ANGELO di Sicilia, santo
Venuto in Sicilia con i religiosi che dal Carmelo emigrarono nell'isola, vi morì, secondo i dati tradizionali, che, tuttavia, sembrano degni di fede, ucciso a Licata per mano di "empi infedeli" nella prima metà del sec. XIII. Considerato perciò martire, fu eretta in suo onore, sul luogo della morte, una chiesa, ove fu collocato, su un altare, il suo corpo. Queste scarne notizie - un'altra, raccolta, dicesi, c. II 1370 dal beneficiario di S. Giovanni in Laterano, Niccolò Processi (Cantoni, Vita..., p. 403), riferisce su una venuta di A. a Roma - ricavate da un catalogo di santi carmelitani risalente alla metà del sec. XIV, vennero arricchite di particolari leggendari fino a formare un vero e proprio racconto biografico.
Particolarmente nota e diffusa la vita scritta da un certo Enoc, che si dice carmelitano e patriarca di Gerusalemme, vissuto nei primi decenni del secolo XIII, ma che, come si ricava dagli errori contenuti nella suaopera (ignoranza della topografia della Palestina; la regola carmelitana risalirebbe ad un patriarca Alberto nel 412, mentre essa fu data qualche anno dopo l'asserito ingresso tra i carmelitani di A. e di suo fratello Giovanni nel 1204-1205; Gerusalemme sarebbe ancora in mani cristiane nel 1219; un giovane sarebbe stato liberato addirittura dall'infemo per un miracolo di s. Angelo; un Goffredo arcivescovo di Palermo non esistito nel periodo qui assegnatogli) e dagli elementi cronologici ivi presenti (profezie che ben si adattano alla situazione seguita alla battaglia di Cossovo del 1389, la invasione della Bulgaria e della Valacchia nel 1393), fu con ogni probabilità un siciliano che scrisse nella prima metà del sec. XV, utilizzando fonti storiche palestinesi (Guglielmo di Tiro e Giacomo di Vitry), fonti agiografiche benedettine e domenicane e la letteratura apocalittica del sec. XIV.
Secondo tale biografia A., nato da genitori ebrei di nome lesse e Maria, fu preannunciato dalla Vergine insieme al fratello Giovanni nella stessa apparizione che decise della conversione dei genitori al cristianesimo. Rimasti orfani, i due fratelli vennero educati dal patriarca Nicodemo sino all'età di 18 anni; quindi, entrati fra i carmelitani del convento di S. Anna presso la Porta Aurea in Gerusalemme, loro patria, dopo l'anno di prova, andarono al Carmelo, ove per dieci anni vissero in duro ascetismo. A. cominciò presto a imitare la potenza taumaturgica dei suoi padri Elia e Eliseo: fece tornare a galla una scure caduta in acqua, passò il Giordano a piedi asciutti, guarì lebbrosi, fece risorgere morti, cader fuoco dal cìelo. A 28 anni A., dopo esser stato a Gerusalemme per ricevere l'ordinazione sacerdotale, si ritirò nel deserto della Quarantena, ove rimase per cinque andi M preghiera e penitenza. Al termine di quel periodo, in un'apparizione, Cristo gli ordinò di portarsi in Sicilia, perchè si adoperasse alla conversione dì un peccatore di nome Berengario che da lungo tempo conviveva colla sorella e ne aveva avuto tre figli; prima però avrebbe dovuto passare per Alessandria, prelevandovi alcune reliquie. Alla preghiera che il Signore volesse proteggere la Città Santa, fu informato sul futuro di Gerusalemme, della Terra Promessa e della cristianità in Egitto, Asia Minore ed Europa meridionale: predizioni che egli avrebbe dovuto divulgare nelle sue predicazioni. Tornato a Gerusalemme, ove nel frattempo suo fratello Giovanni era divenuto patriarca, A. predicò a 60.000 persone e poi, presi con sé tre compagni, si portò ad Alessandria, ove