LANZANI, Andrea
Nacque a Milano il 2 nov. 1641 da Giovan Battista e Caterina Bisnati (Casetta, p. 80). Le fonti, pur sottolineando la grande prolificità dell'artista, la fama presso i contemporanei e la buona qualità della sua pittura, sono piuttosto avare di notizie riguardo alla formazione. L'unica certezza è che essa dovette avviarsi presso la bottega di L. Scaramuccia, venendo così segnata dall'adesione ai modelli del classicismo carraccesco e reniano (Pio, p. 132; Orlandi).
Una tela con la Sacra Famiglia a Bergamo (Accademia Carrara) e una con un Ecce Homo a Morbegno in Valtellina (parrocchiale di S. Giovanni Battista) vengono comunemente considerate tra le sue prime prove. Nel 1669 si iscrisse, in qualità di alunno, tra i pittori che aderirono alla cosiddetta "seconda Accademia Ambrosiana" (Turchi, p. 103).
Il prestigioso istituto milanese era stato infatti riaperto l'anno prima, dopo alcuni decenni di crisi seguiti alla peste del 1629-30 e alla morte, nel 1631, del suo fondatore, il cardinale Federico Borromeo. La sezione di pittura della rinata Accademia fu affidata ad A. Busca, pittore di appartenenza classicista. Risultato tangibile dell'adesione del L. a quel contesto è il convenzionale "quadrone" con La traslazione del corpo di s. Calimero, eseguito nel 1670 e conservato nella Biblioteca Ambrosiana, parte di un ciclo di quattro teleri con Storie di Federico Borromeo, cui parteciparono anche Scaramuccia e Busca. Dello stesso anno e stilisticamente affine è il S. Pietro che cammina sulle acque di S. Pietro in Gessate a Milano.
Dal 1673 il L., che evidentemente era già un artista indipendente e affermato, figura tra gli appartenenti all'Accademia milanese di S. Luca dove, due decenni più tardi, otterrà le cariche più alte (Casetta, p. 80).
Sebbene numerose opere ricordate dalle fonti siano disperse (Torre, pp. 17, 30; Latuada, II, p. 307; Bartoli, pp. 7, 36, 47, 52, 121), le molte conservate permettono di ben delineare il suo percorso artistico. Tra la fine del 1673 ed entro marzo 1675 è databile la Fuga in Egitto nella chiesa di S. Giuseppe a Milano.
Il dipinto è di grande interesse, in quanto contiene in nuce molti degli elementi che caratterizzano lo stile maturo del pittore. Infatti, se è vero che la composizione, di grande intensità espressiva, è perfettamente adeguata ai dettami accademici, con i consueti richiami ai bolognesi e a C. Maratta, lo schiarirsi della gamma cromatica sembra preludere al clima pittorico settecentesco. All'interno della storia della cultura figurativa lombarda, peraltro, questo è un momento di trasformazione, in cui si evidenzia un rapido disinteresse da parte dei giovani artisti (e dei loro committenti) per la pittura magniloquente e classicista dei seguaci di Busca, e ci si volge con curiosità alle novità provenienti da Genova, Napoli e soprattutto da Venezia. Tale atteggiamento spiega il favore che incontrò S. Ricci all'epoca del suo soggiorno milanese, nell'ultimo decennio del secolo, che tanta importanza ebbe per la formazione di un linguaggio "internazionale" nella grande decorazione. Altro aspetto non marginale di questo periodo è la rivisitazione in chiave moderna della cultura del primo Seicento lombardo, sia con esiti di esasperazione formale, come nel caso di F. Abbiati, sia con soluzioni più vicine al barocchetto, come nel caso di S.M. Legnani, di P.A. Magatti e del L. (P.A. Magatti…, p. 75).
Nel 1675 il L. si recò a Roma per un soggiorno di studio presso Maratta, che gli fornì l'opportunità di venire in contatto con il mondo accademico della città, ma anche di confrontarsi con le opere delle diverse correnti artistiche ivi rappresentate. A Roma non dovette trattenersi a lungo, se nello stesso anno è ricordato nella certosa di Pavia, dove dipinse a fresco, nella prima cappella a destra, Cristo nell'orto degli ulivi e le Tre Marie al sepolcro. Nel 1679 fu di nuovo a Morbegno e vi dipinse, ancora nella parrocchiale, il Transito di s. Giuseppe, firmato e datato.
