FORTEBRACCI, Andrea (detto Braccio da Montone)
Nacque a Perugia il 1° luglio 1368, nel rione di Porta Sant'Angelo al quale era ascritto il castello di Montone, fino al 1280 signoria della famiglia che lì manteneva beni allodiali e preminenza. Il padre Oddo, capitano del Popolo a Firenze nel 1372-73, morì nel 1380. La madre Giacoma Montemelini assecondò la vocazione militare del figlio, minore di Carlo e Giovanni, ma non sappiamo in quale successione con le sorelle Stella, Monalduccia e Giovanna.
Le notizie sulla prima giovinezza, recuperate dagli estimatori dopo il raggiungimento della fama, sono le più infide. Diciottenne, posto a capo di 15 celate da Antonio da Montefeltro, avrebbe compiuto irruzioni nel territorio di Fossombrone, presidiato dall'esercito malatestiano, restando prima prigioniero e poi, tornato a combattere dopo il riscatto, gravemente ferito al capo. L'emiplegia nella parte destra del corpo, seguita al ferimento, sarebbe regredita dopo cure riabilitanti, ma la gamba avrebbe conservato un lieve intorpidimento. Le ricorrenti guerre fra Malatesta e Montefeltro, il ricordo della menomazione da parte di fonti autonome, non consentono di escludere il fatto; meno credibili le circostanze di tempo e di luogo.
Nel 1388 - alcuni anticipano al 1383 o al 1387, altri ritardano al 1395 - militò insieme con Muzio Attendolo Sforza sotto Alberico da Barbiano, fondatore della compagnia di S. Giorgio. Secondo il Pellini nel 1390 il F., spinto dai fratelli, con l'uccisione di due avversari soffocò la sollevazione dei Montonesi contro la famiglia. Ma si trattava più credibilmente di una rivolta contro il partito dei nobili, detto dei beccherini al governo a Perugia, ora in difficoltà per la progressiva occupazione del territorio circostante da parte dei fuorusciti del partito popolare, detto dei raspanti, guidato dai Michelotti.
Nel luglio 1393 i raspanti, rientrati a Perugia con la mediazione di Bonifacio IX ivi stabilitosi, espulsero a loro volta i nobili e indussero alla fuga il papa. Alcuni fuorusciti ripararono a Montone da dove il F., con pochi armati, tentò di raggiungere Fratta (ora Umbertide) per evitarne la sottomissione al nuovo regime perugino. Caduto in una imboscata, fu fatto prigioniero, ma venne liberato da Biordo Michelotti, capo dei raspanti, che cercò un accordo coi Fortebracci. Nel novembre Perugia, con apposita riformanza, affidò Montone in custodia temporanea ai tre fratelli Fortebracci e li esentò da ogni onere fiscale. Il F., tuttavia, continuò ad opporsi al nuovo governo perugino e il 1° dic. 1394 sottoscrisse un patto segreto che obbligava gli aderenti a non ricercare accordi coi raspanti. Nella primavera del 1395 Perugia inviò un presidio armato a Montone per scoraggiare lo spirito di rivolta degli abitanti fomentato dai seguaci del Fortebracci. Il 25 maggio Biordo Michelotti e i Priori delle arti, per conservare il castello, imposero al F. e al fratello Giovanni, in un tentativo estremo di conciliazione, di stabilirsi a Perugia e di non allontanarsene senza autorizzazione, ma il giorno successivo il Michelotti, incaricato di indennizzare a sua discrezione i privilegi relativi a Montone - persi dalla famiglia col diritto a risiedervi - cedeva beni, sottratti ai ribelli, solo a Carlo e a Giovanni Fortebracci.
Nel maggio del 1397 il F. con 30 lance entrò nell'esercito che, sotto il comando di Crasso da Venosa e Bindo da Montopoli, era stato assoldato da Firenze per scoraggiare e, se del caso respingere, un attacco di Gian Galeazzo Visconti. A seguito della morte di Biordo Michelotti, eliminato da una congiura nel marzo 1398, i Perugini esuli intensificarono le operazioni militari dirette a sottrarre castelli al capoluogo: il F. fu tra i più attivi. I raspanti, per impedire il ritorno dei nobili, il 20 o 21 genn. 1400 deliberarono la dedizione di Perugia al duca di Milano Gian Galeazzo Visconti. Ma la morte del duca (3 sett. 1402) rinforzò il fronte avversario, sostenuto da Bonifacio IX e da Firenze. Un esercito comandato da Giovanni Tomacelli, fratello del papa, nel quale militava anche il F. come capitano dei fuorusciti, devastò il territorio perugino. Ma solo la pace separata conclusa fra Bonifacio IX e Caterina Visconti consentì il 20 nov. 1404 l'ingresso a Perugia dei Pontifìci, che avevano però assunto l'impegno di non introdurre gli esuli.
Tradito e scorato, il F. si recò a Firenze e poi a Roma alla ricerca vana di un ingaggio. Approdò alfine in Romagna nel campo di Alberico da Barbiano, che gli offrì il comando di 12 cavalli. Nel 1405 per il valore e l'acume mostrati in uno scontro fu promosso cavaliere e con 150 lance inviato a Padova per soccorrere i da Carrara impegnati contro Venezia. Nel comando doveva alternarsi con Lorenzo di Cotignola e Rosso dell'Aquila, che lo denigrarono: il da Barbiano, ritenute infondate le accuse, lo accreditò a Bologna presso il legato pontificio, il cardinale Baldassarre Cossa, che nel gennaio 1406 gli affidò 300 cavalli. Con questi il F., dopo aver taglieggiato vari centri della Romagna, mosse contro Perugia. La città nel mese di marzo assoldò Paolo Orsini per contrastare l'esercito braccesco che, stanziato a Borgo San Sepolcro, contava ormai 800 cavalli e continuava ad aggregare esuli.
