CONTARINI, Angelo
Nato a Venezia da Tommaso di Giorgio e da Maria di Andrea Bembo il 26 giugno 1598, la sua figura - altrimenti sfuggente - è ricostruibile grazie ai tre reggimenti affidatigli in Terraferma.
Già dei Dieci savi alle Decime, il C. viene eletto, il 24 sett. 1645, podestà di Verona ove entra, accolto con "segni e testimoni ben degni d'honore" da "ogni grado e conditione di persone", il 1°luglio 1646. Con assiduo scrupolo vi istruisce processi ora per l'atroce assassinio di "tal Vittoria" nella zona di Nogarole per mano di due sudditi mantovani ora per il manoscritto trafugato al benedettino Michelangelo Zanaschi (il priore di S. Giorgio in Braida sulle cui precedenti vicissitudini cfr. A. Zanelli, Le relazioni tra Venezia e Urbano VIII..., in Arch. ven., s. 5, XVI [1934], pp. 158 ss.) dal vicario Cerchiari suo rivale in dispute teologiche punisce "mancamenti e male operationi"; vigila perché la confezione dei "biscotti" rispetti i "partiti stabiliti" e controlla che nelle "farine" non venga inserita, come si sospettava, "fava"; s'oppone ai "disordini" del Monte di pietà e ne sorveglia i bilanci; provvede all'elenco nominativo dei "possessori di feudi et enfiteusi ecclesiastici" con la aggiunti specificazione della "quantità... et... censi"; riscuote il "dinaro della volontaria contributione" alle spese belliche della Repubblica sventando altresì l'"abuso" di versamenti in "monete di mala qualità". E le sue competenze si ampliano quando - assente il capitano -, dal 20 maggio a tutto settembre del 1647, s'occupa, in veste di "vicecapitanio", delle "occorrenze" ordinarie e delle "paghe" della "militia" stanziata a Verona e del presidio dì Mantova; donde la "rassegna" mensile e il periodico rendiconto dello "scosso e speso" dalla "camera", laddove il capitolo di spesa più cospicuo è, appunto, rappresentato dai "pagamenti" dei soldati.
Motivo di sofferenza per il C., di continue "perturbationi" dell'"animo" la denutrizione della popolazione prostrata dalle privazioni, afflitta da una crescente disoccupazione. La città, scrive il 23 marzo 1647, è "dissolata, non trovando la povertà che languisse et muore dalla fame né nell'arte della seda né della lana alcun impiego". Possano, propone, i mercanti sia ebrei che cristiani "vender qual si sia sorte di drappo così in pezza come a brazzo", purché di produzione locale. Ne deriverebbe - s'illude - una vigorosa ripresa della tessitura; "di questo modo", argomenta, il calo demografico stesso dovuto alla peste e accentuato dall'emigrazione verrebbe bloccato ché il "popolo" non solo "si fermarebbe", ma "crescerebbe et, restando il denaro nella città, ... tutti ne sentirebbero beneficio". Gli sfugge come l'applicazione letterale di siffatto protezionismo avrebbe finito col deprimere il già fiacco andamento mercantile. Ma è soprattutto nella "materia delle biade", cruciale nei "correnti travagliosi tempi" di "penuria" e "carestia", che il C. pare ingabbiato nella stridente contraddizione d'esigere, da un lato, l'afflusso dall'esterno e d'imporre, dall'altro, simultaneamente la più drastica chiusura. Un caso il suo - coincidente con il comportamento degli altri rettori in Terraferma - sintomatico e rappresentativo. "Questo territorio - constata - ... non ha per là metà il suo alimento"; esiziali, perciò, "le prohibitioni de' grani dei Polesine al mercato" di Legnago - dove la rarefazione della offerta ha, in "poche settimane", elevato il prezzo dei frumento da 21 a 28 lire il "sacco" - donde Verona e il "territorio" sogliono "ricever l'ordinario lor alimento". Di conseguenza il C. preme per una liberalizzazione dell'accesso, senza per questo allentare la repressione delle forme anche più spicciole e modeste di contrabbando mirando alla realizzazione d'un blocco rigidissimo alla fuoruscita di cereali. Di fatto c'è l'incalzante diffondersi della fame mentre si contraggono paurosamente le fonti d'approvvigionamento; ridicolo, addirittura, l'ordine al C. del Senato d'investire capitali dei Monte di pietà nell'acquisto di "biade" per poi rivenderle. Il C. stesso fa presente come questa "permission di levar dal monte il denaro di ragion di fontici" sia palliativo del tutto inadeguato. La fame morde una città travolta da una crisi profonda, sospinta sulla china del tracollo produttivo: "totale" la "distruttione del lanificio" che "altre volte vi fiorì grandemente", cui s'accompagna il vistoso declino della