MEMMO, Andrea
– Nacque a Venezia il 29 marzo 1729, figlio primogenito di Pietro del ramo di S. Marcuola (Ss. Ermagora e Fortunato) e di Lucia Pisani. Ebbe due fratelli: Bernardo, nato nel 1730, e Lorenzo, nato nel 1733.
Discendente di una delle prime 24 famiglie del Libro d’oro del patriziato veneziano, fu avviato dallo zio Andrea Memmo, figura già eminente nel governo della Repubblica, verso quegli studi che gli avrebbero permesso di partecipare a sua volta alla gestione del governo. La sua vivace intelligenza lo condusse a oltrepassare i limiti della tradizione culturale dell’aristocrazia veneziana: attraverso le frequentazioni giovanili con l’abate Antonio Conti, Apostolo Zeno, Gasparo Gozzi, Scipione Maffei e Giovan Rinaldo Carli entrò ben presto in contatto con gli ambienti culturali più avanzati. Suo primo maestro fu probabilmente p. Eugenio Mecenati; maggiore fu tuttavia l’influsso del frate Carlo Lodoli, che dagli anni Trenta aveva istituito una sorta di accademia informale, destinata ai giovani aristocratici veneziani, al fine di educarli all’arte del governo e alla direzione della cosa pubblica. Da Lodoli, di cui fu allievo fedelissimo, mutuò anche un vivo interesse per le arti, e in special modo per l’architettura: suo fu nel 1756 l’invito a F. Algarotti affinché provvedesse a dare alle stampe le teorie in questa materia enunciate, e mai pubblicate, dal frate.
Tra il 1753 e il 1758 fu coinvolto in un’appassionata, quanto contrastata, relazione con Giustiniana Wynne, figlia di una veneziana di origine greca e del baronetto inglese sir Richard: dai vivaci carteggi intercorsi tra i due amanti, spesso forzatamente separati, emerge un forte e costante interesse per la Francia degli enciclopedisti. Negli stessi anni condivideva l’interesse per la cultura francese anche con Giacomo Casanova, allora tornato da Parigi, con il quale progettò – senza esito – di mettere in scena a Venezia opere teatrali in lingua francese. Di Casanova, frequentato insieme con il fratello Bernardo, fu stretto amico e da lui forse iniziato alla massoneria; sarebbero rimasti in contatto epistolare tutta la vita, nonostante proprio una denuncia della madre del M., preoccupata delle cattive compagnie dei figli, contribuì alla incarcerazione di Casanova (1755). Stretti e duraturi furono in quegli anni giovanili i rapporti con il mercante inglese, poi console a Venezia, Joseph Smith, seppure complicati dalla relazione con la Wynne (a un certo punto promessa sposa di quest’ultimo): la ricca biblioteca e le collezioni di dipinti che formavano il «Museo Smithiano» costituirono per il M. una scuola dove approfondire il suo interesse per le arti; fu allora che entrò in contatto con l’architetto Antonio Visentini. Dei suoi gusti, orientati verso il partito dei «moderni», è testimonianza l’omaggio di C. Goldoni, che nel 1750 dedicò L’uomo di mondo (Mòmolo cortesan) al M. e ai suoi fratelli.
Un ritratto degli orientamenti del M. alla fine degli anni Cinquanta è ricavabile dal suo Il piano generale per una Accademia sopra le belle arti del disegno (trascritto a cura di A. Cipriani - S. Pasquali in Saggi e memorie di storia dell’arte, 2007, vol. 31), compilato su richiesta di uno dei Riformatori dello Studio di Padova, Francesco Lorenzo Morosini, alla fine del 1758. Prendendo a riferimento l’Introduzione di Diderot e D’Alembert all’Encyclopédie, da lui esplicitamente citata, il M. individua nel miglioramento delle produzioni artistiche a Venezia un modo per accrescere, attraverso un più ampio commercio delle opere d’arte, la ricchezza generale dello Stato; l’insegnamento del disegno offerto dall’Accademia è allargato agli artigiani, al fine di migliorare la produzione delle stoffe stampate e, in genere, di ogni altra tradizionale produzione veneta. Per l’architettura, la sua riforma – perseguita attraverso l’introduzione di studi regolari che comprendevano, tra l’altro, la lettura di Vitruvio e lo studio della resistenza dei materiali – era volta a rendere le fabbriche più durevoli. La ricercata eccellenza dell’arte è considerata strumento utile per contrastare il declino economico della Repubblica.
