MONTE, Andrea
MONTE, Andrea. – Rimatore fiorentino vissuto nella seconda metà del secolo XIII.
Di lui rimangono 11 canzoni e un centinaio circa di sonetti, quasi tutti conservati esclusivamente dal manoscritto della Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat., 3793, in cui l’autore viene chiamato, unico caso in tutto il pur voluminoso codice, familiarmente Monte (anzi, «Mō», con abbreviatura) senza ulteriori precisazioni. Questo elemento ha fatto sospettare a diversi studiosi una partecipazione diretta da parte del poeta all’allestimento dell’antologia.
Dopo un primo tentativo di identificazione con il ghibellino Monte di Andrea di Ugo Medici, iscritto a Bologna alla Società dei Toschi nel 1259 e cacciato da Firenze come ghibellino nel 1268 e poi definitivamente nel 1280, la sua figura è stata definitivamente riconosciuta nel Monte Andrea il cui nome ricorre ripetutamente in documenti d’archivio bolognesi (mentre mancano ad oggi prove d’archivio che forniscano informazioni relative alla sua vita a Firenze). Il primo in ordine cronologico di tali documenti è un contratto del 1° marzo 1267 in cui il poeta appare come testimone, dopo di che lo si ritrova citato con continuità sino al 1274. Nel febbraio 1273 cede ad altra persona i diritti acquisiti contro un sarto bolognese a seguito del prestito di una piccola somma di denaro e, analogalmente, nel marzo del 1274 cede a Tommaso di Giacomo di Crevalcore l’usufrutto di altri diritti acquisiti presso vari cittadini sempre di Bologna. Questi due documenti hanno fatto supporre che la professione di Monte fosse quella di banchiere e cambiatore (sarà quindi una semplice supposizione priva di motivazioni l’appellativo ‘ser’, tipico dei notai, che il codice della Bibl. apost. Vaticana Chigiano L.VIII.305, della metà del Trecento, gli appone in una didascalia). Probabilmente proprio in conseguenza di un rovescio professionale Monte dovette subire delle forti perdite economiche che ne minarono la situazione patrimoniale: l’elemento, non documentato direttamente, è però lo spunto autobiografico che sta alla base di un gruppo di sue canzoni, ovvero Tanto m’abonda matera, di soperchio; Ancor di dire non fino, perché; Ahimè lasso, perché a figura d’omo (canz. VIII, IX e X, ed. Minetti, l’ultima diretta al poeta aretino Monaldo da Soffena), in cui il tema degli improvvisi mutamenti della fortuna provoca una riflessione, in un’ottica ideologicamente molto moderna, circa il rapporto tra ricchezza economica, valori morali e ruolo sociale. Soprattutto importante, sempre in questa chiave, è lo scambio di canzoni con l’altro grande poeta fiorentino di fine Duecento, Chiaro Davanzati (destinatario anche della già citata Ancor di dire): la sequenza, secondo Minetti, è aperta dalla canzone di Monte Più soferir no·m posso ch’io non dica (canz. VI), definita dal poeta «Cordoglio» e indirizzata, oltre che ancora una volta a Monaldo da Soffena, a un «Fornaino» (vv. 138-139: «Al gentile ommo e sag[g]io, mio Cordolglio, / te·n ve’ a Fornaìno ») che secondo Margueron è da intendere come toponimo («Formena», ossia S. Firmina, parrocchia nei pressi di Arezzo) e indicherebbe Guittone d’Arezzo (contrario all’ipotesi è però Minetti). Comunque sia, è Chiaro Davanzati a cogliere lo spunto della canzone montiana e a replicare (A San Giovanni, a Monte, mia canzone, canz. VIa), invitando l’amico a non abbandonarsi alla disperazione e a confidare nel mutare della sorte. La replica di Monte (Or è nel campo entrato tal campione, canz. VII) chiude definitivamente la questione respingendo come inutili i generici consigli consolatori di Chiaro (vv. 86- 87: «Perch’io tanto mi scoro, / lo tuo consilglio fior seguir non oso»).
