CALLIMACO, Angelo
Nacque a Mazara del Vallo (Trapani), verso la metà del sec. XV, da famiglia di modeste condizioni.
Il suo vero cognome, che egli abbandonò per assumere quello umanistico di C., era verosimilmente Monteverde. Ebbe un fratello prete, Orlando, che fu "thesaurarius Mazariensis", come appare da una nota (Roma, Bibl. Casanatense, cod. 1910 [A I 18], f. 175v) nella quale, in forma di epigrafe, si esprime l'augurio che i nomi dei due fratelli siano scritti insieme, come nel manoscritto, anche nel libro dei beati.A Roma, alla scuola di Domizio Calderini, il C. seguì studi letterari e forse anche giuridici, senza però portarli a termine, come prova la lunga lettera che il C. stesso indirizzò da Velletri, il 20 luglio 1478, al fratello Orlando (Roma, Bibl. Alessandrina, cod. 239, fasc. III, ff. 1-6v, autogr.; pubblicata in appendice a R. Malaboti, D. Calderini…, Milano 1919), dolendosi del proprio forzato peregrinare a causa della pestilenza.
Nella lettera il C. afferma che ormai da due anni fuggiva di fronte al morbo - ritenuto degna punizione dei peccati degli uomini, e soprattutto della corruzione imperante a Roma - e lamenta inoltre la morte del Calderini, di cui traccia il ritratto fisico e morale e di cui registra le opere filologiche, rievocando vivamente la calda amicizia del maestro scomparso. Il C. si ripromette di cantare con un'elegia la morte dell'illustre veronese; dopo aver brevemente accennato ad altre vittime della pestilenza, esprime il desiderio umanistico di sopravvivere unicamente per poter lasciare di sé e del proprio ingegno un degno ricordo e, pur augurandosi di tornare in tempi più propizi a Roma per finirvi gli interrotti "studia civilia", celebra la sua Sicilia salubre e fertile, dove egli sospira di tornare a vivere in un ozio tranquillo col fratello e col padre.
Fu probabilmente in questo periodo che il C. iniziò la sua attività poetica, costantemente rivolta a celebrare personaggi illustri dei quali egli cercava la protezione e l'aiuto; i primi versi che di lui conosciamo sono i 20distici latini dedicati a Federico III da Montefeltro (m. 10 sett. 1482)conservati, insieme con 24epigrammi in lode di famosi uomini dell'antichità nel cod. Vat. Urb. lat.1193, ff. 199-203.Delle successive vicende biografiche ci informa il C. stesso nel dialogo Libellus de oratione dominica che egli dedicò a Filiasio Roverella, arcivescovo di Ravenna e munifico protettore di letterati; in esso infatti il C. afferma di essere stato stipendiato a condizioni favorevolissime per insegnare, insieme con Aurelio Brandolini, a Vienna (senza dubbio "litterae humaniores"), e di aver soggiornato in Ungheria e in Austria fino alla morte di Mattia Corvino (1490).
Il Libellus de oratione dominica, dichiarato "studii mei primitiae" e quindi da collocare tra le prime produzioni del C., è conservato nel codice pergamenaceo Lat.3 della Harvard University Library di Cambridge (Mass.); si tratta dell'esemplare di dedica ed è scritto in un'elegantissimo corsivo umanistico, il cui copista è forse lo stesso del codice 94 della Bibl. Classense di Ravenna, contenente i Proverbia di Raffaele Brandolini (per la descrizione del cod. Lat.3si veda S. De Ricci, Census of medieval and Renaissance manuscripts in the United States and Canada, I, New York 1935, p. 976). Principale interlocutore del Libellus è il teologo domenicano Pietro Ransano, che il C. aveva conosciuto a Buda come ambasciatore di Ferdinando I re di Napoli; la discussione è imperniata su un'esame del contenuto del Pater noster, nel cui corso il C. sottopone al Ransano vari quesiti sulla preghiera. Le fonti sono le più canoniche: la Bibbia, s. Cipriano, s. Agostino, s. Girolamo, s. Giovanni Crisostomo, s. Tommaso d'Aquino, cui si aggiunge il libro quarto delle Sententiae di Pietro Lombardo, che egli conosce come Pietro da Novara, infiorate qua e là di reminiscenze classiche, soprattutto ciceroniane. Della forma dialogica, scelta "ut lectionis fastidium varietate levaretur", il C. ricorda gli antecedenti antichi di Zenone di Elea, Platone e Cicerone, ma lo scopo è sicuramente fallito: all'opuscolo esegetico mancano vivacità di discorso e tensione narrativa, e le lunghe elucidazioni del Ransano poggiano su una struttura dichiaratamente dottrinaria, edificante e moralistica. Il C. stesso avverte il limite letterario del suo discorso quando dichiara che "In rebus… divinis scribendis non multum eloquentiae studendum". Il trattatello è significativo per la fortuna in epoca tardoumanistica dei commenti ad una fra le preghiere cristiane più canoniche. Il fatto poi che esso rientri tra le primizie letterarie del C. (il Ransano nel corpo del dialogo afferma di conoscere del C. solo "tuum ad regem Matthiam carmen et nonnulla alia opuscula, certe non spernenda", composizioni tutte ancora da rintracciare), se comprova da un lato l'interesse del C. per la pietà, lo dimostra d'altra parte privo di un profondo sentire religioso, in un'epoca in cui pure non mancavano vivi fermenti ed ansiose irrequietezze.