Tra il 1679 e il 1680 eseguì, sulla controfacciata del santuario mariano di Saronno, due Angeli reggenti una medaglia con s. Carlo, a completamento di una campagna di affreschi nella quale aveva lavorato in quegli stessi anni una squadra di artisti, tra cui F. Pansa, F. Bianchi e G.S. Doneda detto il Montalto (Arte, religione…, p. 161). Forse dello stesso periodo è la pala con S. Carlo in contemplazione del Cristo morto nel Museo del Duomo di Milano.
Nel 1683 dipinse S. Rocco visita i carcerati nella chiesa di S. Rocco a Miasino sul lago d'Orta.
L'opera fa parte di un ciclo di otto teleri che decorano il coro e la controfacciata della parrocchiale. Ancorché di impianto "romano", il dipinto risente di forti suggestioni da G.B. Crespi (il Cerano) e da G. Lanfranco e dovette essere molto apprezzato: infatti, nel 1691 al L. venne richiesto di eseguire una pala per la stessa chiesa che, a seguito del suo rifiuto, fu affidata a Legnani (Frangi, pp. 54, 318 s.).
Di recente, una tela con la Resurrezione di Cristo, conservata alla Pinacoteca Ambrosiana è stata attribuita al L. sulla scorta della prossimità stilistica al S. Rocco di Miasino (Colombo, 1999, pp. 36-38).
Il 1684 fu un anno cruciale per l'artista, che licenziò un numero ragguardevole di opere: una tela con l'Immacolata nella parrocchiale di Campovico, presso Morbegno, la pala S. Carlo porge il viatico agli appestati e gli affreschi della cappella di S. Carlo nel santuario di Rho (Airaghi). La commissione nel santuario fu forse ottenuta tramite il fratello Giuseppe, prevosto di quella pieve.
Un dipinto ricordato da Latuada (IV, p. 137) nella chiesa domenicana milanese di S. Maria della Rosa, ora conservato nella Pinacoteca di Brera, collocabile nel nono decennio del Seicento, è una summa degli elementi costitutivi del ricco linguaggio dell'artista, prima del secondo viaggio a Roma.
Si tratta del Cristo in gloria tra i ss. Vincenzo Ferrer, Tommaso d'Aquino e Ludovico Bertrán, in cui il trono di nubi su cui siede il carraccesco Cristo, nella parte superiore del dipinto, è immerso in un cromatismo molto prossimo a quello di L. Giordano, mentre gli espressionistici santi del piano inferiore si richiamano alla pittura di primo Seicento milanese.
Sempre nel 1684, in ragione del consolidarsi della sua fama, gli venne affidata, alla morte di Busca, la titolarità dell'insegnamento della pittura nell'Accademia Ambrosiana. Si può ipotizzare che, in conseguenza di questo prestigioso incarico, già alla fine dello stesso anno o l'anno immediatamente successivo, il L. abbia ritenuto opportuno recarsi per la seconda volta a Roma, dove fu di nuovo alle dipendenze di Maratta. A Roma dipinse un S. Filippo Neri (perduto) per la chiesa di S. Maria in Monserrato (Titi). È inoltre ritenuto molto probabile un suo intervento in palazzo Altieri, dove Maratta aveva eseguito una delle sue opere più celebri e lodate, l'Allegoria della Clemenza.
Al suo ritorno in Lombardia, il L. figura attivo a Como, dove, nel 1688, eseguì la volta della rinnovata chiesa di S. Cecilia, entro stucchi di G.B. Barberini, rappresentando nel riquadro centrale il Trionfo della Croce e in quelli laterali la Gloria di s. Cecilia e una Gloria di angeli.
Nel 1694 contribuì al completamento degli affreschi realizzati da Abbiati e Bianchi nel coro di S. Alessandro a Milano. Ancora in questa città, probabilmente entro il 1695, dipinse affreschi in "due gran camere" (Zanotti, p. 272) di palazzo Archinto - distrutto - in collaborazione con il pittore quadraturista e architetto bolognese M.A. Chiarini. Agli stessi anni sono ascrivibili l'Ultima comunione di s. Ambrogio, firmata, in S. Ambrogio, in cui il modello della Comunione di s. Girolamo di Agostino Carracci si dimostra ancora attivo (Turchi, p. 109) e il non riuscitissimo - per quanto molto lodato - grande quadro con la Gloria di s. Carlo per il duomo di Milano, oggi nella sagrestia sud.