Al medesimo intento di Chiaro Davanzati (e quindi alle stesse circostanze biografiche) è da ricondurre anche la lettera in prosa che al M. indirizzò Guittone d’Arezzo: in essa l’aretino, ormai da tempo entrato nell’ordine dei Frati Gaudenti, cerca di rinfrancare il suo «Bono e diletto amico Monte Andrea» dalla «doglia» di aver perso il proprio denaro, ricorrendo a passi vetero- e neotestamentari e ad alcuni classici latini. Anzi, il nucleo ideologico della consolatoria risiede proprio nell’evocazione della povertà come situazione da perseguire idealmente da parte dei filosofi e dei credenti («E si de fatto guardiamo, filosofi amaro a tenere povertà, e Cristo anche in sé e in li suoi [...], e mostrando povertà buona e riccore reo», Guittone d’Arezzo, Lettere, p. 41) e quindi nell’idea che la perdita del denaro sia un’occasione proficua e quasi desiderabile («Vostra moneta perduta côrrete poco, e penserete de fango acquistare auro, cioè d’auro vertù», ibid., p. 45). Monte era stato anche il destinatario del sonetto di Guittone A te, Montuccio, ed algli altri, il cui nomo (son. 69a, ed. Minetti; il diminutivo sarà evidentemente sintomo di affettuosa familiarità), in cui il frate, ricorrendo alla metafora dei «pomi [...] venenosi» e di quelli che sono «trïaca» (ossia medicamentosi), esortava il proprio corrispondente e l’ambiente letterario a cui esso apparteneva a non leggere né divulgare le poesie amorose giovanili: esortazione che però, stando alla risposta del fiorentino (Poi non son sag[g]io sì che ’l prescio e ’l nomo, son. 69), cadde nel vuoto.
La permanenza a Bologna di Monte dovette essere non episodica, tant’è vero che il poeta si trova nominato in una «venticinquina », ossia in uno degli elenchi (redatti nelle cosiddette cappelle, le circoscrizioni in cui si suddivideva amministrativamente la città) che contenevano i nominativi degli uomini adatti alle armi presenti in città. In questo documento, risalente al 1273, viene ricordato tra i pedites, i fanti, della cappella di S. Maria della Baroncella, nel quartiere di Porta Procola, dove perciò risiedeva. Un rogito del 1270 in cui appare come testimone lo mette invece in contatto diretto con la potente famiglia dei de Savignano, suoi vicini di casa e in stretti rapporti anche con Guittone. Alla base del trasferimento a Bologna del Monte, anche se non è detto che ne sia stata l’unica motivazione, saranno comunque da porre con ogni probabilità le sue esplicite simpatie filoguelfe e, anzi, precisamente filoangioine. Di una tale posizione politica è rinvenibile traccia precisa in un gruppo di tenzoni che si succedono nel Vat. lat. 3793.
La prima è formata da tre sonetti e coinvolge un rimatore anonimo. Occasione dello scambio sono le mire di un gruppo di aspiranti al trono che fu già di Federico II di Svevia e poi di Manfredi e Corradino. Nel sonetto di avvio della tenzone Monte nomina come pretendenti all’Impero il «re di Spangna» Alfonso X d’Aragona, il «buon re Ric[c]iardo» di Cornovaglia, «Federigo di Stuffo», cioè Federico III Hohenstaufen, figlio di Margherita (a sua volta figlia di Federico II) e di Alberto di Turingia, e il «Re di Büem» Ottokar II di Boemia (Per molta gente par ben che si dica, son. 63, vv. 2, 3, 5, 8), prennunciando però che tutte le loro ambizioni risulteranno frustrate dall’opposizione strenua del «campion sam Piero» (ibid., v. 12), ovvero proprio di Carlo d’Angiò. Al sonetto l’ignoto interlocutore replica ribadendo la legittimità delle pretese dei quattro («Se Federigo il terzo e re Ric[c]iardo, / co lo re di Büeme per atare, / intendon ne la corona, già bastardo / nesun di lor dé l’om per ciò chiamare: / ché, di ciascun, suo antices[s]or non tardò / d’ave’ ·r sengnore, ed in alto montare»; Se Federigo il terzo e re Ric[c]iardo, son. 63a, vv. 1- 6) ma sostenendo in particolare la candidatura di Alfonso d’Aragona. Il sonetto conclusivo di Monte (De la romana Chiesa, il suo Pastore, son. 64) ribadisce l’assoluto primato di Carlo, nel suo ruolo di «guardatore» dell’Impero per conto della «romana Chiesa» (ibid., vv. 5 e 2), circa ogni decisione relativa alla successione del trono. L’allusione in particolare alle mire di Federico III ha permesso a Minetti di collocare cronologicamente la tenzone a ridosso del periodo che va dall’ottobre 1269 al luglio 1271, quando il giovanissimo principe annunciò una sua imminente discesa in Italia a difesa di Pavia poi mai verificatasi.
