SGARALLINO, Andrea
e Jacopo
– Nacquero a Livorno rispettivamente il 28 ottobre 1819 e il 9 giugno 1823, figli maggiori, tra i quattro che raggiunsero l’età adulta sui nove nati, di Demetrio Cristofano Ferdinando Antonio (1793-1848) e di Maria Luisa Capanna (1798-1836).
Demetrio era il secondo e unico figlio sopravvissuto del marinaio Giovan Battista Ferdinando, morto non ancora ventiquattrenne pochi mesi prima della sua nascita. Esercitò e trasmise ai figli il mestiere di navicellaio, tradizionale in una famiglia dedita da generazioni alle professioni del mare e a quelle dell’indotto della città portuale, fatto di piccoli trasporti, traffici e mediazioni – o contrabbandi, come si sospettò per Jacopo – e fortemente radicata nel popolare quartiere detto Venezia, da dove si allontanò in favore del sobborgo di Ardenza solo con il taglio imprenditoriale dato da Andrea e dai suoi eredi alle attività di famiglia negli anni Settanta, quando gli Sgarallino gestivano una piccola società di spedizioni, battelli attrezzati al trasporto passeggeri e rimorchiatori e, più avanti, anche uno stabilimento balneare.
Nel 1817 la dote della sposa, in occasione delle nozze di Demetrio e Maria Luisa, rivelava un’estrazione popolare ma anche indizi di una certa qual tranquillità economica, come confermava il buon livello di alfabetizzazione garantito a tutti i figli: Andrea, battezzato con il nome di Ferdinando Antonio Pietro Andrea; Jacopo Pietro Antonio Ferdinando Giovanni; Desiderata Maria (9 ottobre 1825-25 maggio 1901); e infine Pasquale Antonio (3 marzo 1834-22 ottobre 1912). Dei quattro, solo Andrea e Pasquale formarono una famiglia. Andrea sposò il 25 aprile 1846 Maria Giuseppa Gesualda Trivelli (Livorno, 22 maggio 1822-22 gennaio 1890), la sora Beppa di un’aneddotica locale che, con questa figura di popolana, poté estendere a inconsuete ambientazioni subalterne i canonici medaglioni postunitari sul patriottismo femminile. Alla coppia sopravvissero quattro figli: Alpinolo Roberto Giovanni (1847-1907) e Teodoro Costantino Roberto Pilade (1848-1905), nati prima del decennale esilio di Andrea, nel quale la moglie non lo seguì, e i più giovani Nullo Garibaldi Giuseppe (1864-1941; battezzato da fra Giovanni Pantaleo, ebbe a padrino per procura Giuseppe Garibaldi) e Demetrio Lincoln Regolo (1866-1918).
Come suggeriscono l’onomastica e le relazioni accennate, la storia ottocentesca della famiglia Sgarallino costituisce un caso esemplare di politicizzazione e attivismo di segno patriottico e democratico tra i ceti popolari. Già i genitori, Demetrio e Maria Luisa, non erano ignoti alla polizia cittadina per ingiurie e resistenze al suo indirizzo, ma è piuttosto ai contatti della Giovine Italia con l’ambiente dei mestieri organizzati che si deve la prima formazione politica del giovane Andrea, al di là di una generica polemica antigranducale. Se questi coinvolse il fratello Jacopo, il ribellismo del minore faticò però a staccarsi da quella cultura competitiva e facile alla violenza e dai codici dell’onore e della vendetta che caratterizzavano i loro contesti di appartenenza: dai sedici anni Jacopo fu più volte raggiunto da condanne e sanzioni di buongoverno per ferimento e, nel 1844, perfino per «associazione diretta ai delitti di sangue», e scontò diverse detenzioni a Firenze, Livorno e Piombino. Da un’ulteriore condanna del giugno 1846 fu graziato.