Della permanenza del C. in Austria e in Ungheria poche testimonianze ci sono giunte. Il Ransano ricorda il soggiorno ungherese del C. in un passo dei suoi Annales, dove così si esprime a proposito dei dotti italiani in rapporto col platonizzante e ficiniano Miklós Báthory vescovo di Vác: "Ex quibus unus Angelus Callimachus siculus et Mazariensis, vir eruditus et doctorum observantissimus, ab eo honorifice receptus et aureo munere donatus est" (cfr. F. A. Termini, Pietro Ransano umanista palermitano del sec. XV, Palermo 1915, p. 179). Delle relazioni intercorse fra il C. e il Báthory ci restano soltanto 22 distici che il C. gli indirizzò, conservatici nel volume ottavo degli Annales manoscritti del Ransano, il quale precisa di riportare soltanto una parte dell'intera composizione poetica (il carme è pubblicato dal Termini, pp. 179 s., e da J. Huszti, Angelus Callimachus Siculus költeménye Báthory Miklóshoz, in Magyar Könyvszemle, XXXVI[1929], pp. 9-15).
Nel Libellus il C. ricorda di essersi recato, appena rientrato in Italia dopo la morte del Corvino, a far visita al Ransano a Lucera, di cui quegli era vescovo; ricevuto con molta benevolenza, tanto poté sperimentame, oltre che la generosità, la grande dottrina teologica da sentirsi indotto a riportare nel suo dialogo il contenuto di una loro conversazione, avvenuta una sera presso il vescovado. Sembra evidente che il Libellus dovesse avere originariamente come dedicatario il Ransano stesso e che dopo la sua morte (1492) il C., sempre alla ricerca di autorevoli protettori, lo abbia indirizzato tale e quale al Roverella, attendendosi dall'arcivescovo di Ravenna aiuti concreti che in realtà dovettero soddisfare solo in parte le sue aspettative. Infatti successivamente il C. trovò un nuovo protettore in Pietro Isvalies, arcivescovo di Reggio Calabria e poi di Messina, di cui cantò le lodi e al cui servizio rimase lungo tempo, anche se non sembra che abbia seguito in Ungheria il suo mecenate, investito ufficialmente della missione legatizia il 5 ott. 1500, subito dopo aver ricevuto, il 28 settembre, la nomina a cardinale. La sua vita sotto questo aspetto presenta numerose coincidenze con quella di non pochi altri umanisti minori del secondo Quattrocento, propagatori di cultura letteraria in terre straniere ed infine reduci in Italia, dove la loro precaria vicenda si concludeva con l'ingresso in un ordine religioso o scadeva al servizio panegiristico di qualche potente personaggio.