industria serica, eccessivamente gravata, secondo il C., da oneri daziari. Evidente, altresì, la contrazione dei traffici ché la guerra dei Trent'anni imperversa proprio nelle terre rispetto alle quali Verona, "per il beneficio naturale del sito e della navigatione", è stata da secoli interlocutrice privilegiata attirando un consistente nucleo di operatori commerciali. Purtroppo - rileva il C. - "il corso felice di questo fruttuoso incaminamento" delle merci è stroncato dalle "turbolenze" devastanti la Germania. Ciò non toglie che i frequenti fallimenti dei "negocianti" abbiano spesso carattere fraudolento. Dichiarandosi impossibilitati a far fronte a grossissimi debiti, parecchi "mercanti" - così l'indignata denuncia del C. - riescono a concordare "aggiustamenti" rovinosi per i malcapitati che, "in via di negocio", hanno loro "somministrati" ingenti "capitali... a cambio o merci a credenza". Essi, nel frattempo, hanno trasferito in altri "lochi" e "ne' stati vicini" grandi "somme" in "contanti" e cospicue partite di merce, con "civanzi", appunto "fraudolenti e scandalosi e più d'uno ha l'impudenza di ristabilirsi, in progresso di pochi mesi", a Verona, quasi orgoglioso della beffa giocata. Ulteriore colpo alla credibilità del "comercio", di cui "apena rimane vestigio", mentre un tempo "ha reso già delitiosa questa patria". Malgrado il tono depresso dell'economia nell'assieme, il C., incoraggiato dal Senato a trarre il massimo "frutto" dall'appalto dei dazi, s'ostina, tuttavia, nel caparbio tentativo di spuntare prezzi il più possibile sostenuti nei vari "incanti" per collocare ora quello della "macina" ora quello del "vino", ora quello delle "carni" ora quello dell'"affittar le poste dell'hosterie". E si batte, di conseguenza, contro le turbative d'asta e le "conventicole" ed "accordi" miranti ad estorcere vistosi ribassi. Pare non sfiorarlo il dubbio che una vantaggiosa impennata degli appalti è proponibile e attuabile solo in un contesto economicamente prospero e attivo. Donde la sua patetica delusione perché, a scorno del suo zelo, continua ad "incantar questi datii, ma con poco frutto"; e, nemmeno abbassando "rilevantemente il prezzo", riesce ad assegnare i più "importanti", ché, in tal caso, le aste vanno addirittura deserte. Parte, pertanto, non senza amarezza da Verona anche se, come scrive, il 24 nov. 1647. il capitano Nicolò Cappello, reca con sé "le acclamationi universali di questi sudditi per la virtù con che ha reso questo governo et amministrata la giustitia". Meno elogiativa, in realtà, la cronachistica locale si limita a ricordare, della permanenza del C., l'erezione d'una fontana - che sarà poi tolta - nel mezzo della piazza dei Signori per convogliare l'acqua delle due in piazza del Mercato e, soprattutto, l'imposizione della "insolita... gravezza sopra li camini o focolari delle case" comportante il pagamento dun ducato "per ogni camino fino a tre", di due "da tre a cinque, e da cinque fino alli dieci altra duplicatione".
Secondo "governo", cui il C. - dopo essere stato "censor" - viene eletto, il 28 ag. 1651, quello, quanto mai "spinoso", di Brescia, dove si insedia quale podestà il 10 marzo 1652. Si tratta d'un "peso gravissimo", d'un "travaglioso impiego": implica, infatti, il controllo d'una città stravolta da "crudeli inimicitie" e sanguinose faide e d'un territorio - per estensione definibile "ducato" - ovunque rigurgitante di "banditi" macchiatisi di "gravi" delitti, i quali spadroneggiano con sfacciata protervia inquinando ogni forma di vita associata, compromettendo gli scambi commerciali con le zone contigue, rendendo addirittura "impraticable" la Valcamonica. L'"infettione... calamitosa" dei "tristi e malviventi" è, infatti, tale che le strade sono "malsicure", al punto che vi si verifica persino lo "svaleggio" del "corriero di Milano". Usando tutti i "cappelletti" e "morlachi" a sua disposizione, il C. s'accinge con energia all'"estirpatione" degli "scelerati", deciso a bonificare le valli con esemplari castighi a fomentatori e conniventi. Un operato che celebrerà con toni trionfalistici nella relazione del 23 sett. 1654, quasi la disinfestazione del territorio sia ormai definitiva, quasi Brescia goda, grazie a lui, finalmente d'un'"intera quiete". In realtà - anche se sotto i suoi colpi il banditismo arretra, anche se il suo rigore incute timore -, la violenza non è stroncata, la delinquenza non è debellata.