Rispetto agli impeti del fratello, alla vigilia del ciclo quarantottesco Andrea appare un aderente riconosciuto del liberalismo radicale, ritenuto capace di una certa influenza sui ceti popolari e al contempo di mediare con le élites cittadine. Attivo tra i sedicenti Amici del popolo nella propaganda clandestina che precedette le riforme liberali, nell’estate del 1847 si impegnò a favore dell’istituzione della guardia civica, oggetto di una diffusa contesa con le autorità governative. Concessa la guardia il 4 settembre (Andrea fu membro della deputazione municipale inviata a Firenze a questo scopo), vi militò come sottufficiale e fu tra quanti seppero orientarla in senso patriottico, contribuendo alla preparazione militare e poi all’inquadramento di numerosi fra i volontari che partirono per la prima guerra d’indipendenza nel marzo seguente, nel battaglione guidato da Giovan Paolo Bartolommei. In esso Andrea fu portabandiera e si distinse in più occasioni. In particolare, il 29 maggio 1848 nei pressi di Curtatone recuperò il tricolore conquistato dall’esercito avversario: l’azione gli valse la prima medaglia al valore e, al ritorno in città, la definitiva consacrazione tra i dirigenti popolari. Nel settembre del 1848 sostenne la Commissione governativa provvisoria che affiancò il Municipio in un’epoca di ripetuti disordini: grazie alla vicinanza a un altro affermato e carismatico radicale di origine popolare, Antonio Petracchi, sedette nella commissione straordinaria per i lavori pubblici e fu eletto capitano, per acclamazione, nella riorganizzata guardia civica. Da allora fu tra quanti, da repubblicani, sostennero la formazione di un ministero democratico e, a inizio 1849, il governo provvisorio di Francesco Domenico Guerrazzi. Durante quell’esperienza, Andrea fu capitano di battaglione – e il fratello Jacopo militò come soldato – nella Giovanni dalle Bande Nere, una delle due colonne armate livornesi chiamate da Guerrazzi a mantenere l’ordine nell’interno della Toscana ai primi segni di reazione. Si trattava di corpi altamente politicizzati e la presenza al loro interno di repubblicani ormai approdati a posizioni intransigenti (come Petracchi e gli stessi Sgarallino), in mezzo a comunità e popolazioni in larga parte favorevoli al ritorno del granduca, spiega il clima da guerra civile, e la duratura leggenda nera, che circondò il passaggio di queste formazioni.
La caduta di Guerrazzi il 12 aprile 1849 sorprese la colonna degli Sgarallino sull’Appennino pistoiese, dove si trovava a salvaguardia del confine modenese. Fu loro concesso di rientrare a Livorno, ma, qui giunti, si rifiutarono di deporre le armi e di accettare la restaurazione del governo granducale e si disposero a un’estrema resistenza. Andrea sedette nella Commissione di difesa, fu capitano di una compagnia di bersaglieri volontari (detti ‘della morte’), che guidò fuori città, a Calambrone, contro le armi toscane – fu questo uno dei principali capi d’imputazione a suo carico nel processo che di lì a poco lo vide tra gli imputati – e combatté nelle drammatiche giornate del 10 e 11 maggio, a cui presero parte anche i fratelli, incluso il giovanissimo Pasquale.
Padrone le truppe asburgiche della città, Andrea e Jacopo presero la via dell’esilio: anche il nome del secondo figurava infatti nelle liste dei ricercati e negli affari riservati del 1849 era segnalato come «capotumulto repubblicano rosso» (Badaloni, 1966, p. 211). Dopo varie peregrinazioni tra Mediterraneo occidentale e orientale, le strade dei due fratelli si separarono. Jacopo si installò a Costantinopoli, dove riprese i mestieri di marinaio e lavoratore portuale, interrotti per ingaggiarsi nella guerra di Crimea, e continuò a fare professione di sentimenti patriottici e radicali. Andrea emigrò negli Stati Uniti, stabilendosi più a lungo in California. Nel 1853 fu raggiunto dalla condanna in contumacia a quindici anni per lesa maestà nel processo Guerrazzi. Anche lui non si ritirò nel privato: fu per anni marinaio, il che gli garantì di ottenere la naturalizzazione nel 1859 a Philadelphia, e tentò persino la fortuna nel gold rush, ma frattanto si avvicinò a Garibaldi, che aveva già incrociato nel 1848 a Livorno, e con lui strinse un rapporto duraturo di affetto e fiducia (nel 1880 Andrea sarebbe stato il testimone nelle sue nozze con Francesca Armosino). Prese inoltre parte all’associazionismo di mutuo soccorso e di matrice massonica fra gli emigrati, giocando un ruolo attivo nelle sottoscrizioni e nelle reti d’informazione che precedettero l’impresa del 1860.
