Warhol, Andy
Un artista che amava la provocazione
Pittore e regista, Andy Warhol è stato il principale esponente della pop art americana. Conosceva tutti i segreti della comunicazione pubblicitaria e della società di massa, e ha saputo sfruttarli per la propria arte. Di questa abilità si è servito anche per trasformare la propria vita e costruire un’immagine da divo prima ancora che da artista
Nato nel 1928 a Pittsburgh da una famiglia di origine ucraina (il suo vero nome è Andy Warhola), lo statunitense Andy Warhol è stato, nell’epoca in cui il consumismo dava vita a una cultura di massa, l’artista che forse più di tutti ha contribuito a dare a quest’ultima un volto artistico. Tra i maggiori interpreti della pop art americana, ha scelto come protagonisti delle sue opere oggetti della vita quotidiana, come per esempio lattine di minestra, dimostrando come anche un bene di consumo quotidiano possa diventare arte. Al contempo le sue opere costituiscono un attacco al ruolo dei mass media, che costringono a consumare tutto troppo in fretta per far sorgere nuovi desideri.
È curioso pensare che sia diventato celebre dipingendo soggetti che non ha inventato ma che ha soltanto copiato, come scatole industriali, fotografie di divi, oppure opere di artisti del passato come Leonardo o Botticelli. Eppure attraverso i suoi quadri Warhol ha offerto un’enciclopedia delle immagini che caratterizzano l’epoca moderna: banconote e ci bi inscatolati in confezioni colorate che contano più di ciò che contengono, divi di Hollywood, come per esempio Marilyn Monroe e James Dean, o immagini catastrofiche di incidenti d’auto.
Pur denunciando il moderno divismo, ossia il culto delle persone famose, con intenti autoironici Warhol ha riprodotto spesso anche la propria immagine e si è comportato in modo eccentrico fino a trasformarsi da artista in divo: famose sono le sue acconciature con capelli bianchi. A questo divismo hanno contribuito involontariamente due drammatici episodi: l’attentato subito nel 1968 da parte di un’esaltata e la morte sopraggiunta a soli cinquantanove anni (nel 1987 a New York) a seguito di un’operazione.
Warhol ha voluto dimostrare che ciò che conta non è la creazione originale ma la tecnica esecutiva, tecnica che da processo artistico diventa processo industriale, produzione in serie con la ripetizione ossessiva di alcuni soggetti. Celebri sono le serie di immagini che riproducono le scatole di minestra Campbell’s®, le bottiglie di Coca-Cola®, le serigrafie (tipo di stampe) di Jacqueline Kennedy ed Elvis Presley, di Lenin e Mao Zedong.
Abbandonata la pittura a olio, l’artista si è dedicato al riporto fotografico su tela e ha ritoccato le immagini con colori volutamente aggressivi e innaturali, come rossi e rosa, in modo da impressionare il pubblico. Le sue opere non hanno la perfezione di uno scatto fotografico, al contrario rivelano colate di colore o segni neri che impediscono all’immagine di essere fredda e impersonale e sembrano al contempo consumarla, ricordando che tutto è solamente un bene di consumo.
Negli anni Sessanta Warhol si è dedicato con successo anche alla regia, contribuendo a rendere famoso il cinema underground (letteralmente «sotterraneo», e dunque sperimentale, prodotto cioè fuori dai circuiti ufficiali, indipendente e realizzato a basso costo).
A New York l’artista aveva radunato giovani disadattati e anticonformisti che condividevano la sua stessa creatività e con loro aveva messo in piedi una specie di fabbrica del cinema (non per caso chiamata Factory «fabbrica»): una vera fucina di idee, dove sono nate opere d’arte e film provocatori e dove ognuno poteva esprimersi liberamente. Di questo gruppo facevano parte anche gli attori sconosciuti dei suoi film, che venivano ripresi mentre mangiano, fumano, dormono o fanno sesso (come in Kiss e Eat del 1963 e in Blue movie del 1968).
Regista originale e amante dello scandalo, Warhol ha attaccato così il puritanesimo americano descrivendo la vita di tossicodipendenti, omosessuali e travestiti. Tecnicamente, in un’epoca in cui si stavano sviluppando i primi effetti speciali, l’artista è tornato a usare la cinepresa in modo statico, a usare pellicole in bianconero e a riprendere scene spesso prive di dialogo e monotone. Perfino la durata dei film è una provocazione: Sleep (1963) dura sei ore mentre Empire (1964) ne dura otto!