prese le reliquie che gli consegnò il patriarca Atanasio. Salpato il 1° apr. 1219 su una nave genovese, incappò presso la Sicilia in quattro navi cariche di trecento saraceni, che malmenarono lui ed i suoi compagni: alla preghiera del santo scese fuoco dal cielo che uccise settanta assalitori: gli altri ridotti in cecità, vennero, dopo la conversione, miracolosamente guariti, quasi tutti. Dopo una sosta a Messina, recatosi a Civitavecchia, ove consegnò le reliquie a Federico di Chiaramonte, proseguì poi per Roma. Qui, durante la visita ai luoghi santi, in S. Giovanni in Laterano incontrò s. Francesco e s. Domenico. In tale circostanza A. predisse le stimmate a s. Francesco, e da questo ebbe l'annunzio del prossimo martirio. Tornato in Sicilia, a Palermo, ospite dei basiliani di S. Maria della Grotta, vi predicò per quaranta giorni recandosi poi ad Agrigento. Passando per i bagni di Cefalà guarì sette lebbrosì (indicati col nome e luogo di origine), nonché l'arcivescovo di Palermo di nome Goffredo; predicò poi ad Agrigento cinquanta giorni concludendo il viaggio a Licata. Prima in segreto e poi pubblicamente tentò di convertire Berengario, che'esasperato per la conversione della sorella, il 5 maggio 1220, mentre A. predicava a 5.000 persone presso la chiesa di SS. Filippo e Giacomo vicino al mare, lo ferì a morte con cinque colpi di spada. Prima di morire il santo raccomandò di non vendicare la sua uccisione. Dopo la morte A., apparso all'arcivescovo di Palermo, gli chiese sepoltura e ciò avvenne dopo otto giorni e vari prodigi.
Segue poi, nei codici della vita attribuita ad Enoc, l'apparizione di s. Giovanni Battista che ordina ad Atanasio di Chiaramonte patriarca di Alessandria di consegnare ad A. alcune reliquie per portarle in Italia al di lui fratello Federico di Chiaramonte.
La biografia di Enoc non merita alcuna fiducia, nonostante qualche elemento sembri ricevere conferma da altre fonti (un documento di consegna di reliquie a Federico di Chiaramonte, di cui riferisce F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra, I, Venetiis 1717, pp. 231-234; l'appartenenza nel 1219-20 del monastero di S. Maria della Grotta in Palermo ai basiliani): l'autore introdusse notizie certe in una composizione di fantasia.
Già venerato nel sec. XIV dopo la vita attribuita ad Enoc, il culto di A. ebbe ampia diffusione fra i carmefitani e nel popolo, finché nel capitolo generale del 1498 si prescrisse che in tutti i conventi carmelitani se ne facesse commemorazione ogni giorno. Nel 1564 si stabilì di celebrare la festa con ottava solenne.
Le reliquie furono deposte in una cappella non carmelitana; nel 1457 i religiosi suoi confratelli ottennero da Callisto III di annetterla al loro convento, ma non se ne fece nulla sino al 1605. Tolte dalla cassa di legno, nel 1486 le spoglie furono deposte in un'urna d'argento, il 5 maggio 1623 in un'altra ancora più preziosa, ed una terza traslazione si ebbe il 15 ag. 1662 nella chiesa attuale. A ricordare la traslazione del 1623 fu istituita una festa al 16 ag. tuttora celebrata. Il 4 maggio 1626 s. A. fu proclamato patrono anche in Palermo.
Iconografia: Verso il 1430 Filippo Lippi lo raffigurò nella Madonna Trivulzio (Milano, Musei civici); varie volte è negli affreschi del 1472-73 nel santuario del Carmine presso S. Felice del Benaco; degli ultimi anni dello stesso secolo è la tavola attribuita a Tommaso De Vigilia, oggi al Carmine di Palermo; il Pordenone lo raffigurò nella Madonna del Carmine (Venezia, Accademia delle Belle Arti).