Nel 1759 iniziò la sua carriera nell’amministrazione dello Stato, in qualità di savio agli Ordini, progredendo poi regolarmente verso incarichi sempre più rilevanti. Nel 1761-63 non è documentata la sua adesione al «partito rivoluzionario» guidato da Angelo Querini e formato da quanti volevano restituire autorità al Maggior Consiglio, sebbene vi avessero aderito aristocratici a lui vicini, quali il fratello Bernardo e Francesco Morosini. Dal 1763 al 1769, fatti salvi i previsti periodi di contumacia, fu continuativamente eletto savio di Terraferma; con questa carica si occupò di riordinare prerogative e usi in occasione delle visite di Stato e seguì – su indicazione di Andrea Tron – la spinosa contesa con la corte di Vienna relativa al servizio postale tra i due paesi. Nel 1769 fu eletto tra i Savi del Consiglio ed entrò a far parte del Senato; nello stesso anno sposò Elisabetta Piovene, dalla quale ebbe le figlie Lucia e Paolina. Nel 1771 fu eletto tra i Provveditori della Giustizia vecchia e, tra i suoi compiti, ebbe quello di partecipare alla deputazione straordinaria alle Arti, istituita in quell’anno con il compito di limitare i privilegi delle corporazioni, al fine di liberalizzare l’accesso alle professioni e aumentare la concorrenza commerciale all’interno dello Stato. Quale segretario della deputazione s’impegnò nel riordinamento della materia, ma i suoi tentativi di riforma furono resi vani dalla mancata presentazione delle proposte in Senato (1773), nonostante l’apparente appoggio di Andrea Tron.
Dopo questo insuccesso politico, il suo impegno al servizio dello Stato si svolse tutto al di fuori di Venezia. Dal 1775 al 1776 fu provveditore di Padova, dove i suoi giovanili interessi per le teorie architettoniche di Lodoli trovarono modo di esprimersi in una grandiosa opera di utilità pubblica.
Il grande sterrato del Prato di Valle, di fronte alla basilica di S. Giustina, tradizionale sede di fiere e mercati, fu da lui trasformato – con l’ausilio dei disegni dell’architetto e abate Domenico Cerato – in una piazza monumentale che esaltava insieme la tradizione civica e il progredire dei commerci. Irregimentate le acque stagnanti attraverso un canale che correva attorno, lo spazio ovale centrale ospitava chioschi in legno (dei quali sono noti vari progetti) in occasione del mercato; il carattere monumentale dell’insieme è dato dagli obelischi decorativi e dalle decine di statue, realizzate in pietra d’Istria. Queste, a norma del suo progetto finanziario – non meno importante e innovativo di quello architettonico – furono erette per pubblica sottoscrizione da quanti furono da lui invitati a celebrare un antenato illustre connesso alla storia di Padova o alla sua Università. La riuscita dell’impresa lo impegnò, con una fitta corrispondenza, per tutta la vita.
Il 9 marzo 1777 fu nominato bailo a Costantinopoli, come già lo era stato il suo omonimo e celebre zio; vi giunse nel settembre 1778. Nel corso della missione diplomatica, priva di questioni politicamente rilevanti, continuò a coltivare l’interesse per l’architettura: su suo disegno fece ricostruire la sede dell’ambasciata veneziana a Pera (oggi perduta), proponendo le riconoscibili forme di una villa palladiana. Nel 1781 fu nominato ambasciatore presso la S. Sede; vi arrivò nella primavera del 1783 e ripartì nel settembre 1786, essendo stato eletto nel frattempo (come già lo zio Andrea) procuratore di S. Marco (2 luglio 1785). Anche durante questo suo secondo incarico diplomatico, dal momento che le questioni aperte tra la S. Sede e la Repubblica erano poco rilevanti, il M. ebbe tempo per dedicarsi ai suoi studi.
Inizialmente tentò di scrivere, insieme con l’abate Ercole Bonajuti, una storia dell’architettura. Quindi, la frequentazione dell’ambasciatore spagnolo José Nicolas de Azara, protettore dell’allora celebre teorico dell’architettura Francesco Milizia, e la lettura delle opere complete di F. Algarotti lo invogliarono a raccogliere e pubblicare in modo sistematico l’opera teorica di Lodoli. Per tramite di amici e corrispondenti, fece accurate ricerche per reperire le carte superstiti del frate a Venezia, acquistò e lesse i principali libri d’architettura, dando finalmente alle stampe a Roma nel 1786, in forma anonima, la prima parte dell’opera: Elementi dell’architettura lodoliana. La seconda parte, dichiarata da lui già compilata nel 1788, fu pubblicata solo nella riedizione che dell’opera curò la figlia Lucia a Zara in due volumi tra il 1833 e il 1834. Critico della versione edulcorata che dei suoi insegnamenti aveva dato Algarotti nel 1757, il M. restituisce a Lodoli la radicalità del suo pensiero: l’architettura riformata si sarebbe dovuta basare non più sulla tradizione o sulla storia, ma sulla sola ragione, riconoscendo quindi nella natura dei materiali –indagati scientificamente – i distinti modi con cui si sarebbero dovute elaborare le sue nuove e semplici forme. L’eccesso di erudizione e le digressioni nel testo, nonché il ritardo con cui l’opera fu pubblicata nella sua interezza non ne facilitarono la diffusione; soltanto nel XX secolo, riacceso l’interesse verso Lodoli – considerato uno dei padri del funzionalismo del movimento moderno – l’opera è stata oggetto di rinnovato interesse.