Dopo aver ottenuto, nel 1696, la carica di viceprincipe e nel 1697 quella di principe dell'Accademia di S. Luca di Milano, nello stesso 1697 il L. si trasferì a Vienna. Ivi, di nuovo in collaborazione con Chiarini, dipinse la sala della Udienze del palazzo di città (oggi ministero delle Finanze) del principe Eugenio di Savoia, "il quale l'uno, e l'altro avea non solamente invitato, ma mandato a prendere, con l'offerta di uno stipendio grossissimo" (Zanotti, p. 273).
In una congiuntura che vedeva il gusto orientarsi in modo molto favorevole alla decorazione dei soffitti "all'italiana", la scelta degli artisti si deve forse all'architetto F. von Erlach, che aveva studiato a Roma e al quale era stata affidata la ricostruzione del palazzo del principe, forse "il maggior monumento profano di Vienna di fine Seicento" (Dell'Omo, p. 93). Il L. eseguì dunque sul soffitto della sala delle Udienze le scene con il Trionfo di Ercole, Ercole lotta con il leone, ed Ercole sul rogo.
Si limitò senza dubbio a pochi mesi questo primo soggiorno viennese dell'artista che, nel 1698, è di nuovo documentato a Milano dove partecipò al concorso per l'esecuzione di una grande statua argentea in S. Ambrogio e dove, entro il 1698, eseguì, per la Confraternita degli orefici, la tela con S. Eligio e la Vergine, oggi nella cappella di S. Eligio a S. Sebastiano, ma in origine destinata alla chiesa di S. Michele al Gallo, poi demolita. L'opera dimostra in modo molto evidente la vicinanza alla pala di Maratta con S. Filippo Neri (Firenze, Uffizi).
Ancora nel 1698 firmò e datò gli affreschi nelle volte della terza campata e del presbiterio nella parrocchiale di Dosso del Liro in Alto Lario, su commissione della locale Comunità, come ricordato in un'iscrizione (Colombo, 1995).
Si tratta dell'Assunzione e di grandi riquadri con storie di eroine bibliche, quali Ester e Giaele, che prefigurano il ruolo di Maria nella storia della salvezza, e inoltre la notevole Visione di s. Giovanni a Patmos, la cui protagonista è, coerentemente con il contesto, la donna vestita di luce dell'Apocalisse. Questi affreschi dispiegano la grande perizia tecnica e il buon controllo formale dell'artista, anche se l'insistenza nell'uso degli schemi simmetrici per i gruppi di figure che affollano i cieli denuncia il persistente legame con la formazione accademica che, del resto, è carattere fondante e mai rinnegato della sua pittura.
Entro l'aprile del 1699 affrescò l'abside dell'Incoronata a Lodi con l'Assunta, su incarico del poeta Francesco da Lemene, insieme con S.M. Legnani, a lui frequentemente associato dalla critica come coprotagonista del "processo di formazione del nuovo gusto barocchetto" (Pinacoteca di Brera, p. 239).
Databili sullo scorcio del secolo sono anche sei grandi tele ottagonali con Storie della Vergine che l'artista eseguì per la chiesa di S. Maria in Castello (Alessandria), in una delle quali, la Morte della Vergine, appose la sua firma.
Giunto di nuovo a Vienna, il L. vi si trattenne per circa otto anni, con frequenti ritorni in patria. Sulla base della procura a C.M. Silva, residente a Milano (a partire da giugno del 1698, fino allo stesso mese del 1707, per alcuni pagamenti e per l'invio di libri), si è ipotizzato che la partenza del L. per Vienna si debba anticipare di qualche mese e che da questa città egli sia tornato per eseguire gli affreschi lodigiani (Dell'Omo, p. 94). Fu il conte D.A. Kaunitz a chiamarlo a Vienna per decorare la sua nuova residenza presso Slavkov (Austerlitz), in Moravia.