Con questo ruolo, a inizio settembre del 1859, il «temibile Demagogo» Andrea, «fra le persone più temibili in materia politica», «uno dei più attivi della Setta Mazziniana» (Piglini, 1932, p. 137) fu visto rimpatriare, in provenienza dalla sospetta Genova, e tenuto sotto controllo dalle autorità portuali, di polizia e di governo livornesi. Da allora lui, Jacopo – rientrato nel maggio precedente –, il terzo fratello Pasquale e i figli più grandi di Andrea, Alpinolo e Teodoro, sarebbero stati tra i più indefessi combattenti, quando non tra gli organizzatori, di svariate imprese garibaldine. Appena rientrati, furono subito attivi nel reclutamento di volontari per la seconda guerra d’indipendenza. Jacopo militò tra i cacciatori delle Alpi e Andrea guidò un battaglione verso le Romagne. Avvalendosi dei forti legami politici e militari stabiliti un decennio prima, oltre che dei canali aperti dalla loggia massonica Nuova Rivoluzione, che gli Sgarallino fondarono e diressero fin dal loro rientro in città, nella primavera del 1860 proseguirono nell’opera di armamento e reclutamento. Ai primi di maggio, Jacopo partì con un contingente verso Quarto, con il quale da lì si imbarcò sul piroscafo Lombardo, mentre Andrea, insieme a Francesco Lavarello, guidò per mare a Talamone settantasette volontari, ai quali Garibaldi chiese di unirsi alla colonna di Callimaco Zambianchi in un’operazione diversiva ai danni dello Stato pontificio. Non ebbe successo: venuta meno la complicità iniziale del governo toscano, i coinvolti nell’operazione furono arrestati, salvo poi non trovare ostacoli all’evasione: trasferito da Firenze a Livorno, Andrea (come l’altro luogotenente Cesare Orsini, fratello di Felice) riuscì a fuggire e nel luglio seguente era già in Sicilia.
Fino ai suoi ultimi anni si impegnò affinché ai protagonisti di quella diversione fossero riconosciuti gli stessi benefici dei Mille di Marsala. In seguito, fu ferito a Caserta, nuovamente decorato e raggiunse il grado di maggiore, che mantenne nell’esercito italiano, fino al pensionamento nel 1865. Anche Jacopo avanzò nell’ufficialità garibaldina fino al grado di maggiore, e riportò diverse decorazioni, ma a differenza del fratello alla fine dell’impresa si congedò dall’esercito meridionale e rientrò a Livorno a fine 1861.
Anche per questo Jacopo fu in prima linea nelle imprese più arrischiate degli anni seguenti. Dapprima, nel 1862, fu attivo nell’arruolamento di volontari a Livorno – anche mediante l’istituzione, su invito di Garibaldi, di un tiro a segno in città, e sfruttando i canali della Fratellanza artigiana recentemente fondata – e partecipò alla tentata spedizione su Roma a partire dalla Sicilia e dalla Calabria, che si concluse il 29 agosto con gli scontri di Aspromonte. Scontri ai quali non fu presente perché era stato fatto prigioniero nei giorni precedenti. Beneficiò dell’amnistia concessa ai garibaldini compromessi nell’impresa che non fossero militari e tornò a Livorno in tempo per organizzare il trasporto marittimo-fluviale del Generale ferito a Pisa, dove subì l’intervento di estrazione della pallottola dal piede, e per vederlo poi ripartire alla volta di Caprera. Nell’isola Jacopo fece da allora lunghi e reiterati soggiorni, che non passarono inosservati alle autorità preposte alla sorveglianza di un soggetto ritenuto sovversivo. Ancora lui, conoscitore del Mediterraneo orientale, fu incaricato, nel 1863, di consegnare via Costantinopoli agli insorti antizaristi in Polonia le armi raccolte dal movimento democratico, e nel 1867 (con il fratello Pasquale e Ricciotti Garibaldi) quelle destinate alla Grecia. Nel 1866, invece, nella cornice della terza guerra d’indipendenza, in cui a Garibaldi fu ufficialmente affidato il comando dei corpi di volontari, tornò a imbracciare le armi anche Andrea. Lui e Jacopo capitanarono due cannoniere sul Lago di Garda, e Andrea brevemente l’intera flottiglia, ma il tentativo militare si ridusse a una «burletta», come scrisse alla moglie (Livorno, Museo Sgarallino, Salò, 1° luglio 1867).
