anfibologia
Il termine anfibologia indica ogni espressione che presenti almeno due significati diversi. La figura retorica corrispondente, detta anfibolia, è chiamata nella latinità anche ambiguum e ambiguitas (Lausberg 1960: §§ 222, 1070; Lausberg 1969: 27, 81; Mortara Garavelli 1997: 134-137).
La Retorica a Gaio Erennio – opera del I sec. a.C. per tradizione attribuita a Cicerone ma in realtà di autore ignoto, il cosiddetto Pseudo-Cicerone – riferisce (II, 16) l’anfibologia ai processi nei tribunali, indicando in particolare la situazione in cui ciò che è scritto (scriptum) comporta un significato, mentre la lettera (sententia) ne comporta due. L’Institutio oratoria di Quintiliano elabora una teoria dell’anfibologia – che chiama ambiguitas – e non la condanna del tutto (VI, 3, 48), specie quando sotto al significato ovvio di un’espressione se ne cela un altro che può esser prova di ingegno, come nelle battute di spirito.
Quando l’anfibologia riguarda le singole parole (in verbis singulis), Quintiliano osserva che le specie di ambiguità sono così numerose da indurre alcuni all’osservazione che non esiste parola senza una molteplicità di significati («nullum videatur esse verbum quod non plura significet», Inst. or. VII, 9, 1) e ne segnala soprattutto gli omonimi; le parole che unite hanno un significato, mentre separate ne hanno un altro (come ingenua e in genua, «libera» e «in ginocchio»); e le parole composte (ad es., per un uomo che vuole essere sepolto in culto loco «in luogo coltivato» o inculto loco «in un luogo incolto»). Ma è nei gruppi di parole (in verbis coniunctis), che si cela maggiore ambiguità. In questo caso, essa verte sull’ordine delle parole, così importante nella grammatica del latino visto che la costruzione accusativo e infinito a seconda della collocazione può creare difficoltà di interpretazione (in italiano un esempio analogo potrebbe forse valere per il clitico lo / la in frasi come ho visto Luca con Gianni e l’ho invitato da noi).
La tarda latinità conferma questa visione dell’anfibologia come errore discorsivo, mentre negli ultimi secoli del medioevo (soprattutto con Goffredo di Vinosalvo) essa sarà scarsamente considerata come vizio del discorso. I tempi sembrano maturi per rendere l’anfibologia disponibile anche come materia narrativa. Nell’Inferno ➔ Dante fa, infatti, dell’anfibologia discorsiva il perno dell’accorato incontro con il padre di Guido Cavalcanti e organizza intorno all’uso anfibologico di un passato remoto una straordinaria tessitura morale e teologica:
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti «elli ebbe»? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora
(Inf. X, 67-72)
Da ➔ Francesco Petrarca in poi l’anfibologia diventa un elemento ricercato sul piano del significante e delle forme poetiche secondo il principio delle parole che si nascondono entro altre parole, in base ai singoli topoi scelti (cioè ai luoghi comuni che attraversano la sua opera come il locus amoenus: è il caso della serie Laura / l’aura / aureo …). Il risultato è una maggiore autonomia del piano formale della lingua italiana rispetto alle lingue dell’antichità classica.
Dell’ambiguità e dell’anfibologia si occupano i linguisti del Novecento, a cominciare da Ferdinand de Saussure, che riconobbe nel variare combinatorio (anagramma) del significante poetico un principio profondo di codificazione ben radicato nella cultura europea. Nello studiare gli autori antichi egli osserva come esistano sul piano del significante alcune cellule fonico-espressive che ritornano variate, nel senso paragrammatico, all’interno di uno stesso testo (ad esempio il nome Venus nel De rerum natura di Lucrezio; o, per venire a ➔ Giacomo Leopardi, l’anagramma del nome Silvia-salivi della prima strofa della poesia “A Silvia”, vv. 1 e 6).
Questa idea corrisponde a un principio funzionale interno alle codificazioni. Le lingue infatti hanno zone di maggiore o minore ambiguità, che dipende dal loro sistema di tessitura formale, sia in senso lessicale, sia in senso sintattico. In italiano espressioni come una vecchia legge la norma, passeggiate pure, fine trasmissione, e altri sintagmi di questo tipo, ammettono almeno due significati a seconda della diversa codifica grammaticale.
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, Milano, Arnoldo Mondadori.
Quintiliano, Marco Fabio (2001), Institutio oratoria, a cura di A. Pennacini, Torino, Einaudi, 2 voll.
Lausberg, Heinrich (1960), Handbuch der Literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung Litteraturwissenschaft, München, Max Hueber Verlag.
Lausberg, Heinrich (1969), Elementi di retorica, Bologna, il Mulino (ed. orig. Elemente der literarischen Rhetorik, München, Hueber 1949; 19632).
Mortara Garavelli, Bice (1997), Manuale di retorica, Milano, Bompiani.
Starobinski, Jean (1970), La puissance d’Aphrodite et le mensonge des coulisses. Ferdinand de Saussure lecteur de Lucrèce, «Change» 6, pp. 91-118.