a Roma, per dedicarsi a tempo pieno alla vita religiosa. In una lettera scritta al duca Cosimo, il 29 giugno 1558, lo ringrazia di avergli dato il consenso di tornare a Roma per rivolgersi completamente alla sua missione di sacerdote e lo informa di essere stato accolto nella Compagnia di Gesù, dal reverendo Laynes, grazie alle raccomandazioni dello stesso duca. Dichiara di aver ritrovato finalmente la propria vocazione, anche se ricorda con nostalgia gli anni trascorsi a Firenze; raccomanda a Cosimo la propria famiglia e in special modo l'amato Lattanzio.
Da Roma il D. continuò a tenere i contatti con l'ambiente fiorentino e in particolare con il duca, a cui chiedeva spesso favori per i propri familiari. Di questa corrispondenza rimangono due lettere: la prima del 20 sett. 1558, in cui il D. comunica l'arrivo a Firenze di don Diego di Guzmán, generale dell'Ordine dei gesuiti, per rendere omaggio ai duchi, la seconda del 29 dic. 1559, in cui si rallegra per l'elezione del nuovo pontefice, Pio IV, che ritiene gradita anche a Cosimo.
Nel 1561 il D. si stabilì a Macerata, essendo stato nominato rettore dell'erigendo collegio gesuitico di quella città. Qui egli restò fino alla morte, avvenuta nel luglio del 1564.
All'attività politica e diplomatica unì anche interessi letterari. Ne rimangono due testimonianze: il Summario delle cose degne di memoria successe dalla guerra d'Algeri che fu nell'anno 1541 sino al mese di giugno del 1553 e la commedia spirituale Il Creofilo.
Il Summario, finito di scrivere a Pisa il 16 febbr. 1558 (s-f. 1557), fu composto per desiderio di Cosimo I de' Medici, al quale è dedicato, che voleva facilitare il vescovo di Pavia, Giovanni Girolamo de' Rossi, nella stesura delle sue Storie. Come scrive il D. nella prefatoria, il Summario è frutto di ricerche fra i documenti conservati nella Cancelleria fiorentina, relativi ad un periodo non troppo ampio, ma ricco di avvenimenti: e cioè dalla guerra d'Algeria nel 1541 fino alla discesa in Italia dell'imperatore Carlo V nel 1553. Basandosi su dirette testimonianze archivisfiche, il D. delinea un quadro di storia, non solo europea, particolarmente ricco di notizie, anche se soggetto ad una descrizione non sempre rigorosa e selezionata, soprattutto per quanto concerne la scelta dei fatti narrati. L'opera è contenuta nel manoscritto autografo, Magliab. XXIV, 122, della Biblioteca nazionale di Firenze.
La commedia Il Creofilo si colloca nella linea della produzione teatrale fiorentina del tempo che ebbe in Giovan Maria Cecchi il rappresentante più illustre. In prosa e distinta in cinque atti con intermezzi, e pervasa da un forte sentimento morale, che contraddistingue la trama e l'intreccio degli avvenimenti. Infatti, la commedia racconta le avventure e disavventure di Creofilo ("amante della carne"), che dopo aver condotto una vita dominata da eventi e compagnie negativi - ad esempio la schiava Creonia (la carne) e i suoi ruffiani Asmodeo (il demonio) e Amartadio (il peccato) - si modifica e si manifesta, grazie all'intervento divino, in momenti e personaggi positivi -come Stimolo (il rimorso della coscienza), Hierofranio (il precettore), Metamelia (la penitenza), Urania (la grazia celeste) e vari altri -così che Creofilo si trasforma in "Teofilo", cioè in "amatore di Dio". La commedia è conservata nei manoscritti Magliab. VII, 795, della Biblioteca nazionale di Firenze e nel Fondo Gesuitico 142 della Biblioteca nazionale di Roma.
