GIUSTINIANI, Andreolo
Figlio di Niccolò e di Brancaleona Grimaldi, nacque nell'isola di Chio, allora dominio genovese, secondo alcune fonti nel 1385 e secondo altre nel 1392; in quest'ultimo caso probabilmente poco prima della morte del padre, avvenuta in data anteriore al 20 nov. 1393. Il G. era membro dell'"albergo" Giustiniani, appartenente al ramo dei de Banca.
Il G. si distinse per la passione con la quale si dedicò a raccogliere codici, sculture, medaglie e in generale testimonianze della cultura antica, favorito in questo dalla sua residenza a Chio, importante snodo commerciale dell'area dell'Egeo. Questa passione lo mise anche in contatto con molti umanisti, con i quali ebbe scambi epistolari e rapporti diretti.
Le intense relazioni con il mondo culturale degli umanisti italiani non gli fecero però trascurare i suoi interessi finanziari nella Maona di Chio, dai quali derivava il benessere economico che gli consentiva di dedicarsi all'attività di collezionista: fin dal 1409 i documenti lo presentano attivo protagonista, sia personalmente sia per mezzo di procuratori, delle decisioni della Maona tanto in campo finanziario, quanto in quello dell'amministrazione di Chio.
Nell'esercizio delle sue attività commerciali e finanziarie egli poté contare per molti anni sull'appoggio del fratello Ambrogio. Alla sua morte, avvenuta anteriormente al settembre 1427, il G. si interessò attivamente, in qualità di tutore, anche degli interessi dei nipoti, dei quali almeno uno, Guglielmo, si dedicò in seguito alla mercatura insediandosi a Siviglia. Il G. sposò Carenza Longo, dalla quale ebbe tredici tra figli e figlie.
Il prestigio di cui il G. godeva è attestato, fra l'altro, dal fatto che egli fu uno dei testimoni scelti dal vescovo di Chio per presenziare alla cerimonia con la quale un gruppo di prelati greci fece atto di obbedienza al pontefice romano, svoltasi nella cattedrale di Chio il 25 ott. 1453.
Fino alla fine della sua vita il G. continuò ad arricchire la sua collezione di reperti dell'antichità greca ed è probabile che abbia potuto approfittare in questo senso anche del tracollo dell'Impero d'Oriente che, dopo il 1453, disperse definitivamente gli ultimi rappresentanti della rinascita culturale tardobizantina tra gli insediamenti cristiani dell'Egeo e l'Occidente, immettendo sul mercato degli appassionati una quantità di codici provenienti dalle biblioteche della capitale imperiale, della quale è presumibile che anche il G. abbia approfittato. Si può però ritenere che durante le vicende di quegli anni le preoccupazioni per la grave situazione politica ed economica abbiano almeno in parte distratto dalle sue passioni culturali il G., che non aveva voluto lasciare Chio neanche dietro l'esplicito invito rivoltogli personalmente, nel 1443, dal doge Raffaele Adorno a trasferirsi a Genova. La caduta di Focea nel 1455, con la conseguente perdita delle ricchissime miniere d'allume, comportò infatti un grave danno per la Maona, del quale anche le finanze personali del G. dovettero sicuramente risentire.
Pochi mesi dopo questi fatti, nel 1456, egli morì e le sue spoglie vennero tumulate nel convento di S. Francesco in Chio (con il quale da molti anni aveva rapporti e di cui era stato nominato procuratore nel 1450), in quella cappella di S. Andrea che aveva generosamente beneficato nel corso della sua vita.
Nonostante le difficoltà del momento e la liberalità con la quale il G. ne aveva usufruito, il patrimonio familiare rimase comunque cospicuo e anche dopo la sua morte i figli esercitarono un ruolo di primo piano nelle attività della Maona ancora per vari decenni; in particolare, Angelo e Battista svolsero un'intensa attività finanziaria, mentre Paolo, responsabile del dazio del mastice nel 1476, giunse a essere uno dei governatori della Maona per il 1483.