Più credibile, invece, il C. quando, al di là dei vanti personali, addita le cause del proliferare dei fatti di sangue: circolano disinvolti i "delinquenti impuniti" per la "facilità" di "liberarsi" delle vane minacce d'una "giustitia ridotta in poca stima", eludibile con "subterfugi", spesso derisa; a lei si contrappone con impudenza l'"auttorità de' privati" né i "rei" la temono, tanto più che, con "falsi pretesti", scansano la confisca dei beni o ne rientrano agevolmente in possesso a "vilissimo prezzo". Prepotenze e soperchierie d'armati sono ingredienti della vita d'ogni giorno, i "sinistri accidenti" sono un dato quotidiano. Tutta colpa, sostiene il C. nella relazione, della "libertà di portar armi da fuoco". Non sarà ripristinabile la tranquillità - aveva già insistito nelle sue lettere - "mentre non resta totalmente levato l'uso... di portar le pistole o terzette attaccate al fianco". Per parte sua non esita - mettendosi in urto col capitano Antonio Bernardo - ad imprigionare un "alfiere di cernide" sorpreso con "due terzette alla centura". Geloso della sua autorità ed incline ad estenderla, il C. ritiene gli spetti quella d'"avogadore" negli "affari criminali" della Valcamonica; protesta vibrantemente qualora, da parte della Quarantia civil nova, s'infici la "giudicatura di prima instanza"; imperioso pretende da Andrea Boldù, provveditore ad Orzinuovi, la "missione dei processi e de' prigioni" da lui operati nonché la "ritrattatione" di proclami dallo stesso emanati. E da Venezia gli si dà ragione ché a Boldù, destituito, viene intimato di presentarsi alle "carceri" degli avogadori. Talvolta però il C. esagera, specie quando, dimentico di dover procedere "unitamente" col capitano rispettandone altresì le competenze, agisce di testa sua senza nemmeno consultarlo. Si che con Antonio Bernardo - verso il quale nutre una fortissima, e peraltro ricambiata, antipatia personale - scoppia, preparato da reciproche ripicche, un violentissimo attrito per un proclama e un processo in materia di "monete" e "valute" decisi dal C. a insaputa di quello. Donde l'accusa mossagli da Bernardo d'usurpazione dell'"altrui auttorità", d'introduzione indebita di "nuova forma di governo", di sprezzante "esclusione deliberatamente offensiva della sua" carica e, quindi, delle "leggi" e della "giustitia". Impossibile il "buon concerto" col. C. a detta di Bernardo: agisce sconsideratamente anche perché ha la "mente... agitata" dal prolungarsi del reggimento bresciano. "Infastidito" dalla "molestia" della protratta permanenza - in effetti il C., sollecitando l'arrivo del successore lamenta che, altrimenti, rischia l'"esterminio" delle sue "fortune" -, il C., sempre a detta del capitano, non sa più controllarsi, riceve "ogni cosa per acerba e molesta". Un'accusa pesante, che trova udienza a Venezia, dove gli avogadori decidono d'"intromettere tutto il processo formato a questo foro pretorio". Il C. è, così, costretto a ridimensionare la sua invadenza, che peraltro non sconfessa. Anzi, nella relazione, ad essa allude fieramente ri cordando i suoi decisi interventi perché circolino monete al "prezzo limitato dalle leggi", aggiungendo che ben più incisivo sarebbe stato il suo operato "se, per la distintione che si dice doversi fare delle materie, non mi fosse stato levato il modo". Su altri ambiti il C. riesce, invece, a sintonizzarsi collo stesso Bernardo e con gli altri due capitani, Marino Tiepolo e Giustiniano Giustinian, che l'af fiancano nel coatto prolungarsi dei soggiorno bresciano. Donde la "locacion" dei dazi - al solito meno vantaggiosa di quanto avrebbe voluto -, la "essation dell'offerte del clero", gli sforzi per stroncare la "pretension" ecclesiastica di sottrarsi ai contributi straordi nari, l'imposizione ai notai della notifica degli "strumenti di alienationi de' beni laici in ec clesiastici" a partire dal 1642, l'indagine sulla situazione patrimoniale e le entrate dell'abbazia di "Conial", il controllo sull'ammini strazione della prepositura dei SS. Nazzaro e Celso, la riscossione dei "publici crediti" nel corso della quale tenta d'appianare le aspre divergenze tra città e territorio per il "comparto delle gravezze".