L’anno seguente ancora Andrea fu al fianco di Garibaldi nel lungo viaggio tra Toscana, Emilia, Lombardia e Veneto in cui il Generale tornò ad agitare la questione romana, prima di venire confinato a Caprera a causa dei preparativi di una nuova spedizione su Roma. Ma da Caprera, in ottobre, Garibaldi riuscì a fuggire grazie all’iniziativa del banchiere livornese Adriano Lemmi e fu ospitato in incognito a casa Sgarallino prima di raggiungere l’Agro Romano, dove i primi tentativi di sconfinamento erano in corso da tempo. Uno era avvenuto sotto il comando di Jacopo: il suo contingente di un centinaio di volontari (tra cui il fratello Pasquale), intenzionato a raggiungere quello al comando di Menotti Garibaldi, naufragò presso Baratti, ma riuscì comunque a penetrare via terra nello Stato pontificio, dove prese parte a vari scontri fino al drammatico epilogo di Mentana.
Se tre anni dopo, tra l’ottobre del 1870 e il gennaio del 1871, Jacopo non figurava tra i volontari accorsi con Garibaldi a Digione in difesa della Terza Repubblica, dipese dal fatto che, negli stessi mesi, si celebrò alla Corte d’Assise di Siena il processo per cui era in stato di arresto da oltre un anno. Il 24 maggio 1869, di passaggio a Livorno, l’ex governatore austriaco della città Franz Folliot de Crenneville, che nei primi anni Cinquanta aveva orientato al massimo rigore la repressione, fu pugnalato. Scampò alla morte, ma non così il suo accompagnatore, il console austriaco Niccolò Inghirami, accoltellato perché avrebbe riconosciuto uno degli assalitori. Episodio tutt’altro che isolato, sebbene tardivo, delle vendette politiche che caratterizzarono la lenta uscita dal ciclo quarantottesco e dalla sua repressione per le frange più radicali, l’omicidio venne imputato a una setta criminale di cui Jacopo sarebbe stato il leader, come si era già provato a dimostrare l’anno precedente nel corso di un altro procedimento, il caso dell’evasione del delinquente comune Pietro Ceneri, in cui Jacopo era stato implicato e assolto. Personaggio noto per la sua storia e assai in vista nell’associazionismo cittadino, nel corso delle seguitissime udienze contribuì a rendere il processo un caso politico-mediatico. Già durante la sua detenzione Garibaldi arrivò a proporsi in ostaggio e ottenne che la sua difesa fosse assunta da un principe del foro come Francesco Carrara, mentre Francesco Crispi e Pasquale Stanislao Mancini sedevano nella difesa di altri imputati. Tutti finirono assolti.
Ciò non toglie che Jacopo, come il coimputato e compagno garibaldino Corrado Dodoli, aderisse realmente a iniziative, come l’Associazione per la vendetta di Mentana, che non rinunciavano, tra gli strumenti di affermazione della democrazia, al gesto dimostrativo e all’attentato individuale. Non stupisce dunque trovarlo, con Dodoli e altri, tentato dal côté anarchico dell’Internazionale, alla cui diffusione a Livorno prese parte attiva dal 1871. Ma se ne staccò nel 1874, dopo il congresso di Ginevra, tornando ad ascriversi tra i «Repubblicani Democratici Sociali» (L’Eco del Tirreno, 5 luglio 1874). Riprese così la via del volontariato armato nei Balcani, tra il 1875 e il 1877, alla testa di una legione italiana partita a sostegno dell’Erzegovina insorta contro l’Impero ottomano e negli anni seguenti sostenne la causa irredentista. Morì a Livorno il 26 dicembre 1879.
Andrea sopravvisse al fratello, pubblicamente onorato dell’intimità di Garibaldi e della sua famiglia (che, morto il Generale, si stabilì ad Ardenza nel 1888) e rispettato presidente della locale Società dei reduci delle patrie battaglie. Morì il 6 marzo 1887.
Se il funerale di Jacopo diede luogo ad azioni dimostrative dei militanti delle associazioni democratiche, gli oltre tre chilometri di ordinato corteo delle esequie laiche del vecchio Andrea, all’insegna del simbolismo massonico e reducistico, delineavano un diverso quadro d’integrazione, da sinistra, negli equilibri politici del nuovo Stato.