All'inizio del 1407 il F. fu raggiunto in Umbria da rappresentanti di Rocca Contrada (ora Arcevia) che lo invitarono a liberare il luogo dall'assedio di Ludovico Migliorati e ad assumerne la signoria. Il Migliorati, dopo la morte dello zio Innocenzo VII, che l'aveva promosso rettore della Marca e signore di Fermo, spadroneggiava ancora nella regione e combatteva il nuovo rettore Benedetto, vescovo di Montefeltro. Le vicende successive del F., soprattutto la conquista e i pronunciamenti orchestrati in suo favore in alcuni Comuni, la solidarietà da allora stabilita coi da Varano signori di Camerino e mai più venuta meno, fanno ritenere che si fosse recato nella Marca su sollecitazione di questi ultimi, alla ricerca di un alleato affidabile. Assumendo la difesa di Rocca Contrada, dove impiegò con successo 100 cavalli contro i 700 di Angelo Della Pergola, il F. acquistò il primo dominio territoriale; la sottomissione di altri castelli vicini gli consentì di depredare il territorio di Ancona, di fare molti prigionieri e di riscuotere dalla città una taglia di 7.000 ducati.
Nel corso del 1407 il F. cercò di consolidare la sua posizione nella Marca, avendo come punto fermo della sua politica l'alleanza con i da Varano. Alterni furono i suoi rapporti con il Migliorati: al riavvicinamento - che portò i due a occupare Ascoli il 10 giugno - seguì un nuovo conflitto che sfociò nello scontro vinto dal F. presso Montecorsaro sul finire di agosto.
Il 1° ottobre il Migliorati, di sorpresa, mosse da San Severino contro i da Varano, fautori di Gregorio XII: occupò Castelraimondo e si spinse fino alle porte di Camerino saccheggiando e devastando le campagne; il F. a sua volta piombò su Castelraimondo sorprendendo alle spalle i nemici impegnati a contrastare un attacco camerte e li costrinse alla fuga e a cercare riparo a Fabriano, poi mosse ancora contro di loro e li sconfisse presso la città.
Forse dopo lo scontro fabrianese vanno collocate la presa da parte del F. del castello di Apiro, già occupato da Martino di Faenza, e le scorrerie nel territorio di Cingoli per la sospensione delle quali avrebbe riscosso 5.000 ducati. Altri centri della regione (quali Matelica, Macerata e Montecassiano) conservano le prove di reiterati versamenti effettuati nel corso del 1407 al F., che impose alle Comunità di considerare effettuate a loro tutela le operazioni militari svolte nella Marca. Una riformanza di Montecassiano del 29 genn. 1408 lo indica come reformator nella provincia, titolo certo strappato al rettore pontificio.
L'anno 1408 si aprì con la pace stipulata fra tutti i contendenti della Marca auspice Ladislao di Durazzo, re di Napoli, che estese così il suo patronato sulla regione e pensò di utilizzare ai propri fini tanti capitani: le trattative - avviate fin dal dicembre precedente con un viaggio presso Ladislao di Conte da Carrara, di un da Varano e di rappresentanti degli altri contendenti - si conclusero prima con una tregua e infine con la pace generale ratificata nel parlamento provinciale tenuto a Macerata il 7 febbraio, nel quale si stabilì di tenere agli stipendi il F. e altri capitani perugini.
Il 1° aprile il F. partì alla volta dell'Umbria e si stabilì presso Todi a disposizione del sovrano intento alla conquista di Roma, che si arrese il 23 dello stesso mese. I capi perugini, venuti a conoscenza dell'ingresso di Ladislao a Roma, incalzati da vicino dall'esercito del F. composto per tanta parte di fuorusciti, decisero il 28 maggio di offrire il dominio della città a Ladislao a patto che egli si impegnasse a combattere i bracceschi. Il 5 giugno il re delegò Giacomo Galgani e Ceccolino Michelotti a prendere possesso di Perugia, e il 19 firmò i capitoli coi raspanti, ma fin dall'inizio della trattativa aveva disposto 6.000 cavalli contro i bracceschi stanziati nel Todino.
Il F., furioso per il voltafaccia del re, tornò nella Marca e occupò all'inizio di giugno Jesi, a titolo di compensazione per stipendi non corrisposti dalla Sede apostolica. Per contrastarlo, Ladislao, il 23 giugno, fece partire da Roma un esercito sotto il comando del Migliorati, di Martino da Faenza e di Ceccolino Michelotti, che per molti giorni di luglio devastò le campagne jesine; ma il F. con i suoi 1.500 cavalieri resistette bene. Nel dicembre il Migliorati abbandonò Ladislao e passò alla lega, costituita contro il re da Firenze, dalla Bologna del cardinale Cossa e dai Malatesta, ma la conflittualità nella Marca centromeridionale continuò come prima.
Il 2 apr. 1409 Ladislao mosse da Roma alla conquista della Toscana. I Fiorentini sostenevano Siena, prima città attaccata, e ingaggiarono il F. che con 400 lance difese nel maggio Arezzo. Stabilitosi dal 3 luglio a Città di Castello, il F. continuò a molestare i contingenti regi e perugini e il 20 settembre a Promano sconfisse gli avversari, conquistando un ricco bottino. Nominato comandante in capo delle truppe fiorentine, il F. insieme con Paolo Orsini - passato alla lega nel settembre - il 1° ottobre entrò a Roma nel Borgo San Pietro; il 2 ottobre Castel Sant'Angelo passò al papa, ma il resto della città si difese con successo.
