Colocci, Angelo
, L'umanista jesino (1474-1549) ebbe una parte di un certo rilievo nella questione della lingua che si agitò nei primi decenni del Cinquecento; ci ha tramandato un frammento del De vulgari Eloquentia che si fece trascrivere, attorno all'anno 1526, dal codice Trivulziano per la parte che gl'interessava, e cioè il cap. IX e parte del X del II trattato, che riguardano la metrica della stanza e i termini, del tutto nuovi ai tempi del C., usati per indicarne le parti; egli stava infatti raccogliendo materiali per una storia della poesia rimasta allo stato di abbozzo. Ma certamente il C. dedicò molte fatiche allo studio di tutto il trattato dantesco, come rivelano le innumerevoli note nei margini del Vaticano lat. 3793 e del 12474 della Bibl. Naz. di Parigi che gli appartennero. Il C. studiò il trattato, che il Trissino aveva portato a Roma nel 1514, contemporaneamente al Bembo, ma non accettò affatto il Bembo, col quale del resto non aveva amicizia né consuetudine di studi; già nell'Apologia di Serafino Aquilano del 1504 aveva affermato che D., " secondo che lui dice, con ogni industria sforzavasi ampliar la sua vernacula lingua, et pur nell'alta Comedia più tosto dicer volse la nostra pica che la sua ghiandaia et altri nostri vocabuli infiniti, in ciò scusandolo se alle volte non è stato verecundo della novità delli vocabuli ", Le frequenti imitazioni dei versi danteschi nelle sue composizioni italiane, in verità molto modeste, e le postille, sparse un po' dappertutto, oltre che nei brogliacci anche nei numerosi codici che gli appartennero, mostrano che conosceva bene tutta l'opera dantesca, pur se nei due inventari dei suoi libri a noi pervenuti figurano solo il Paradiso e il Convivio. Il codice Vaticano lat. 3793, noto come Libro di varie romanze volgare, dal C. posseduto e annotato, è giudicato contemporaneo alla giovinezza di D. e si è perfino fatta l'ipotesi che D. stesso possa averlo conosciuto. Che il C. debba aver posseduto le altre opere di D. ce lo fa pensare anche un elenco di libri, autografo (codice Vaticano lat. 3903, c. 225r), in cui figurano: " Dante de vulgari eloquio " e " dante mio "; il primo è certamente il codice Trivulziano, che in quel momento era presso di lui, e l'altro è un codice non identificato, con ogni probabilità uno dei molti suoi danneggiati o distrutti durante il sacco di Roma.
Nell'interpretare la teoria espressa nel De vulgari Eloquentia il C. sembra tentare un adattamento di essa alle idee del Trissino e del Calmeta, coi quali viene a trovarsi fondamentalmente d'accordo; ma in lui, come in tutti i contemporanei che trattarono la questione della lingua, persiste la tendenza a intendere la lingua prevalentemente come strumento sociale comune a tutti gli Italiani, e non tanto invece, al modo di D., come stile, cioè come sublimazione artistica della parola. Il C. sembra cercare in D. la conferma della sua teoria della lingua ‛ comune ' e ‛ cortigiana '; a comprendere meglio il suo pensiero si noti la differenza nel giudicare il ‛ contrasto ' di Cielo d'Alcamo scritto, secondo D., in un volgare plebeo che non ha nessun pregio (VE I XII 6), mentre il C. ne aveva grandissima ammirazione. Non va inoltre trascurato che al C. dobbiamo alcune notizie, tra le pochissime che ci sono pervenute, sui rapporti tra D. e Cecco d'Ascoli, con un giudizio di questi su D.; Cecco, secondo il C., avrebbe scritto l'Acerba per sollevare a dignità letteraria la " lingua ascolana ", una di quelle parlate che D. (VE I XI 3) aveva scartata e collocata tra le peggiori.
Bibl. - L'unico tentativo di ricostruzione della biblioteca del C. è quello di S. Lattès, Recherches sur la bibliothèque d'A. C., in " Mélanges d'Archéologie et d'Histoire " XLVIII (1931) 336-337; per il frammento del De vulg. Eloq., cfr. S. Debenedetti, Su alcune postille di A.C., in " Zeit. Romanische Philol. " XXVIII (1904) 58 ss.; per il giudizio su D. contenuto nell'Apologia di Serafino Aquilano, cfr. S. Ciminelli, Rime, a c. di M. Menghini, I, Bologna 1894, 31; per quanto il C. riferisce dei giudizi di Cecco d'Ascoli su D., cfr. G. Castelli, La vita e le opere di Cecco d'Ascoli, Bologna 1892, 255; o meglio, data la pessima trascrizione, direttamente il codice Vaticano lat. 4831, c. 56r.