All'Isvalies il C. dedicò la Rhegina, poemetto di due libri in esametri, conservato nel codice Vitt. Em.55 della Bibl. naz. centr. di Roma, membranaceo, del sec. XVI, mutilo del primo foglio, e riccamente miniato (si tratta con molta verisimiglianza dell'esemplare di dedica). Il primo libro narra la storia della Sicilia da Enea a Ferdinando il Cattolico, di cui è ricordata la lotta contro i Francesi per il Regno di Napoli; sono poi passate in rassegna le città dell'isola (Siracusa, Palermo, Catania, Agrigento, Selinunte, Mazara, Trapani, altre località minori, e infine Messina, patria dell'Isvalies). Il secondo libro è dedicato interamente al racconto della vita del cardinale, lodato per i santi costumi e l'alta dottrina, nonché per le alte cariche ricoperte, tra le quali si ricordano il conferimento del pileus niger, la gubernatio Urbis, il praesulatus Rheginus e la receptio in cardinalium coetum.èpoi narrata la legazione boema ed ungherese affidatagli da Alessandro VI per indurre Ladislao II a stringer lega contro il Turco. Il poemetto, che termina col ritorno in Italia del protagonista, fu scritto prima del 1510, poiché non vi è menzionato l'incarico che egli ebbe in quell'anno da Giulio II, il quale gli ordinò di avvicinarsi a Bologna con un accampamento volante per provare se la città, governata dai Bentivoglio, lo voleva ricevere come legato della S. Sede; tanto meno vi èricordata la morte dell'Isvalies, avvenuta a Cesena l'anno successivo. Il testo è stato pubblicato da A. De Stefano, Il "De laudibus Messanae" di A. C. Siculo, in Bollettino d. Centro di studi filol. ling. sicil., III (1955), pp. 90-128, con una sommaria nota introduttiva alle pp. 84-89; brevi estratti ne aveva dato A. Cinquini, In lode di Messana. Per la storia letteraria di Messina nel Quattrocento (nozze Picardi-Durante), Roma 1910. Strettamente congiunta alla Rhegina è l'egloga pastorale inedita, pure in esametri, che nel cod. Vitt. Em.55 segue ai ff. 41-45v; in essa Dameta, bruscamente svegliato dal compagno Damone, gli racconta un sogno in cui gli è apparso un bel giovane biondo come Apollo, incitandolo a cantare le grandi imprese e le lodi del "principe"; il che egli ha eseguito tanto diligentemente da poter subito recitare i "carmina agrestia" celebranti l'ingegno, la prudenza, la sapienza, la pietà religiosa ed umana, la liberalità e la magnanimità dell'Isvalies, del quale si prospetta persino l'elezione al pontificato. Al cardinale protettore il C., inviando in omaggio una copia dell'edizione milanese (28 maggio 1507, per Alessandro Minuziano) del De astronomiae veritate di Gabriele Pirovano, accompagnava il dono con una lettera (tuttora conservata, insieme con l'esemplare donato, presso la Biblioteca Classense di Ravenna, segn. 5438X), con miniati l'iniziale e lo stemma del destinatario, che il C. celebra come uno dei personaggi più illustri del suo tempo, mecenate di studiosi ed appassionato egli stesso di astrologia e astronomia (la lettera è stata pubblicata da A. Zeno prima nel Giornale de' letterati d'Italia, XXVI[1716], pp. 377 ss., poi nelle sue Dissertazioni Vossiane, II, Venezia 1753, pp. 318-20). Non è improbabile inoltre che nel "Fidelis Angelus", introdotto dal Pirovano come interlocutore dell'"Astro[nomus, -logus]", sia da riconoscere il C., che con l'ambiente culturale milanese ebbe rapporti, benché non sappiamo se egli abbia conosciuto personalmente l'autore del De astronomiae veritate.
Pare evidente che, poco prima o subito dopo la morte dell'Isvalies (22 sett. 1511), il C., privo di una concreta protezione, abbia cercato i favori di Giangiacomo Trivulzio, celebrandolo con una adeguata produzione encomiastica; non sappiamo se tale tentativo ebbe successo, anche se i rapporti del C. con l'ambiente milanese sembrano confermare un suo soggiorno nella capitale lombarda, che sarebbe giustificato nel caso di una sua dipendenza al servizio del Trivulzio stesso, in lode del quale il C. compose un poemetto in esametri (Panegyris Trivultia, nel cod. 2158 della Bibl. Trivulziana di Milano, riccamente miniato, di cui sono copie i Triv. 2104 e 2062; cfr. G. Porro, Catalogodei codici manoscritti della Trivulziana, Torino 1884, pp. 477 s., 490).