Frutto della passione da collezionista del G. fu non soltanto una ricchissima collezione di marmi antichi, che l'entusiasmo della cultura umanistica portava ad attribuire acriticamente a Fidia o a Policleto, e di medaglie in metallo prezioso, ma soprattutto una imponente biblioteca che, secondo il suo discendente, Agostino Giustiniani, giunse a comprendere ben 2000 volumi. Tale cifra appare esagerata se si considera, per esempio, che il nucleo originario della Biblioteca Vaticana costituito da Niccolò V comprendeva circa 3000 volumi ed era già motivo di ammirato stupore fra i contemporanei, ma sicuramente la biblioteca personale del G. dovette essere assai ricca, in particolare di rari codici greci, ottenuti presumibilmente dagli esuli dai territori dell'ex Impero romano d'Oriente conquistati dagli Ottomani, tra i quali molti ecclesiastici e intellettuali che avevano portato con sé preziosi codici tratti da biblioteche di monasteri o di famiglie aristocratiche, dei quali erano costretti a disfarsi per procurarsi mezzi di sostentamento. Tale fu con grande probabilità il destino di un codice del XII secolo, contenente il testo della Biblioteca di Fozio, proveniente dalla biblioteca del monastero della Vergine Theotókos tìs Peribléptou di Tessalonica e attualmente conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia, che G. Mercati ha identificato con quello oggetto di uno scambio epistolare fra il G. e Ambrogio Traversari. Il codice, dopo essere stato di proprietà del G., che forse lo acquistò dopo la caduta di Tessalonica in mano turca, nel 1430, era passato per le mani del Traversari e del Bessarione, e quindi confluì a Venezia con il resto della biblioteca del cardinale.
La passione per l'antichità classica e le sue testimonianze portò il G. a entrare, come già detto, in contatto con numerosi rappresentanti della cultura umanistica, cosicché tra i suoi corrispondenti troviamo, oltre ad Ambrogio Traversari, alcuni dei nomi più importanti dell'umanesimo italiano. Uno dei primi appassionati umanisti a stringere rapporti con il G. fu Ciriaco Pizzicolli d'Ancona, che ebbe modo di conoscerlo e di avvalersi del suo prezioso aiuto nelle ricerche nel corso del suo secondo viaggio in Grecia, tra il 1425 e il 1426. I contatti fra i due rimasero assai stretti e fu proprio al G. che il Pizzicolli indirizzò, nel 1444 e nel 1446, alcune lettere che costituiscono documenti fondamentali per la storia dell'area egea in quel periodo. Il 22 maggio 1444 egli descrisse con dovizia di particolari al G. le impressioni riportate dall'udienza concessagli in Adrianopoli dal sultano Murad II e dal suo giovane erede, il futuro Mehmed II, pochi mesi prima della fatale battaglia di Varna che, con la sconfitta dell'armata cristiana, avrebbe di fatto deciso le sorti dell'Europa sudorientale. Le missive del 20 aprile e dell'11 maggio 1446 costituiscono invece un'eccezionale testimonianza "in presa diretta" dell'improvvisa decisione di Murad II di rientrare ad Adrianopoli per riprendere il potere, ceduto al figlio l'anno precedente.
Allo stesso periodo di quelli con il Pizzicolli si deve presumere che risalgano i rapporti con un altro umanista, Giacomo Bracelli, cancelliere della Repubblica genovese. Nel 1432 il Bracelli fu destinatario di un componimento in terza rima nel quale il G., a dire il vero con scarsa felicità poetica, commemora la vittoriosa resistenza opposta da Chio all'attacco della flotta veneziana - verificatosi l'anno precedente nel quadro delle ostilità che coinvolgevano Genova, soggetta alla signoria di Filippo Maria Visconti, nella guerra in corso tra Venezia e il Ducato di Milano -, della quale il G. era stato testimone diretto. Il testo della Relazione dell'attacco e difesa di Scio nel 1431 è stato pubblicato da G. Porro Lambertenghi in Miscellanea di storia italiana, VI (1865), pp. 541-558.