Il F., che si era recato a svernare nel territorio di Todi, non era presente quando i Romani, il 2 genn. 1410, aprirono le porte al Malatesta e all'Orsini. La situazione spaventò i Perugini che, non protetti da Ladislao, assoldarono Angelo Broglio da Lavello, detto il Tartaglia. Il F., rispose con razzie nel territorio di Chiusi. Il 15 febbr. 1410 nacque a Città di Castello un figlio naturale del F. cui fu imposto il nome di Oddo.
Il 17 maggio fu eletto pontefice dell'obbedienza pisana Baldassarre Cossa (Giovanni XXIII); l'intesa più volte rinnovata con l'ex legato rende credibile un viaggio del F. a Bologna. Nel marzo Muzio Attendolo Sforza operò contro Todi, che sosteneva Ladislao, e l'occupò nel mese di aprile, all'incirca nei giorni in cui il F. prese Torgiano e Castel Leone, luoghi fortificati prossimi a Perugia. Sul finire del giugno 1410 lo Sforza pose il campo presso Terni, schierata con Ladislao, ma la presa del 14 settembre fu opera prevalente del Fortebracci. Risale al novembre, forse alla notte del 13, il tentativo fallito del F. e di Paolo Orsini di impadronirsi di Perugia: vennero infatti respinti dal Tartaglia, accorso da Marsciano.
Alla fine di gennaio 1411 Firenze, stanca di sostenere il maggior peso economico della lega, rese pubblica la pace conclusa con Ladislao, che si impegnò a lasciare libere le terre sottratte alla S. Sede con l'eccezione dell'Umbria. Nel marzo il F. ammassò truppe a Chiusi passata allo Sforza; ad aprile, mentre Giovanni XXIII e il deposto re di Napoli Luigi II d'Angiò raggiungevano Roma, era al campo presso Civitavecchia, presidiata per Ladislao dal Tartaglia e dal prefetto di Vico; quando questi ricevettero rinforzi via mare, levò il campo e, dopo una sosta a Todi, raggiunse Torgiano, verso cui si dirigeva il Tartaglia. Il 10 maggio tre ore di battaglia feroce consentirono ai bracceschi di rafforzare il blocco contro Perugia. Difficile credere che solo il 16 maggio il F. sia partito alla volta di Roma e del Regno e il 19 abbia preso parte alla battaglia di Roccasecca, nell'alta valle del Liri: taluno esclude la sua partecipazione, i più ritengono la vittoria su Ladislao una delle più belle riportate dal F. e dallo Sforza.
In estate il F. intensificò le operazioni in Umbria e occupò altri castelli. Nel novembre raggiunse in armi Camerino, dove era in atto una sollevazione contro i degeneri figli di Rodolfo III: conciliò nobili e popolani coi da Varano parlando in pubblico della sorte tragica che attende le città divise. Nel febbraio-marzo 1412 tentò di occupare Montone e prese Marsciano, Cerqueto e Gualdo Cattaneo. Il 17 giugno con la pace di San Felice si conclusero le trattative fra Giovanni XXIII e Ladislao. Il 29 giugno il F. era a Roma per incontrarsi con Paolo Orsini e col cardinal legato Oddone Colonna.
Con la pace il papa aveva nominato Ladislao gonfaloniere della Chiesa e, insieme con altre città, gli aveva ceduto Perugia per dieci anni; il F. avrebbe dovuto consentire il possesso dei castelli vicini, per riavere i quali i Perugini prevedevano un esborso di 24.000 fiorini. Ai primi di febbraio 1413 il F. si diresse verso Bologna per riaffermarvi l'alto dominio pontificio, contestato dai popolari. Dopo aver vinto sul fiume Canale le truppe dei Malatesta e dei Manfredi, che d'intesa coi Fiorentini cercavano di sbarrare la strada, entrò a Bologna. Nel luglio, però, se ne allontanò per il precipitare della situazione: Ladislao, rotta la pace, aveva occupato il mese precedente Roma e il Patrimonio; i raspanti, guidati dallo Sforza, stavano sottraendogli, uno ad uno, i castelli intorno a Perugia; Paolo Orsini era a Rocca Contrada, assediato da un forte esercito che Ladislao gli aveva spedito contro fin dal mese di maggio forse per tenerlo lontano da Roma; ottenuta la città, il re individuava nell'armata braccesca il maggiore ostacolo alla definitiva sottomissione dei territori pontifici, tanto che contro Rocca Contrada impegnò insieme capitani come lo Sforza, Guidantonio da Montefeltro, Conte da Carrara, Malatesta da Pesaro, Lodovico Tarlati di Pietramala, Ceccolino Michelotti. Il F. fece una rapida incursione a Cesenatico, dominio di Carlo Malatesta, dove si procurò un ricco bottino, poi occupò Montone, indi si portò nel territorio di Gubbio, attirando contro di sé il grosso dell'esercito assediante e consentendo così a Paolo Orsini nei primi di agosto di sbaragliare i pochi uomini rimasti a presidio.