Del Trivulzio il C. canta le imprese militari sino ai primi anni di Luigi XII; i medesimi codici trivulziani contengono otto distici latini in onore del Trivulzio, ed una Vita divi Thomae Aquinatis, di 41 strofe saffiche, che si chiudono con una preghiera per la stirpe del grande condottiero milanese. Nella Panegyris Trivultia, fra l'altro, il C. lamenta la cacciata di Guidobaldo I d'Urbino ad opera di Cesare Borgia (1502), facendo comprendere di aver dedicato a questo fatto alcuni versi latini, che non ci sono giunti. Di un'intenzione, da parte del C., di entrare in rapporti col duca d'Urbino testimonia anche Domizio Palladio Sorano nel primo dei due brevi epigrammi della sua raccolta poetica che dedicò a un "Callimachus Siculus" definito "amicissimus et poeta", da identificarsi con certezza nel C. (Venezia, G. B. Sessa, 1498, a cc. b Iv e III: cfr. Hain, 12278; Indice gen. degli incunaboli…, 7147;nel secondo epigramma il Sorano compiange l'amico, che riceve per cibo degli ossi, come i cani); in esso il Sorano raccomanda a Guidobaldo il C., che già per il duca ha composto un "felix opus" non meglio definito. M. Martini, che in D. Palladius Soranus poeta…(Casamari 1969, pp. 79 s.) ha riprodotto entrambi gli epigrammi, li data agli anni romano-urbinati del Sorano (1490-94 c.); è probabile invece che la raccomandazione al duca d'Urbino sia da collocare nel periodo che intercorre fra il ritorno definitivo di Guidobaldo nel suo dominio (agosto 1503) e la sua morte (23 apr. 1508).
Del C. si ignorano luogo e data di morte.
Oltre agli scritti di cui si è trattato, del C. resta anche un carme in sei esametri latini, composto per i Fasti Christianae religionis di Ludovico Lazzarelli (pubblicato nell'edizione del Bombyx del Lazzarelli curata da G. F. Lancellotti, Iesi 1765, p. 26, e conservato in qualche codice), che si dice tratto "ex suo Catalogo vatum"; ma purtroppo nulla sappiamo di altre composizioni di questo genere, laudative di poeti contemporanei. La bibliografia sei-settecentesca attribuì al C. anche altre opere (Commentaria poetica ed Epistolae familiares: di lettere ci sono giunte soltanto quella al fratello Orlando sulla morte del Calderini e quella all'Isvalies nell'esemplare del Pirovano inviatogli in dono), di cui non resta traccia.
Bibl.: Il C. è stato normalmente smembrato in due personaggi, A. C. e Callimaco Monteverde: di questa confusione sono partecipi quasi tutti i bibliografi siciliani (G. I. Adria, R. Pirro, A. Mongitore, cui si aggiunsero J. P. Niceron, Mémoires pour servir à l'histoire des hommes illustres dans la Rèpublique des lettres, VI, Venise 1750, p. 260, e L. Moréri, Le Grand Dictionnaire historique, III, Paris 1744, p. 29). A. Mongitore, nella Bibliotheca Sicula (I, Palermo 1707, p. 121) testimonia che il C. "philosophicam duxit vitam et doctoris lauream contempsit", la quale affermazione, tratta da G. Renda (Elogia Siculorum qui veteri memoria Literis floruerunt, Lugduni 1690, p. 69 e Siciliae Bibliotheca Verus, Romae 1700, p. 60: "vitam duxit philosophicam et coronam lauream sprevit"; si osservi che il Renda sembra l'unico che nel Settecento consideri un solo Callimaco siciliano), poggia su documenti a noi non pervenuti. Il merito di aver tratto fuori dall'ombra il C. spetta ad A. Cinquini (Spigolature fra gli umanisti del secolo XV, C. Siculo, in Miscellanea di storia e cultura ecclesiastica, III[1904-05], pp. 3-14), che tuttavia ignorava sia la lettera al fratello Orlando sia i rapporti col Báthory, questi ultimi noti invece al Di Stefano che pubblicò la Rhegina;ilCinquini vi pubblica le poesie minori del C. (un sonetto per la morte di Serafino Aquilano, che appartiene però ad Angelo Barboglitta da Messina, per il quale vedi ora Dizionario enciclopedico della letteratura italiana, I, Bari 1966, p. 256; la Vita divi Thomae Aquinatis, ilcarme in 20 distici per Federico di Montefeltro e i 24 epigrammi latini). Per i codici delle opere del C. si veda P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, p. 360; II, pp. 90, 103, 126, 143 s.