Il D. compose nel 1513 anche un carme intitolato Trionfo della dea Minerva, in cui in chiave ermetica celebra la bellezza delle donne di Firenze. Tramandata in alcuni manoscritti, anche sotto il nome del Poliziano, questa poesia fu pubblicata nell'edizione dei Trionfi, carmi e mascherate e canti carnascialeschi, Cosmopoli 1750, e poi nell'edizione dei Canti carnascialeschi del Rinascimento, a cura di Ch. Singleton, Bari 1936, dopo che già il Carducci ne aveva escluso la paternità del Poliziano (Stanze, Firenze 1863).
Nella sua attività letteraria il D. non trascurò, infine, di farsi propagatore di importanti opere di carattere religioso, frutto della dottrina cattolica elaborata negli anni del concilio tridentino. Così tradusse la Somma della dottrina cattolica del teologo gesuita Pietro Canisio (Venezia 1560 e 1568; Monteregale 1564) e il Cathechismo catholico dello stesso Canisio (Venezia 1562), dedicato a Vittoria Farnese Della Rovere.
La fama raggiunta è testimoniata anche dalla dedica, a lui indirizzata, della Poetica di Girolamo Vida, da alcuni versi composti in suo onore da Francesco Berni, e da altre poesie a lui dedicate, come quella di anonimo conservata nel Ms. lat. 7192 della Biblioteca apostolica Vaticana.
Fonti e Bibl.: Documenti e lettere del D. si trovano in Arch. di Stato di Firenze, Mediceo avanti il principato, ff. 115, 161, 316; Mediceo del Principato, ff. 350, 359, 369, 394 bis, 397, 402-416, 461-475, 482, passim; Carte Strozziane s. 1, ff. LXVIII, c. 54; LXXII, c. 43; LXXV, cc. 1181 19; LXXVI, cc. 20, 37; LXXVII, c. 65; s. 2, f. CXXXIV, c. 218; Indice della Segreteria vecchia, VI, 1775, c. 94v (Inventario 371). Si veda, inoltre: D. Atanagi, Delle lettere facete et piacevoli di diversi grandi huomini, Venezia 1561, I, pp. 1 -21; G. Mannucci, Le glorie del Casentino, Firenze 1674, pp. 104, 127-129; I. Lami, Catalogus codicum manuscriptorum, Liburni 1756, p. 31; A. M. Bandini, Il Bibbiena, Livorno 1758, pp. 2, 17-18, 50; G. M. Mazzucchelli, Gli scrittori d'Italia, Brescia 1760, II, pp. 980-981, 1202; G. Roscoe, Vita e pontificato di Leone X, Milano 1817, VII, pp. 141-142; A. Tiraboschi, Storia della letter. ital., Firenze 1852, VII, p. 1194; G. Muzzi, Mem. civili di Città di Castello, Città di Castello 1844, II, pp. 108, 222; A. Desjardins, Négociations diplomatiques, Paris 1859, III, p. 378; F. Berni, Opere, Milano 1873, pp. 209, 230-232, 283-295; A. Virgili, F. Berni, Firenze 1881, pp. 56-57, 59, 72-74, 76-79, 91-93, 570; E. P. Rivière, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris 1892, II, p. 633; III, p. 164; IX, p. 240; Corrections et additions, Toulouse 1911, pp. 439-440; O. Braunsberger, Beatii Petri Canisii epistolae et acta, Friburgi 1898-1913, II, p. 606; III, p. 788; IV, pp. 1023-1025; VI, p. 670; P. Tacchi Venturi, Storia della Compagnia di Gesù, Roma-Milano 1910, pp. 241, 299; G. L. Moncallero, Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520), Firenze 1953, pp. 243-245, 254-255; Id., Epistolario di Bernardo Dovizi da Bibbiena, Firenze 1965, II, p. 92; C. Mutini, Berni, Francesco, in Diz. biogr. degli Italiani, Roma 1967, pp. 345-346; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, Monasterii 1923, III, p. 176; P. O. Kristeller, Iter Italicum, II, pp. 110, 119, 384.