Nel gennaio 1414 Paolo Orsini raggiunse con Ladislao un accordo in funzione del quale, nel mese di marzo, mediò la resa di Orvieto ai capitani di Ladislao; poco dopo lo stesso F., assediato dentro Todi, garantitasi la possibilità di ritirarsi alla Fratta, consentì alla città di consegnarsi a patti a Ladislao. Richiamato dagli abitanti di Todi, insorti contro il presidio regio, dal 22 maggio al 18 giugno subì un nuovo assedio da parte di Ladislao, che, durante un singolare abboccamento sul campo di battaglia, gli offrì una città nel Regno e una lucrosa condotta militare, pretendendo in cambio la rinuncia definitiva su Perugia: il F. rifiutò per non deludere i fuorusciti, nerbo del suo esercito. Il 22 giugno Ladislao nei pressi di Assisi sottoscrisse la pace con Firenze, quindi, imprigionato Paolo Orsini e rientrato attraverso Roma a Napoli, vi morì il 3 agosto.
Giovanni XXIII rinegoziò allora la condotta col F., il quale si stabilì a Bologna e di lì mosse per sottoporre al proprio controllo castelli e Comunità. Il 13 ag. 1414 si fece cedere Medicina e il 28 ottenne per sé e per il fratello Giovanni l'investitura di Montone, eretta a contea. Quando, poi, il 1° ottobre Giovanni XXIII partì alla volta di Costanza, il potere del F. in Romagna si consolidò. La deposizione a Costanza di Giovanni XXIII (fine maggio 1415) rese incerto il dominio pontificio di Bologna, il 5 genn. 1416 la città insorse e si dette una costituzione popolare: il F. si accordò con il nuovo governo impegnandosi, dietro versamento di 96.000 fiorini alla riconsegna dei castelli fra i quali risultano Castel San Pietro, Castel Bolognese, Medicina e Pieve di Cento. Nell'aprile il F. si spostò in Umbria, dopo aver conquistato personalmente o tramite capitani subordinati, per lo più nobili perugini fuorusciti, molti castelli e tentò senza successo un assalto contro Perugia. Continuò a prendere città e castelli: il 12 giugno accettò la signoria di Todi, il 14 quella di Orvieto e il 28 ottenne a patti Corciano. Il 12 giugno decise di affrontare in campo aperto i condottieri che accorrevano in soccorso di Perugia: Carlo Malatesta, che aspirava a sua volta a divenire signore di Perugia, Angelo della Pergola, Ceccolino Michelotti e Paolo Orsini. La battaglia si svolse il 12 luglio tra Colle della Strada e San Giglio nella pianura delimitata dal Tevere e dal Chiascio. Il F. ottenne una completa vittoria e fece prigionieri molti dei capitani avversari fra cui il Malatesta.
La pace fu conclusa il 16 luglio 1416 nel convento degli olivetani di Montemorcino: otto ambasciatori offrirono la signoria di Perugia al F. che l'accettò. Il 18 luglio un'assemblea perugina, composta di oltre quattrocento cittadini, trasferì al F. "plenum et omne dominium… civitatis cum mero et mixto imperio et omnimoda gladii potestate". Lo stesso giorno il Consiglio "generalis adunantiae artium et artificum" riammise "ad gradus, honores et dignitates" gli esuli colpiti da bando, disponendo che fossero loro restituiti i beni confiscati. Il F. dal canto suo si impegnò a mantenere gli statuti e le magistrature ivi previste - riservandosi la nomina del podestà e del tesoriere e la convocazione degli organi consiliari - a non imporre nuove "gravezze" e a non effettuare reclutamento di truppe senza il consenso del popolo.
Il 19 luglio il F. entrò solennemente a Perugia: lasciò in carica i priori designati per i mesi di luglio e agosto, aggiungendone solo due di sua scelta. Pochi giorni dopo lasciò la città.
Certamente meraviglia come, tornato in patria dopo il lungo esilio, qualche giorno dopo ne sia già fuori; meraviglia altresì che non si sia dedicato a consolidare con accorta politica di pace i risultati non irreversibili conseguiti con le armi. Di certo non avendo permesso l'ingresso in Perugia al nucleo mercenario dell'esercito aveva urgenza di tornare nell'accampamento; a Perugia forse non si sentiva e non si sentirà mai sicuro e preferiva operarvi per mezzo di uomini fidati; solo l'esercito poteva garantirgli l'incolumità personale e la conservazione del dominio, un esercito ormai di stipendiari che per non disintegrarsi aveva bisogno continuo di grandi risorse economiche e di vantaggiosi impieghi. Le scelte del F. sembrano da questo momento ispirate non solo da un progetto di dominio singolarmente ambizioso, ma anche dalla convinzione che il successo doveva essere alimentato col successo, la stabilità con la vigilanza in armi. Indirizzò allora la sua politica da un canto verso la Marca, in pieno sommovimento per la sconfitta da lui inflitta ai Malatesta, dall'altro verso Roma, affidata - vacante la Sede apostolica - dal concilio di Costanza, al cardinale Giacomo Isolani. L'uccisione di Paolo Orsini, avvenuta il 5 agosto, eliminò il principale ostacolo ai disegni di espansione territoriale del F., il quale spedì subito il Tartaglia contro le terre degli Orsini e personalmente operò nella Marca.