Successiva nel codice Vaticano ma di sicuro precedente dal punto di vista cronologico è la tenzone con il rimatore fiorentino e ghibellino Schiatta Pallavillani (con cui Monte ha corrisposto anche su temi amorosi). In modo piuttosto eccezionale entro il panorama della lirica italiana (mentre è usuale nell’ambito di quella provenzale), lo scambio avviene all’interno di un sonetto doppio, così che le voci dei due interlocutori si alternano entro lo stesso testo, in un caso scrivendo ciascuna un distico delle quartine e una ciascuna delle terzine, nell’altro con Schiatta che si aggiudica una porzione maggiore della fronte (due quartine e un distico contro i tre distici di Monte). La tenzone si può collocare cronologicamente nel 1267: in essa infatti Monte cerca di placare gli entusiasmi partigiani del suo interlocutore, conseguenti alla recente «alezion ch’è fatta ne la Magna » dell’«Angnello», soprannome evidentemente denigratorio (a sottolinearne la debolezza conseguente alla giovane età) di Corradino di Svevia (Non isperate, ghebellin’, socorso, son. 73, vv. 2 e 9), destinato a essere letteralmente divorato da Carlo d’Angiò. Schiatta, per contro, preconizza la vendetta di Corradino su tutti gli infedeli sudditi dell’Impero e, in particolare, come ovvio, sull’odiato Angioino. La tenzone si chiude con un sonetto in cui Monte insiste sulle metafore animali (ulteriormente degradanti, nel confronto tra il «leone » Carlo e la «capra» Corradino: S’e’ convien, Carlo, suo tesoro elgli apra, son. 75, v. 7) e sul motivo della inevitabile vittoria del francese.
A ridosso dell’epoca dell’elezione di Rodolfo d’Asburgo (che venne nominato re di Germania e d’Italia nel 1273) sarà da ricondurre la tenzone con ser Cione (anche lui in altra occasione corrispondente in sonetti amorosi con lo stesso Monte). Cione propone al proprio interlocutore, neutramente, la questione della legittimità della pretesa del neoeletto imperatore (ricordato con la perifrasi «la spada larga»; Venuto è boce di lontan paese, son. 79a, v. 10) di dominare sull’Italia (preconizzando però l’inevitabilità che «sangue si sparga», v. 12). Al solito Monte reagisce proclamando l’indiscusso diritto di Carlo (detto «Lo Campione» per antonomasia; I baron’ de la Mangna àn fatto impero, son. 79, v. 26) a non cedere il titolo di vicario imperiale, cosa che invece fu costretto a fare il 24 settembre 1278 da papa Niccolò III: anzi, secondo Minetti, il fatto che Cione affermi che «Forse [si] conver[r]à che lo franzese / lasci al tedesco ond’e’ vacant’è stato!» (Venuto è boce, vv. 7-8) permetterebbe una datazione proprio a ridosso di quell’episodio. Ultima delle tenzoni politiche, e anche la più ampia e retoricamente complessa, è quella che si diffonde per un totale di 17 sonetti e vede interlocutori di Monte oltre ai già citati ser Cione e Chiaro Davanzati anche ser Beroardo, Federigo Gualterotti e Lambertuccio Frescobaldi, il quale ultimo a partire dal sesto sonetto della serie diventerà di fatto l’antagonista unico del nostro. Il sonetto di avvio della tenzone (costruito su due sole rime ricche, campo e corso), in cui poeta si schiera come al solito a favore della legittimità delle pretese di Carlo di Valois, legittimità acquisita sul campo grazie alle vittorie sui suoi nemici, con evidente allusione a Manfredi e Corradino («Ma’ sempre’ e’ ver’ li suoi nemici à cor-so!; / e già no stanca, né riman nel corso: / lo ver cernisce, com’ ciascuno