La corrispondenza tra il G. e il Bracelli continuò per diversi anni, con ulteriori scambi di opere sia letterarie, sia artistiche: una lettera del Bracelli, datata 2 luglio 1440, contiene infatti, oltre a una serie di informazioni sulla situazione politica in Occidente con particolare attenzione alle vicende della guerra per il trono napoletano e a quelle del piccolo scisma, riferimenti a uno scambio di composizioni poetiche e, soprattutto, al desiderio del G., che attendeva da Genova l'invio di alcuni codici, di ricevere una copia della traduzione latina di Tolomeo in possesso dell'amico. Si è ipotizzato, a questo proposito, che il G. potesse avere avuto interesse a confrontare quest'opera, della quale il Bracelli sottolineava in anticipo le pecche, con qualche codice greco del geografo venuto in suo possesso. Meno di due anni dopo, il Bracelli sottopose al giudizio del G. la prima redazione di quella Descriptio orae Ligusticae che avrebbe in seguito ampliato su suggerimento di Biondo Flavio, accompagnando l'opera con una lettera nella quale, oltre a fornire informazioni sull'aggravarsi della crisi napoletana, rendeva partecipe l'amico delle apprensioni da lui nutrite, con presago acume politico, per la situazione degli insediamenti genovesi del Levante. Ancora il 15 giugno 1446 il Bracelli indirizzava al G. una missiva dedicata in maggior parte al racconto di una mirabolante esibizione di carattere culturale del giovane erudito spagnolo Ferdinando da Cordova di fronte al doge Raffaele Adorno e alle massime autorità di Genova.
La corrispondenza del Bracelli con il G. non si limitava però a trattare di codici antichi e opere letterarie: il Bracelli coltivava infatti la speranza di poter ricevere in dono qualche esemplare di statuaria classica, e dovette scrivere sollecitando in questo senso l'amico, come porta a pensare la già menzionata lettera del 1440 nella quale, avendo appreso che il G. aveva inviato un gran numero di medaglie di metallo prezioso e di statue antiche in dono a papa Eugenio IV, il cancelliere si scusava per essere stato importuno e invitava il G. a rinviare a migliore occasione l'eventuale dono di marmi antichi con i quali adornare la sua residenza extraurbana. Non furono solo il pontefice e il Bracelli destinatari di doni di così grande valore da parte del G.: tra gli altri illustri beneficiari della generosità con la quale il G. disponeva dei suoi averi vanno sicuramente annoverati, tra gli altri, Ambrogio Traversari, Niccolò Niccoli e Poggio Bracciolini.
Fin dal 1430, il frate francescano Francesco da Pistoia, fermatosi a Chio durante il suo pellegrinaggio verso il Santo Sepolcro, aveva avuto modo di conoscere il G. e di metterlo in contatto con il circolo di umanisti toscani, che aveva informato della sua eccezionale collezione, e proprio al G. si rivolse il Bracciolini alcuni anni dopo, quando tre busti antichi, che il francescano, trattenutosi in Oriente, asseriva di aver acquistato per suo conto a Rodi, scomparvero senza lasciare traccia; il G., lusingato probabilmente dall'attenzione rivoltagli da un così illustre uomo di lettere, cercò di rimediare all'accaduto affidando a Francesco da Pistoia alcune sculture da recare in dono a Poggio, ma il disonesto corriere non effettuò mai la consegna, preferendo vendere le opere a Cosimo de' Medici e scatenando il risentimento del Bracciolini, che vedeva così confermati i sospetti da lui nutriti anche sulla scomparsa del primo carico di marmi antichi, attribuito dall'intermediario all'intervento di un corsaro catalano, come ebbe a ribadire in un'amara missiva indirizzata al Giustiniani.
Nonostante il caso sfortunato, Poggio approfittò comunque dell'occasione per stringere rapporti epistolari con il G., con il quale rimase in corrispondenza amichevole per molti anni, scambiando con lui informazioni relative a manoscritti e opere antiche; tali rapporti si estesero anche ai familiari, come dimostrano i saluti che la moglie e una delle figlie del G. inviavano alla moglie di Poggio e la familiare sollecitudine con la quale quest'ultimo si rivolse al figlio del G., Angelo, dopo la morte del padre, commemorando la figura dell'amico (senza peraltro mancare di ricordare, tra le righe, la promessa che il defunto aveva fatto di inviargli un codice di Dionigi di Alicarnasso).