A Livorno, i discendenti conservano un archivio familiare, notificato come Museo Sgarallino, contenente carte private (dall’inizio del XIX secolo), passaporti, diplomi, onorificenze, manoscritti, carteggi, libri, ritratti e cimeli. Questi ultimi testimoniano un’attività di conservazione avviata fin dal 1848 attorno a reperti militari, quali il tricolore recuperato da Andrea e poi utilizzato nelle imprese militari del 1859-61 e la bandiera rosso-nera con teschio, emblema dei Bersaglieri della morte, oltre all’anello-insegna del corpo. Nella collezione si segnalano numerose immagini e oggetti raffiguranti Garibaldi, oltre a volumi, abiti e strumenti appartenuti al Generale, e tra gli ultimi che usò in vita, con certificazioni autografe dei suoi eredi, in una sovrapposizione tra effettiva intimità (testimoniata da un corposo carteggio), culto laico delle reliquie patrie e uso sapiente dei meccanismi della moderna celebrità politico-mediatica. Il legame degli Sgarallino con i Garibaldi, variamente e ripetutamente mediatizzato, rappresentò infatti, anche attraverso questa proiezione patrimoniale, un canale di legittimazione sociale e politica duraturo per la famiglia.
Fonti e Bibl.: Livorno, Museo Sgarallino. Inoltre: Collezione storica di tutti gli atti, documenti, dibattimenti, difese e sentenza della celebre causa di Lesa mestà contro F.-D. Guerrazzi, Gius. Montanelli, Gius. Mazzoni e loro consorti compilata sotto la direzione di avvocati toscani, Firenze 1852-1854, I-III, 1-10, passim; Pubblico dibattimento. Nella causa di Omicidio premeditato e di Omicidio premeditato mancato; il primo nella persona del Console austriaco Cavaliere Commendatore Niccolò Inghirami; il secondo nella persona del Generale Conte Francesco Folliot de Crennewille, Livorno 1871; A. De Fusco, Da Livorno a Mentana, Livorno 1909, passim; A. Cristofanini, Garibaldi e Livorno, Livorno 1932, passim; J. Piglini, Camicie rosse livornesi e L. Pratesi, A. e J. S. nei cimeli del loro museo, in Liburni civitas, V (1932), 3, pp. 129-153 e pp. 159-181; N. Badaloni, Democratici e socialisti livornesi nell’Ottocento, Roma 1966, pp. 211, 278-280, 284; M. Deambrosis, La partecipazione dei garibaldini e degli internazionalisti italiani all’insurrezione di Bosnia ed Erzegovina del 1875-1876 e alla guerra di Serbia, in Museo del Risorgimento. Mantova. Atti e memorie, 1967, pp. 33-82; A.P. Campanella, Giuseppe Garibaldi e la tradizione garibaldina, Ginevra 1971, ad ind.; O. Priolo, I fratelli Sgarallino di Livorno e la terza guerra d’indipendenza (1866), in La Canaviglia, V (1980), 4, pp. 126-133; Id., Tre e non due le navi per la spedizione dei Mille, ibid., VII (1982), 1, pp. 3-5; G. Gelati, Il processo Sgarallino, ibid., X (1985), 2, pp. 58-63; M. Landini, Contributi livornesi al Risorgimento, Livorno 1987, passim; Il garibaldinismo livornese nei documenti della raccolta Sgarallino, Livorno 2001, passim; F. Bertini, Risorgimento e paese reale. Riforme e rivoluzione a Livorno e in Toscana 1830-1849, Firenze 2003, ad ind.; Id., Gli anni francesi e il Risorgimento, in La massoneria a Livorno, a cura di F. Conti, Bologna 2006, pp. 99-203; A. Volpi, Il periodo postunitario, ibid., pp. 205-277; F. Bertini, Risorgimento e questione sociale, Firenze 2007, ad ind.; E. Cecchinato, Camicie rosse, Roma-Bari 2007, pp. 160, 165, 333; C. Sonetti, Una morte irriverente, Bologna 2007, pp. 49, 164; E. Gianni, L’internazionale italiana fra libertari ed evoluzionisti, Milano 2008, pp. 616 s.; Antiche ditte livornesi, a cura di A. Porciani, Livorno 2008, pp. 240 s.; Gli Italiani in guerra, I, Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di M. Isnenghi - E. Cecchinato, Torino 2008, pp. 984 s.; R. Ragionieri, Garibaldi a Livorno, Livorno 2011, passim.
e
Jacopo