Lasciata Brescia nel maggio del 1654, il C., dopo una permanenza a Padova a scopo di cura, rientra a Venezia, ove, il 29 sett. 1659, gli viene affidato il provveditorato generale a Palma. Qui entra il 20 febbr. 1660 e, dopo aver provveduto a "rivederla in tutte le sue parti", pone mano alla "ristauratione delle fabriche".
Urge, infatti, il "restauro" dei dodici quartieri, delle tre "torrette della polvere", di tre "porte" nonché dei "portoni delle sortite" dei nove baluardi, essendo il tutto in "pessimo stato". Si occupa altresì di palificate, terrapieni, "facitura de' ponti", approfondimento della "fossa", "sgrotadure molteplici della controscarpa", nonché dei "bisogni delle mura e de ponti della fortezza" di Marano. Una faticosa attività d'attenta manutenzione angustiata dalla scarsità di materiale e soprattutto di fondi, che spesso è costretto a stornare alle necessità primarie delle "misere militie" prive dell'"ordinaria mesata" e da ciò indotte agli "sconcerti delle fughe e delle commotioni". Non "capita denaro" da "alcuna parte", lamenta il C.; gli è impossibile "sostenere il peso" dei mantenimento delle truppe con le "debolissime forze della camera" e senza adeguate scorte di "viveri e foraggi". A ormai "all'ultimo grado di miseria", scrive il 26 giugno 1661, "tormentato più che mai dalle continue doglianze dei... creditori". I preti del duomo, i medici e gli infermieri dell'ospedale senza un "soldo" dei salari loro spettanti, i fornitori senza speranza di recupero dei loro "crediti" minacciano tutti d'andarsene. Una situazione di fronte alla quale il C. si sente impotente. D'altronde è ormai in età avanzata, con le energie fisiche "indebolite", agogna alla "quiete" e al "riposo", invoca - tra il lamentoso e il rabbioso - la sostituzione.
Frequentemente costretto a letto, a Palma, "contraria" alla sua "complessione", sente di "languire", d'approssimarsi al "sepulchro". Finalmente, una volta giunto il successore, il 17. giugno 1662 può partire.
Il C. muore, probabiimente a Venezia, nel 1666.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 57, c. 94; Ibid., Senato. Lett. Verona e Veronese, filze 45-47 (dalla lett. del 2 luglio 1646 sino alla lett. del 24 nob. 1647), passim;Ibid., Senato. Lett. Brescia e Bressan, filze 56-58 (sino alla lett. del successore dei C., P. Mo rosini del 23 sett. 1654), passim;Ibid., Senato. Lett. Palma. filze 43 e 44 (lett. dell'11 giugno 1662); Ibid., Senato. Terra. regg. 132 (da c. 236 v)-134 (sino a c. 524r), 144 (da c. 17v)-148 (sino a c. 192r), passim;159, cc. 442v, 725v; 160-164, passim;Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Lett. dei rettori, buste 31, nn. 216, 219-271; 201, nn. 85-98, 100-118;questioni relative all'eredità del C. e versamenti a "cambio" da luiricevuti in Venezia, Bibl. del CivicoMuseo Correr, Mss. P. D., 2665/7; ducali al C. ibid., Cod. Cicogna, 3470/Brescia; Raccolta di privilegi.. concernenti Brescia, Brescia 1732, p. 142; Raccolta de' privilegi... concernenti Nave, ... Gussago... Ospitaletto..., Brescia 1744, pp. 156 s.; Relazioni dei rettori veneti, a cura di A. Tagliaferri, IX, Milano 1977, p. LXXX; XI, ibid. 1978, pp. LII, LIX, 472, 477-81; XIV, ibid. 1979, p. XLIX; L. Moscardo, Historia di Verona, Verona 1668, pp. 507, 512; [G. B. Biancolini], Supplementi alla Cronica di P. Zazata, II, 2, Verona 1749, pp. 105 s.; [V. Ioppi], Cenni storici... Palma, Udine 1865, p. 15; P. Damiani, Storia di Palmanova, Udine 1969, pp. 73, 90, 202 e in nota alle pp. 91, 105, 125; G. Zalin, ...manifatture e politica industriale..., in Atti del Convegno Venezia e la Terraforma..., Milano 1981, p. 539.