In occasione delle cerimonie organizzate nel 1787 a Venezia per la sua elezione a procuratore, il M. pubblicò una serie di apologhi, in parte di Lodoli e in parte composti nello spirito lodoliano dal fratello Bernardo e da Melchiorre Cesarotti (Apologhi immaginati, e sol estemporaneamente in voce esposti agli amici suoi dal fu fra Carlo de’ conti Lodoli…, Bassano 1787); poco dopo ebbe occasione di difendere Lodoli contro le critiche di Pietro Zaguri (Riflessioni sopra alcuni equivoci espressi… in difesa del fu Carlo Lodoli, Padova 1788) e nel 1790 criticò il progetto di G. Selva per il teatro della Fenice a Venezia (Semplici lumi tendenti a render cauti i soli interessati nel teatro da erigersi nella parrocchia di S. Fantino…, Venezia 1790).
Vedovo dal 1780, il M. pensava di sposare Contarina Barbarigo – dagli anni Sessanta sua amante e, grazie ai suoi insegnamenti, divenuta architetto dilettante –, ma poi rinunciò. Nel 1789 fu fatto il suo nome come possibile candidato al dogado, ma le limitate rendite di famiglia – con cui aveva dovuto fare i conti tutta la vita – resero questa ventilata elezione null’altro che un omaggio alla sua autorità morale. Nell’agosto 1790 terminò il mandato di procuratore.
Il M. morì a Venezia il 27 genn. 1793.
Fonti e Bibl.: Roma, Collezione privata A. di Robilant, Carte Memmo; Arch. di Stato di Venezia, Inquisitorato alle arti, b. 2, f. IV: Storia della Deputazione straordinaria alle Arti; Inquisitorato sopra la regolazione delle arti, Registri scritture, 8, 1-4; Cerimoniali, Scritture ed inserte circa cerimoniali e deputati nelle venute di principi del n. h. ser A. M. fu Savio di Terra Ferma ai Cerimoniali; Arch. di Stato di Firenze, Acquisti e doni, filza 94, ins. 146 (78 lettere del M. a Giulio Perini); Ashland, VA, Randolph-Macon College Library, James Rivers Childs Collection (varie lettere indirizzate al M.); V. Radicchio, Descrizione della generale idea concepita… sul materiale del Prato, che denominavasi della Valle, onde renderlo utile…, Roma 1786; Elogio di A. M., cavalier procuratore di S. Marco, Venezia 1793; Nuovo dizionario istorico, XI, Bassano 1797, pp. 222 s.; M. Cesarotti, Sopra la patria del Mantegna, Relazione XIV, parte V, in Id., Opere complete, XVIII, Pisa 1803, pp. 148 s.; B. Gamba, Galleria dei letterati ed artisti illustri delle province veneziane nel sec. XVIII, Venezia 1824, II, s.v.; P. Molmenti, Un nobil huomo veneziano del sec. XVIII, in Id., Epistolari veneziani del sec. XVIII, Milano-Palermo 1914, pp. 125-159; G. Memmo, Raccolta di opere, documenti e manoscritti riguardanti la storia della casa Memmo, Terni 1928; T. Bertelè, Il palazzo degli Ambasciatori di Venezia a Costantinopoli e le sue antiche memorie, Bologna 1932, pp. 293-311; G. Memmo, Bibliografia Memmo, Roma 1949, nn. 283-310; G. Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste 1957, passim; F. Haskell, Patron and painters. A study in the relations between Italian art and society in the age of the Baroque, London 1963, cap. 15; G. Torcellan, Una figura della Venezia settecentesca: A. M.: ricerche sulla crisi dell’aristocrazia veneziana, Venezia 1963; Id., A. M., in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei Ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo - G. Torcellan - F. Venturi, Napoli 1965, pp. 193-277; M. Brusatin, Venezia nel Settecento: Stato, architettura e territorio, Torino 1980, pp. 101-139; Prato della Valle: due millenni di storia di un’avventura urbana, a cura di L. Puppi, Padova 1986, ad ind.; N. Isenberg, Mon cher frère. Eros mascherato nell’epistolario di Giustiniana Wynne a A. M. (1758-1760), in Trame parentali, trame letterarie, a cura di M. Del Sapio Garbero, Napoli 2000, pp. 251-265; S. Pasquali, Scrivere di architettura intorno al 1780: A. M. e Francesco Milizia tra il Veneto e Roma, in Arte veneta, LIX (2002), pp. 168-185; A. di Robilant, Un amore veneziano. Un giovane aristocratico, un’avventurosa ragazza inglese, una storia vera, Milano 2003, passim; N. Isenberg, Seduzioni epistolari nell’età dei lumi. L’equivoco e provocante carteggio amoroso di Giustiniana Wynne, scrittrice anglo-veneziana (1737-1791), in Quaderno del Dipartimento di letterature comparate. Università degli Studi Roma Tre, II (2006), pp. 47-70.
S. Pasquali