VOCHIERI, Andrea
– Nacque ad Alessandria il 15 gennaio 1796 da Giovanni e da Maddalena Casagrande.
Figlio di un notaio alessandrino, originario di Frascarolo Lomellina, compì un biennio di studi presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino. Nel 1821 fu tra i promotori dell’insurrezione alessandrina che portò all’occupazione della Cittadella nella notte tra il 9 e il 10 marzo. Si portò quindi a Casale, con un centinaio di federati alessandrini, nel tentativo di occupare a mano armata il castello. All’indomani dell’8 aprile, Vochieri abbandonò Alessandria e si imbarcò a Genova per Barcellona. Rientrato in patria, una condanna del 26 dicembre 1821 lo mandò per due anni, sotto vigilanza, a Varallo, mentre il fratello maggiore Giuseppe, pure coinvolto nei moti del 1821, venne perdonato dalla commissione d’inchiesta. Da quel momento andarono consolidandosi in Vochieri le tendenze democratiche, che lo avrebbero avvicinato ai principi mazziniani.
Nel febbraio del 1823 sposò Margherita Pereno, con la quale ebbe tre figlie. Svolse la professione di procuratore legale in Alessandria sino a quando, il 2 marzo 1832, grazie all’aiuto del fratello, avvocato con studio a Frascarolo di cui fu sindaco di nomina regia, poté acquistare una piazza per esercitare in proprio.
Vochieri aderì precocemente alla Giovine Italia e alla rete cospirativa che doveva allarmare il ceto dirigente subalpino e Carlo Alberto, da poco salito al trono. Alla fitta trama eversiva, le cui reali dimensioni furono successivamente in parte ridimensionate, il nuovo sovrano reagì con rapidità e intransigenza, grazie anche a regie patenti che, forzando il codice feliciano, affidavano alla giustizia militare e alla rigida disciplina della sua procedura penale anche l’attività istruttoria dei processi contro i civili.
Vochieri fu arrestato nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 1833, insieme all’avvocato Gilardenghi, per delazione di un sergente. Considerato particolarmente pericoloso, in quanto ritenuto responsabile di aver esteso le fila della cospirazione nell’esercito, Vochieri fu rinchiuso in un’angusta cella della caserma Beleno nella Cittadella di Alessandria, comandata da Gabriele Galateri di Genola, governatore della divisione.
A condannarlo, nel corso del processo istruttorio, furono, oltre alle confessioni – le cosiddette propalazioni – di quattro furieri, anche le invettive antisabaude rivolte a Carlo Alberto, da lui mai ritrattate, e contenute nel celeberrimo testamento politico e spirituale, scritto in carcere «agli Italiani, fratelli» in favore di un’Italia unita. Ispirato da provata ‘fede mazziniana’, affermando di non aver voluto riscattare la vita «dal tiranno piemontese» con il tradimento e lo spergiuro, Vochieri si professava «vero e costante figlio della Giovine Italia», invitando i compagni di lotta a sacrificare il proprio sangue per la libertà, indipendenza e rigenerazione della patria infelice. Nel testo, il condannato rivendicava di morire sereno per non avere tradito e compromesso i compagni in cambio della vita. Durante la prigionia egli infatti «resistette alle pressioni più pesanti (per non dire torture, vietate da poco proprio da Carlo Alberto)» (Pene Vidari, 2011, p. 81) e con stoica fermezza non rivelò i nomi dei ‘fratelli’: ciò che invece fecero tutti i detenuti con lui, tra i quali i delatori Giovanni Re, Paolo Pianavia, Gilardenghi, Giuseppe Menardi, Domenico Ferrari.
Condannato il 20 giugno a morte ignominiosa per delitto di alto tradimento, fu giustiziato alle 7,30 del mattino del 22 giugno 1833 ad Alessandria, sulla piazza d’armi fuori porta Marengo.
Sul luogo dell’esecuzione era stato scortato, per scelta di Galateri, da un picchetto accompagnato da un tamburo maggiore e dodici tamburini, affinché gli fosse impedito di farsi sentire dal popolo. La successiva tradizione democratica riportò che il corteo, con una deviazione, fu fatto passare sotto le finestre di casa Vochieri, dov’erano la moglie, la sorella e le figlie. Secondo Angelo Brofferio «non soldati si destinarono a fucilarlo ma guarda ciurme» inesperti di esecuzioni, che lo falcidiarono con undici spari rendendo però necessario un colpo di grazia alla tempia, che gli fracassò il cranio. L’informe cadavere fu gettato nei fossi del bastione; e «si vegliò a che quelle spoglie mortali non fossero segno a pubbliche dimostrazioni; ma nel giorno seguente il suo sepolcro, malgrado la guardia gelosa, era coperto di rose» (Faldella, 1897).