Fin dal marzo 1416 si era costituita a Fermo contro i Malatesta una lega fra il Migliorati, i da Varano e il F. alla quale si era tentato di dare una finalità religiosa per il sostegno prestato dai Malatesta al papa scismatico. Il rifiuto di costoro di pagare il riscatto di 100.000 fiorini preteso dal F. per la liberazione di Carlo Malatesta, custodito a Camerino da Berardo da Varano, riattizzò il conflitto. Il F. ottenne subito dal rettore della Marca, rappresentante del concilio di Costanza, la nomina di difensore della Chiesa; inoltre tra l'agosto e il settembre conquistò San Severino, Pesaro, Osimo e gran parte del territorio tra Fano e Ascoli, mentre Macerata aderiva alla lega.
In Umbria frattanto si andavano verificando non poche sollevazioni di castelli domate da milizie perugine; nella seconda metà d'agosto erano insorti numerosi Orvietani sostenuti dagli Orsini; a Perugia l'avversione tra popolani e nobili di tanto in tanto riesplose. Contrario all'esodo e al bando anche dei popolani più rissosi, temendo che da fuorusciti avrebbero impugnato, come già lui, le armi contro la patria, il F. non impedì invece la cacciata dei Michelotti, che avvenne il 3 settembre. All'inizio di ottobre Lodovico Michelotti stazionava con cavalli e fanti a Borgo San Sepolcro attendendo una sollevazione interna dei raspanti. Il F. fu dunque costretto a tornare in Umbria; ai primi di novembre, forse a Perugia, ricevette ambasciatori veneti, fra cui Andrea Contarini, che chiesero il rilascio del Malatesta.
All'inizio del 1417 le prospettive di pace si fecero più concrete per l'intervento di Guidantonio da Montefeltro, che allo scopo restò a Firenze dal 26 gennaio al 2 febbraio. E in effetti la pace venne sottoscritta il 22 marzo. Carlo Malatesta fu liberato dietro riscatto e l'11 aprile giunse a Rimini.
Nei mesi di marzo-maggio il F. fu in Umbria, dove preparò la spedizione contro Roma, compose le divisioni interne di Todi e sottomise definitivamente Terni. Il 9 giugno ricevette a 3 miglia da Roma il cardinale Isolani e il 12 giugno il cardinale Pietro Stefaneschi; costui riferì ad una delegazione di cittadini romani la richiesta del F. di ricevere il titolo di "gubernator rei publice Romanorum", la custodia delle porte della città, la scelta del senatore, la disponibilità delle entrate. La mancanza di frumento impedì all'Isolani di trattare e alla cittadinanza di resistere: il 16 i sostenitori aprirono la porta Appia al F. che, temendo la reazione popolare, trascorse i primi giorni sull'Aventino, indi occupò il palazzo pontificio e l'8 luglio cinse d'assedio Castel Sant'Angelo dove era riparato l'Isolani. La regina di Napoli Giovanna II d'Angiò Durazzo, inviò a sostegno del legato un contingente al comando di Muzio Attendolo Sforza che il 10 agosto si accampò presso porta San Giovanni. Il 26 il F. abbandonò Roma attraverso ponte Milvio - probabilmente, come ritiene il Campano, in seguito a un'epidemia diffusasi tra i suoi soldati - e si accampò presso Narni. Qui si trattenne almeno fino al 20 settembre, quando riprese i suoi spostamenti in Umbria e nella Marca anche per raccogliere i tributi dai Comuni soggetti.
La notizia dell'elezione di Martino V, avvenuta a Costanza l'11 nov. 1417, dopo anni di sede vacante, spinse il F., timoroso di novità a lui sfavorevoli, a moltiplicare la sua presenza nei luoghi sottomessi: dal 14 al 21 genn. 1418 fu a Todi, il 24 a Perugia, il 7 febbraio a Jesi, il 14 ancora a Perugia, dove gli organi comunali e le arti deliberarono l'invio di oratori a Costanza, per chiedere il vicariato per il signore. Al rifiuto, opposto per l'importanza dei territori occupati e per l'ostilità particolare mostrata dal F. contro la S. Sede coll'occupazione di Roma, seguì la scomunica, comminata specificamente e non conseguenza di norme o provvedimenti di carattere generale contro gli usurpatori delle terre della Chiesa. Il 2 marzo il F. emanò un decreto con cui le mogli dei fuorusciti perdevano il godimento dei beni dotali in vita dei mariti. Sempre a marzo furono celebrati gli sponsali fra il figlio naturale Oddo, nato nel 1409, ed Elisabetta di Niccolò Trinci, signore di Foligno.
Dopo il 13 aprile il F. mosse per la Marca: le Comunità soggette, diffidate dal corrispondere tributi a persone diverse dai tesorieri pontifici, erano inquiete; altre, sobillate dagli emissari di Giovanna II decisa a compiacere Martino V, fecero lega contro di lui; il 23 aderirono ad essa anche Carlo e Malatesta Malatesta. Dopo aver imposto la sua autorità su vari Comuni - come San Severino, Mogliano, Loro Piceno e Falerone - e aver riscosso somme da loro a vario titolo, alla fine di maggio il F. passò in Umbria, dove conquistò Castel della Pieve e sottomise Ulisse Orsini, signore di Mugnano. In giugno piombò in Lucchesia e costrinse Paolo Guinigi a versargli una notevole somma in cambio dell'impegno a non molestare i suoi domini. Ai primi d'agosto mosse contro Norcia, che non aveva corrisposto il tributo e che comprò la pace per 14.000 ducati. Sul finire del mese s'impossessò di Pergola; a settembre si ritirò a Jesi per la pestilenza che imperversava in Italia.