Della disonestà di Francesco da Pistoia aveva fatto probabilmente le spese anche l'altro illustre umanista toscano in corrispondenza con il G., Ambrogio Traversari. In una lettera del 10 luglio 1435, il generale dei Camaldolesi informava infatti il G. che dei cinque codici che questi gli aveva inviato per mezzo di frate Francesco solo uno (il già citato codice mutilo della Biblioteca di Fozio) era giunto a destinazione fino a quel momento, mentre altri, inviati in precedenza, erano stati rubati; il Traversari, forse meno sospettoso del Bracciolini, era comunque fiducioso che alcuni codici sarebbero ancora pervenuti nelle sue mani, e probabilmente, data la posizione di cui godeva presso Eugenio IV, la sua fiducia era ben riposta, come dimostrerebbe anche la successiva carriera di Francesco da Pistoia, la cui ascesa gerarchica difficilmente sarebbe avvenuta se il Traversari avesse avuto motivi di risentimento nei suoi confronti. È dunque presumibile che i codici di cui si fa menzione nella lettera siano giunti a destinazione, anche se purtroppo l'assenza di inventari coevi della biblioteca del monastero di S. Maria degli Angeli in Firenze ne rende problematica l'identificazione; comunque, anche la sola promessa di un dono di tale importanza aveva suscitato un tale entusiasmo nel Traversari da indurlo a dedicare al G. la traduzione latina del Teofrasto di Enea di Gaza che aveva completato in quel torno di tempo e di cui inviava una copia all'amico insieme con la lettera menzionata. Proprio nella dedicatoria all'edizione di quest'ultimo testo, Agostino Giustiniani, discendente del G., oltre a vantare la sterminata consistenza della biblioteca dell'avo trattava di una presunta visita compiuta nella residenza del G. in Chio dal Traversari durante il ritorno da un viaggio a Costantinopoli, dove si sarebbe recato in compagnia del Guarino e del Filelfo. In realtà, già un semplice esame dei dati biografici di cui disponiamo relativamente alle carriere dei tre umanisti dimostra l'impossibilità del fatto che essi possano essere stati contemporaneamente a Costantinopoli alla scuola di Emanuele Crisolora, ma ancor più la diretta testimonianza delle lettere del Traversari dimostra che egli ebbe con il G. solo contatti epistolari e che non ebbe mai occasione di vedere direttamente la sua famosa biblioteca, della quale altrimenti non avrebbe mancato di lasciare una descrizione come aveva fatto per collezioni assai meno significative incontrate durante i suoi viaggi in Italia, e quindi il racconto di Agostino Giustiniani deve ritenersi una pura invenzione, tendente a esaltare ancor più il prestigio dell'antenato. Al G. fu dedicato pochi anni dopo, nel 1446, anche il dialogo De nobilitate composto dal colto arcivescovo di Mitilene, il domenicano Leonardo di Chio, in polemica con il Bracciolini.
La passione culturale del G., e la ricca biblioteca che aveva lasciato in eredità, influenzarono comunque anche la sua discendenza, nella quale troviamo due tra i principali esponenti della cultura genovese di stampo erudito dell'età moderna, e cioè il già più volte ricordato vescovo Agostino Giustiniani, storico della Repubblica, e l'abate Michele Giustiniani, che dedicò la propria vasta opera di poligrafo alla storia della Chiesa latina in Chio e a vari aspetti della cultura ligure.
Attraverso le parentele che il G. aveva contratto per mezzo dei matrimoni dei figli e attraverso i donativi in favore dei corrispondenti, andarono dispersi i codici della sua favolosa biblioteca. Il prezioso codice contenente la copia autentica di tutti i privilegi sui quali si basava l'autorità e la ricchezza dell'"albergo" genovese passò, probabilmente attraverso il matrimonio di sua figlia Pellegrina con Giuliano di Giorgio Paterio, dapprima ai Paterio e quindi a un altro ramo dei Giustiniani, per giungere infine nella collezione dell'abate C.G.V. Berio e divenire, con il nome di Codex Berianus Chiensis, uno dei manoscritti più pregiati delle collezioni della Biblioteca civica Berio di Genova.
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