Subito all’indomani della sua morte, Vochieri assurse al pantheon dei ‘martiri mazziniani’. Fu lo stesso Mazzini a rivendicarne per primo la memoria, accogliendo la dichiarazione resagli da Re e pubblicando già nel 1834 i dettagli della terribile prigionia. Da essi prese avvio la tradizione democratica dell’immagine martirizzata di Vochieri, tesa a diffondere la versione per cui il prigioniero sarebbe stato sottoposto non solo a pressioni, ma anche a sevizie: per Atto Vannucci, Galateri aveva usato «trattamenti bestiali» per indurre Vochieri a rivelare i nomi dei complici. Data per certa la durezza della repressione, amplificare l’immagine crudele del governatore era certamente funzionale a una narrazione dicotomica, in cui la figura tetragona del carnefice, simbolo della reazione monarchica, esaltava ancor più la nobile ed eroica resistenza del ‘martire’.
Se la figura di Vochieri conobbe una prima riabilitazione pubblica dopo il 1848, con l’erezione di un monumento nel cimitero urbano (1855), nel 1870, in un momento di grandi agitazioni sociali e rivendicazioni democratiche, inaspritesi con la condanna di Pietro Barsanti, egli tornò a essere simbolo vivente del ‘martirio repubblicano’, come attestarono le migliaia di manifestanti accorsi ad ascoltare, il 26 giugno, la commemorazione politica resa da Felice Cavallotti di fronte al monumento, spostato per l’occasione nei giardini pubblici. Se sulla memoria di Vochieri si proiettò ancora a lungo un’accesa diatriba politica, nel centenario della morte, grazie soprattutto ai nuovi studi di Alessandro Luzio e Eugenio Passamonti, si consolidava l’interpretazione voluta dal fascismo di un Vochieri simbolo di eroismo italico, e al contempo iniziava la riabilitazione di Galateri.
La vedova di Vochieri gli sopravvisse cinquantadue anni: morì il 16 dicembre 1885 e volle essere sepolta nella stessa fossa che aveva accolto le spoglie traslate del consorte.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Segreteria di Stato per gli Affari Interni, Alta Polizia, Moti del 1821; Gabinetto di Polizia, 1833, Alessandria; Processi politici, 1830-1835.
A. Brofferio, Storia del Piemonte dal 1814 ai nostri giorni, Parte terza, Regno di Carlo Alberto, I, Torino 1850, passim; A. Vannucci, I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, II, Torino 1850, pp. 133-137; A. V., in Almanacco Nazionale per il 1852. Pubblicazione della Gazzetta del Popolo, Torino 1852, pp. 61-67; C.A. Valle, Storia di Alessandria dall’origine ai nostri giorni, III, Torino 1854, passim; F. Cavallotti, Poesie, Milano 1870, pp. 140-144; Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, III, Roma 1877, pp. 326-333; G. Faldella, I fratelli Ruffini. Storia della Giovine Italia, V, Martiri borghesi, Torino 1897, pp. 532 s.; A. Luzio, Carlo Alberto e Mazzini, Torino 1923, pp. 124-127, 156 s.; E. Passamonti, Un diario alessandrino inedito del 1833, Casale Monferrato 1927; Id., Nuova luce sui processi del 1833 in Piemonte, Firenze 1930; Id., Il processo di A. V., Pinerolo 1931; M. Mozzati, La “Giovine Italia” e A. V., Milano 1933; A. Bersano, L’abate Francesco Bonardi e i suoi tempi. Contributo alla storia delle società segrete, Torino 1957, ad ind.; Il processo ad A. V., Alessandria 1976, pp. 7-30; G. Marsengo - G. Parlato, Dizionario dei piemontesi compromessi nei moti del 1821, II, F-Z, Torino 1986, pp. 278 s.; V. e Galateri, a cura di U. Boccassi - A. Cavalli, Alessandria 2005; G.S. Pene Vidari, A. V. (1796-1833), in Avvocati che fecero l’Italia, a cura di S. Borsacchi - G.S. Pene Vidari, Bologna 2011, pp. 77-89.