Firenze, preoccupata per il conflitto tra Martino V e il F., il 29 settembre inviò oratori al papa; questi nulla concesse ma, alla ricerca di alleati, non esasperò il contrasto; si avvicinò a Guidantonio da Montefeltro, che il 7 genn. 1419 nominò rettore in temporalibus del Ducato di Spoleto, e premette su Giovanna II perché nel marzo inviasse lo Sforza nelle terre romane.
Il F. reagì, tentando il 6 marzo di avere Gubbio e occupando qualche giorno dopo Assisi, città soggette entrambe al Montefeltro. Il 22 marzo ricevette ad Assisi gli ambasciatori di Firenze: la città, che ospitava Martino V, si adoperava per una tregua. Ma il F., occupata Bastia, il 9 aprile si portò presso Spoleto che conquistò - con la sola eccezione della rocca - e il 14 giugno (non il 22 come alcuni affermano), sconfisse, insieme col Tartaglia, presso Montefiascone, le truppe dello Sforza che ripararono a Viterbo. Il F. attaccò questo Comune nella seconda metà di agosto, dopo aver concluso la tregua con il Montefeltro, ma senza successo. Martino V reagì con estrema decisione: impose ai Montefeltro di annullare la tregua costringendoli a riprendere le ostilità e convinse il Tartaglia ad abbandonare il F. in cambio della contea di Toscanella e di una condotta di 300 lance. Il F., dal canto suo, promosse in ogni suo luogo operazioni militari contro gli avversari per impedire loro di congiungersi, avvalendosi del sostegno dei Trinci e dei da Varano.
Il conflitto proseguì con fasi alterne negli ultimi mesi dell'anno. All'inizio del 1420 la mediazione fiorentina raggiunse il suo obiettivo.
Il 23 febbraio il F., con vesti e corteggio da re, entrò in Firenze: il popolo lo esaltò, con molto dispetto del papa irritato, gridando e scrivendo sui muri "Braccio valente vince ogni gente, Papa Martino non vale un quattrino".
I capitoli della pace sottoscritti il 26 febbraio obbligavano il F. a recuperare per il papa Bologna e il suo territorio, a tenere a sue spese 300 lance per tre anni nella Marca e 500 cavalli per due mesi nella Campagna e Marittima, a restituire ogni località sottratta alla S. Sede. Il papa, assolto il F. e i suoi aderenti da ogni scomunica e censura, s'impegnava a corrispondergli il soldo per l'esercito e gli concedeva il vicariato su Perugia, Assisi, Castel della Pieve, Cesi e i castelli della Terra Arnolfa, Cannara, Gualdo Tadino, Sangemini, Spello, Staffile e Todi, privata dei castelli, nonché Montalboddo (ora Ostra), Jesi e Rocca Contrada nella Marca. Il 14 marzo il F. concluse sempre a Firenze la pace con Guidantonio da Montefeltro. Le paci vennero bandite a Perugia il 28 successivo: ai festeggiamenti partecipò anche Roberto di Pandolfo Malatesta, sposo promesso di Innamorata, figlia illegittima del Fortebracci.
Si ricollega a questo soggiorno in Perugia, preparatorio della spedizione contro Bologna, l'avvio di varie opere pubbliche: la loggia della piazza di S. Lorenzo, le volte che sorreggono la piazza di Sopramuro, il restauro della chiesa di S. Francesco, il rifacimento di parti delle mura cittadine e soprattutto la costruzione di una lunga galleria sotterranea per regolare il livello delle acque del Trasimeno e rendere irriguo un vasto comprensorio.
Ai primi di maggio il F. mosse alla volta di Bologna con 2.000 cavalli e altrettanti fanti. Raggiunto dalle compagnie di Lodovico Migliorati e di Angelo della Pergola e dalle truppe di Carlo Malatesta e del marchese di Ferrara, si impadronì di Comuni soggetti a Bologna e compì scorrerie nel contado. Antonio Galeazzo Bentivoglio, capo dei Dieci riformatori al governo di Bologna, informato dal F. che la fazione a lui avversa intendeva consegnare la città alla Chiesa, il 16 luglio a Borgo Panicale stipulò un accordo col F. e il cardinale Condulmer, che il 21 successivo prese possesso di Bologna per il papa.
Tornato in Umbria, il F. attese a opere civili e seguì con attenzione l'evolversi della politica papale nei confronti del Regno di Napoli. Nel mese di dicembre, rimasto vedovo della prima moglie, si sposò con Nicolina da Varano, sorella di Berardo e vedova di Galeotto Belfiore Malatesta. Le nozze furono celebrate a S. Maria degli Angeli; gli "habiti di corruccio" che la sposa indossò, per la morte recente della madre, non ridussero la pompa e l'allegria dei festaggiamenti che seguirono per molti giorni a Perugia, ma preannunciarono tristi eventi. Molti membri della famiglia da Varano, dei Chiavelli di Fabriano e dei Trinci furono presenti.
Nell'ottobre 1420 Giovanna II, avendo perduto l'appoggio di Martino V e l'assistenza armata di Muzio Attendolo Sforza, su consiglio di Alfonso d'Aragona al quale la regina aveva promesso la successione, avviò trattative per condurre il F. contro lo Sforza, passato in armi (con i titoli di viceré e conestabile del Regno) dalla parte di Luigi III d'Angiò, designato dal papa alla successione di Napoli. Le trattative furono concluse anteriormente al 15 genn. 1421 con l'avallo di Firenze, i cui banchieri concessero agli ambasciatori di Alfonso, assistiti da Matteo Baldeschi, anticipazioni e garanzie per 200.000 fiorini. Il F., attraversata la Marca, penetrò negli Abruzzi dove baroni e città demaniali parteggiavano per Luigi III. Occupò Teramo e altri centri e quindi proseguì verso Napoli superando gli ostacoli e le resistenze degli avversari. Raggiunse l'8 luglio Napoli, dove incontrò re Alfonso: il 20 luglio Giovanna II sottoscrisse il diploma che nominava quest'ultimo erede e vicario del Regno e promosse il F. alla carica di gran conestabile.