In seguito le raffigurazioni divengono più frequenti. Suoi attributi: abito da cannelítano (che lo distingue da s. Pietro martire, domenicano), una scimitarra in testa, un pugnale al petto, una palma in mano sola o infilata a tre corone. La tela di L. Caracci della Pinacoteca di Bologna ha un falso titolo: non si tratta del martirio di s. A. (crocifisso a un albero e con una freccia al petto), ma di un altro carmelitano, s. Pier Tommaso, vescovo. Pietro Testa in S. Martino ai Monti in Roma l'ha raffigurato con la visione di Cristo nel deserto.
Leggenda e folclore: Da s. A. prende nome S. Angelo Muxaro in provincia di Agrigento, per il soggiorno che vi avrebbe fatto; egli inoltre avrebbe abitato in una grotta dei paraggi, già infestata da spiriti maligni, che, fuggendo, lasciarono sulla volta una larga fenditura a forma di croce; nella medesima grotta si mostra il giaciglio dei santo, incavato nel masso. A Cefalà Diana si mostra l'impronta del piede di s. A. nella pietra ove sgorga l'acqua calda. A Caltabellotta si conservava il pulpito ove egli aveva predicato; ad Agrigento c'era la cappella nella quale avrebbe celebrato la messa. Sarebbe stato anche a Lentini.
La maggiore devozione, com'è naturale, la riscuote a Licata, di cui è patrono. A destra della chiesa è tuttora la fonte che si dice scaturita sul luogo del martirio e da cui i devoti attingono l'acqua, particolarmente nelle due feste annuali, a maggio ed agosto. A lui i Licatesi ascrivono la preservazione del paese da un attacco dei Turchi nel 1553 e la liberazione dalla peste nel 1625: fu in quest'ultima occasione che si stabilì di ampliare la chiesa (già ingrandita una prima volta nel 1564), Poi inaugurata nel 1662. Sino a qualche tempo fa, e in parte ancora oggi, la festa del 5 maggio veniva celebrata con usi particolarì: la sera della vigilia si bruciava una barca in onore del santo; il giorno della festa si aveva l'offerta degli animali inghirlandati (oggi ridotta alla benedizione dei cavalli) e di ceri. In serata si snoda la processione con l'uma del santo circondata da quattro grandi ceri sopra mastodontici candelabri: in via Principe di Napoli i terrazzani cedono l'uma ai marinai che compiono delle corse, con torce accese in mano, in ricordo dell'episodio dei Turchi costretti ad allontanarsi.
Bibl.: T. Bellorosius, Vita S. A. martyris, Panormi 1527; B. Gonon, Vitae et sententiae Patrum Occidentis, Lugduni 1625, pp. 227-233; Acta Sanctorum, Maii, II, Antverviae 1680, pp. 56-95, 798-842; T. Cantoni, Vita S. A. martyris, Bononiae 1691; Roma, Arch. dei carmelitani, p. Bagnari, Annales Carmelitarum, ms. (del sec. XVIII), II. C. O. 16, I, pp. 111, 123, 280-285, 641; Bibliotheca hagiographica latina, I, Bruxelles 1898, pp. 77 a.; G. Pitré, Feste patronali in Sicilia, Torino-Palermo 1900, pp. 413-421; Id., Studi e leggende popolari in Sicilia, Torino 1904, pp. 340 s., 354, 364; Marie-Joseph du Sacré-Cøur, sub voce, in Études carmélitaines, VI(1921), pp. 125-129 (paginazione speciale); V. Di Palma, Vita di S. A. martire patrono della città di Licata, Licata 1939; G. Couto, De culta S. A. martyris O. Carm., in Analecta Ordinis Carmelitarum, XI(1940-42), pp. 168-183; B. Xiberta, De visione S. Simonis Stock, Romae 1950, pp. 283, 289, 301, 310; L. Réau, Iconographie de l'art chrétien, III, Paris 1958-59. pp. 87 s.