è corso!»; S’e’ ci avesse, älcun sengnor più, [’n] campo, son. 97, vv. 11-13) è indirizzata al fiorentino Pallamidesse di Bellindote, pure lui altrove dichiaratamente filocarlista, e che dovrebbe, secondo Monte, dare «al “Merlin” [...] corso» (v. 14), con allusione alla diffusa Prophetia Merlini, letta spesso in Italia in quegli in chiave di libello antighibellino. Pallamidesse non dà ricevuta dell’invito e non replica al sonetto: al suo posto intervengono ser Cione prima e poi un certo ser Beroardo notaio: entrambi predicono la futura sconfitta (anzi, per Cione addirittura la fuga vigliacca) di Carlo nel momento in cui dovrà affrontare l’esercito di «que’ che, de la Mangna, sua pos[s]anza / presentemente la viene a mostrare». (Cione, A quel sengnor, cui dài tal nominanza, son. 97a, vv. 5-6). Il riferimento a «que’[...] de la Mangna» e, altrove, alle «spade tedeschine» (Beroardo, D’acorgimento prode siete, e sag[g]io, son. 97b, v. 9) e forse la stessa immediata reazione di Cione consentono di collocare la tenzone nello stesso contesto politico in cui si muoveva lo scambio precedente, ossia a ridosso dell’elezione di Rodolfo d’Asburgo. A fianco di Monte si schiera un non altrove conosciuto Federigo Gualterotti (che peraltro, nel suo sonetto Chi di cercare sengnore si sag[g]ia, son. 97c, riprende l’artificio iniziale di utilizzare solamente due rime ricche) mentre al coro dei suoi avversari si unisce l’altrove amichevole Chiaro Davanzati. Come si diceva, a partire dal sesto sonetto della serie, l’intervento di Lambertuccio Frescobaldi trasforma la tenzone in uno scambio a due che si complica progressivamente dal punto di vista tecnico, facendone il caso più complesso di tutta la letteratura italiana delle origini: basti ricordare che nel suo ultimo sonetto (Com’ fort’è - forte, - ë [t]raforte, - l’ora, son. 102a) Lambertuccio arriva a inserire in ogni endecasillabo tre rime ricche e in ogni settenario (si tratta di un sonetto rinterzato) due.
La maggior parte della produzione poetica di Monte è però prevalentemente amorosa, caratterizzata anch’essa in linea di massima da un uso intensissimo di artifici retorici in linea con gli esperimenti più estremi di Guittone d’Arezzo. Particolare attenzione è prestata al lato sensuale e addirittura carnale dell’esperienza amorosa, in stretta consecuzione con le esperienze occitane (esemplare in questa direzione la canzone Oi dolze amore, canz. III). Altrettanto presente, a partire da una visione (anch’essa tradizionale) di Amore come signore crudele e potenza distruttiva esplicitata soprattutto nella tenzone con Tomaso da Faenza (in particolare Ai doloroso lasso, più nom posso, canz. IV), il motivo del dolore amoroso, anche nella forma della tenzone fittizia in dialogo con Amore (sonn. 85-96). Infine non va scordata la presenza di sonetti (ad es. Qui son fermo: che ’l gentil core e largo, son. 788 o Tutta gente fate maravilgliare, son. 82) che dimostrano una precoce assimilazione (avvenuta probabilmente proprio a Bologna) della lezione di Guido Guinizzelli.
Dal punto di vista metrico, va ricordato il ricorso di Monte a una variante dello schema classico del sonetto che prevede l’aggiunta di due versi nelle quartine, così che il componimento risulterà di 16 versi anziché 14, variante nota appunto dai manuali come «di Monte Andrea».
Opere: Le rime, ed. critica a cura di F.F. Minetti, Firenze 1979.
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