I successi nel Regno spinsero i luogotenenti del F. lasciati in Umbria a intensificare le molestie contro le terre tornate al dominio diretto della Chiesa; siffatte iniziative preannunciavano una politica sempre più aggressiva verso il Papato. Sul finire di luglio Martino V, sollecitato anche da Luigi III, inviò il Tartaglia a sostegno dello Sforza contro il Fortebracci. Gli eserciti avversari si schierarono sulle opposte rive del fiume Sangro, ma non arrivarono a scontrarsi in campo aperto.
Nei mesi successivi il F. - che il 1° sett. 1421 aveva avuto il primo figlio legittimo Carlo - continuò a spostarsi nelle province settentrionali del Regno e in Umbria per sottomettere signori e città riottosi al suo dominio e a opporsi alle truppe dello Sforza e del Tartaglia. In data incerta, da collocarsi tra la fine del 1421 e i primi mesi dell'anno successivo, fu nominato governatore "utriusque Aprutii": di certo ottenne l'ufficio per la benevolenza di Alfonso che il F. ormai influenzava profondamente anche se - si mormorava - aspirava a sostituirlo nel ruolo di erede al trono; del titolo di governatore si fregerà negli atti ufficiali al ritorno in Umbria.
Nel mese di giugno 1422 il F. attraverso l'Abruzzo e la Marca rientrò in Umbria. Storiografi marchigiani fanno risalire a quell'anno il saccheggio e la devastazione dell'abbazia di Chiaravalle di Fiastra, prossima a Macerata, da parte del F., che in effetti toccò il territorio abbaziale sul finire di giugno, trasferendosi lungo la val di Chienti dalla costa marchigiana verso l'interno. L'avvenimento è però poco credibile, oltre che per il silenzio delle fonti più affidabili, anche perché il F. non avrebbe allora compromesso il progetto di riconciliazione con Martino V, per di più assalendo un luogo religioso da pochi mesi sotto la giurisdizione dell'abate Antonio da Varano, che i genealogisti indicano fratello di sua moglie e del Berardo da sempre alleato.
Il 7 luglio pose l'assedio a Città di Castello che prese il 3 settembre; subito dopo venne assoldato - con la condotta di 30.000 fiorini l'anno - dalla lega formata il 6 settembre da Firenze, Siena e Lucca. Nel gennaio 1423 Giovanna II e Alfonso gli concessero formalmente il principato di Capua, assegnato nel passato solo a membri di famiglie reali: la fastosa cerimonia di investitura ebbe luogo il 14 febbraio nella sala maggiore del palazzo comunale di Perugia.
Nel Regno, frattanto, il dissidio crescente tra Giovanna e Alfonso e le turbolenze dei baroni lasciavano prevedere sviluppi favorevoli per chi, ai vertici della gerarchia regnicola, disponeva del più temibile esercito della penisola e - secondo E.S. Piccolomini - inseguiva il sogno che era stato proprio di Ladislao, dell'"Italicum Regnum". Firenze, minacciata dall'alleanza del papa con Filippo M. Visconti, era contraria alla spedizione nel Regno che il F. andava preparando, ma, priva di altro sostegno militare, dovette contentarsi delle compagnie che il medesimo F. inviò e della assicurazione di un suo prossimo trionfale ritorno.
Il 1° maggio il F. mosse da Todi e il 7 era già nel contado dell'Aquila, città ritenuta clavis Regni, i cui abitanti, sobillati dai Camponeschi, si erano ribellati ad Alfonso e Giovanna II, e avevano inviato a Luigi III, a Roma, formale atto di soggezione. Richiamati invano all'obbedienza gli Aquilani, il F. lo stesso 7 maggio ottenne per resa Posta e Santogna, l'8 Borbona, il 10 Pizzoli. Il 12 ebbe luogo sotto le mura dell'Aquila una prima battaglia. I cittadini non si lasciarono intimorire dal più grande apparato bellico mai dispiegato a memoria d'uomo per una impresa e i bracceschi furono costretti a ripiegare sulla conquista del contado. Il 1° giugno giunse nell'Aquilano la notizia della rottura definitiva fra Alfonso e Giovanna II e della vittoria sotto le mura di Napoli riportata il 27 maggio sui Catalani dallo Sforza, intervenuto per la regina. Alfonso reclamava l'aiuto del F., ma la rottura fra i sovrani non giovava a quest'ultimo che almeno per tutto luglio e agosto finse di ignorarla, dichiarando fra l'altro le missive in partenza compilate "in campo Reginali et Regio" e continuando a qualificarsi principe di Capua, gran conestabile del Regno, governatore dell'uno e dell'altro Abruzzo. Evidentemente voleva ignorare che Giovanna II, d'intesa con Martino V, il 1° luglio aveva revocato per ingratitudine l'adozione in favore di Alfonso comminando sanzioni contro i fautori del re e si apprestava ad adottare (14 settembre) Luigi III. Il F. proseguì gli attacchi al contado cittadino e alle altre zone degli Abruzzi, senza riuscire, comunque, ad aver ragione della resistenza aquilana.