L'intervento del L. ebbe inizio nel casino del giardino - distrutto nel 1730 - dopo il luglio 1698, quando venne liquidato S. Bussi, ticinese, autore degli stucchi delle sale e probabile tramite fra il conte e il Lanzani. Secondo le indicazioni di un manoscritto non datato, il ciclo dovette consistere in Storie di Amore e Psiche. Subito dopo, a partire dal 1701 e sempre entro gli stucchi di Bussi, eseguì, probabilmente entro il 1704, gli affreschi, tuttora conservati, delle sale del palazzo di Slavkov (Dell'Omo, pp. 95 s.). Il ciclo decorativo, che soddisfece pienamente il committente, era incentrato, nelle stanze sul lato nord, sul tema della fedeltà coniugale ed era illustrato da episodi delle Metamorfosi di Ovidio, nel solco dell'illustre tradizione cinquecentesca. Nel lato sud si optò per le rappresentazioni, consuete in dimore extraurbane, tradizionalmente legate al tema della ciclicità della natura, quali l'Aurora con il crepuscolo del mattino o Fetonte che chiede ad Apollo il carro del Sole. Le immagini allegoriche che costellano le scene dei miti sono desunte con molta puntualità dalle Imagini de i dei antichi di V. Cartari e dall'Iconologia di C. Ripa. Gli affreschi moravi furono per l'artista un'occasione impareggiabile per misurarsi con i propri mezzi. A differenza che in palazzo Archinto, gli venne qui richiesta una decorazione da eseguire in proprio e in assenza di interventi precedenti; non gli furono affiancati collaboratori, se non, verosimilmente, i propri aiuti, e in più gli affreschi - ancorché in una cornice di stucchi - sono finalmente svincolati dalla quadratura. Come prevedibile, questo insieme di condizioni favorì una svolta nel suo stile che, a partire da questo momento, acquistò una maggiore libertà nell'esprimere quella sensibilità quasi rococò già presente in nuce in alcune sue composizioni precedenti.
La sua attività Oltralpe è testimoniata da una lettera che egli indirizzò nel 1706 a L.F. Schönborn, arcivescovo di Bamberga e principe elettore di Magonza, in cui elencava le opere eseguite. Essa fa parte di un fascio di corrispondenza che ha per soggetto la trattativa attraverso la quale il pittore sperava di aggiudicarsi la prestigiosa commissione della decorazione di un palazzo che il principe possedeva a Bamberga. Non vi è evidenza del buon esito di tale trattativa, ma la tela con l'Estasi di s. Francesco del 1705, oggi nella Schloss Galerie di Pommersfelden (Baviera), è un probabile dono a Schönborn, forse per ringraziarlo del titolo di cavaliere che egli fece ottenere al pittore il 2 genn. 1705 (Turchi, p. 102). Sempre nella Schloss Galerie, e databile agli stessi anni, è anche una tela del L. rappresentante S. Eufemia. Non sorprende che proprio a Vienna, al culmine della sua affermazione professionale, egli abbia, con ogni verosimiglianza, eseguito il suo eccellente autoritratto, oggi conservato a Brera.
Il dipinto pervenne nella raccolta milanese nel gennaio del 1900 tramite dono di A. Cantoni. C. Ricci, allora direttore della Pinacoteca, descriveva il ritratto in una lettera al ministero e ne riportava l'iscrizione sul verso, oggi persa a seguito della foderatura realizzata durante il restauro del 1980. L'iscrizione recitava: "Andrea Lanzani […] idem et ipse sum etatis meae annorum LXIIII / Salutis vere [nostre] MDCCV" (Pinacoteca di Brera, p. 241).
Rientrato a Milano nel 1708, il L. intervenne nel ciclo di ventidue Storie dell'invenzione della vera Croce e del sacro chiodo, commissionato dal capitolo metropolitano per la celebrazione del "sacro chiodo" in duomo e finanziato dalle corporazioni di arti e mestieri. Il suo contributo fu il "quadrone", dipinto entro il 1710, con Il morto che resuscita al contatto con la Croce, donato dalla Camera dei mercanti di seta.
È tra le ultime opere del L., e in essa si misura la distanza con la produzione degli inizi, segnatamente il grande quadro per l'Ambrosiana. Si tratta di un dipinto molto aggiornato, dal patetismo contenuto e dalla composizione mossa e risolta con chiaroscuri sapienti, che, nella figura del miracolato, ricorda molto da vicino il L'estasi di s. Francesco di Pommersfelden. Intorno a questi anni è databile l'affresco con la Vergine portata in cielo dagli angeli in S. Maria delle Cacce a Pavia. Nel 1710 è ricordato un affresco, perduto, per la chiesa di S. Nazaro a Milano. Negli stessi anni viene anche collocata l'esecuzione del ciclo di affreschi che ornano il presbiterio della chiesa di S. Francesco a Saronno, celebranti il Trionfo dell'Eucarestia. Si può infine ricordare la piccola pala di S. Antonio a Cassano d'Adda, opera estrema del maestro.
Il L. morì il 30 maggio 1712 a Milano, dove è sepolto nella chiesa di S. Vittore in Corpo (Latuada, IV, p. 349).
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