La partenza di Alfonso alla volta di Barcellona, avvenuta il 15 ottobre, consentì allo Sforza di lasciare a sua volta Napoli il 26 successivo per recar soccorso, con l'avallo della regina, all'Aquila. Lasciato un contingente all'assedio dell'Aquila e distribuito l'esercito in luoghi meno freddi e dominanti percorsi vallivi anche lontani dalla città ma di accesso ad essa, il F. si recò a svernare a Chieti. Il 3 genn. 1424 lo Sforza, che direttamente o tramite il figlio Francesco, aveva già occupato centri importanti degli Abruzzi, quali Vasto e Ortona, passando a guado il fiume Pescara proprio alla foce, per lo sbarramento attuato dai bracceschi in prossimità dell'omonimo castello, annegò travolto dalla corrente. Il F. non valutò a lui favorevole l'accaduto per un vaticinio che aveva previsto la sua fine seguire a ruota quella dell'avversario.
Gli Aquilani, pur debilitati dalla fame, rinsaldarono la volontà di resistere e il 10 spedirono un ambasciatore a Martino V perché ingaggiasse Pietro Navarrino con 400 cavalli. Qualche giorno dopo il medesimo ambasciatore si precipitò ad Aversa, dove era giunto anche Francesco Sforza, dalla regina la quale però non apparve più risoluta a combattere il F. con cui aveva avviato trattative segrete. Il F., nominato il 14 febbraio capitano di guerra dai Fiorentini per nove mesi con un compenso di 60.000 fiorini, si illuse di chiudere con un nuovo assalto, sferrato il 27 successivo, l'impresa aquilana. Dopo l'insuccesso, pur annunciando a Firenze e Perugia come prossima la conquista della città, cercò segretamente di trattare con la mediazione di Corrado Trinci. La lega formale conclusa tra Giovanna II, Martino V e Filippo Maria Visconti per soccorrere l'Aquila si conobbe in città il 28 marzo. Il 20 aprile le truppe della regina e del duca mossero alla volta degli Abruzzi dove era già il contingente pontificio: tra i capitani spiccavano Francesco Sforza e soprattutto Iacopo Caldora, passato il 12 precedente dal fronte aragonese alla regina. La notizia della lega dette nuovo coraggio agli Aquilani e suscitò immediatamente ribellioni nei castelli presidiati dai bracceschi.
Il 2 giugno gli eserciti si affrontarono nei pressi dell'Aquila: il F. venne pesantemente sconfitto, ferito e fatto prigioniero. Morì il 5 giugno 1424.
Come sempre accade per la morte violenta di un uomo potente e celebre, innumerevoli e contraddittorie sono le versioni relative alla fine: il ferimento forse prima alla gola e sicuramente al cranio è attribuito a vari soggetti (a uno dei quattro famigli del perugino Lionello forse un Michelotti o forse anche un Montemelini, a due familiari di Lodovico Michelotti, ad Armaleo Brancaleone di Foligno, ad un ascolano e a un ternano); la morte sopravvenne non si sa se causata dalla ferita, da alcuni ritenuta non grave, o provocata (Francesco Sforza urtando la mano del chirurgo intento alla medicazione avrebbe provocato l'affondamento dello specillo nella massa cerebrale) o, infine, facilitata dal rifiuto del F. di sopravvivere alla sconfitta e alla prigionia.
Sicuramente il F. aveva sottovalutato la tenacia degli Abruzzesi nonché le risorse, la superiorità numerica, la direzione strategica, l'ostinazione dei collegati, ciascuno fortemente motivato alla sua distruzione. Cause prossime, relativamente sicure, della sconfitta campale possono ritenersi l'ingenuità del piano strategico noto in anticipo agli avversari che, fidando nella promessa del F., scesero nel piano da un'altura conducendo a mano i cavalli; il mancato utilizzo della fanteria, non si sa per quale motivo rimasta in attesa di ordini, mentre quella nemica faceva strage dei cavalli dei bracceschi; la collocazione, per altro non scrupolosamente rispettata forse per smania di bottino, di Niccolò Piccinino con un numero eccessivo di uomini a tutela dell'accampamento e ad argine degli Aquilani; la defezione all'ultimo momento di Giampaolo Orsini e di Antonio Cantelmo con le rispettive compagnie; la riluttanza di alcuni capitani bracceschi ad impegnarsi per una vittoria che avrebbe eliminato ogni ritegno allo spirito tirannico del F.; la determinazione della compagnia di esuli perugini militanti sul fronte opposto al comando di Lodovico Michelotti.
La notizia del ferimento del F. giunse a Perugia la sera di domenica 4 giugno e quella della morte il 6, giorno in cui si tenne "uno gran consiglio" durante il quale al figlio Oddo fu affidata la reggenza di Perugia (data la tenera età del legittimo erede Carlo) e furono a lui affiancati dieci consiglieri; ma lo "Stato di Braccio" costruito e tenuto insieme con guerre continue, minacce, estorsioni, repressioni esemplari, si dissolse con lui.
Il corpo del F., "aperto e male incalcinato" fu trasferito come un trofeo a Roma da Lodovico Colonna e quindi esposto fuori porta S. Lorenzo a ludibrio dei curiali e del popolo; giorni dopo fu seppellito lì presso in luogo sconsacrato su cui venne eretta una colonna, a significare lo schiacciamento del condottiero da parte di papa Colonna. Eugenio IV restituirà le ossa al nipote del F., Niccolò della Stella, il quale nel maggio 1432 le porterà a Perugia ove saranno tumulate con grandi onori in S. Francesco.
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