Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La potenza economica della Repubblica, la sontuosità delle feste di Stato, le frequenti occasioni rituali solennizzate dalla musica attirano a Venezia musicisti da ogni parte d’Europa. Nel corso del Cinquecento la città elabora un proprio stile musicale, basato sulla magniloquenza sonora, sui contrasti timbrici e dinamici, sugli effetti spaziali ottenuti con l’impiego dei cori contrapposti. Quest’arte è portata alla perfezione da Andrea e Giovanni Gabrieli.
Il XVI secolo coincide, per Venezia, con il periodo in cui l’espansione territoriale, la potenza politica e la fioritura delle arti toccano l’apice. L’economia florida, l’editoria musicale attiva, il ricco apparato rituale pubblico e le frequenti occasioni d’impiego rendono la città un polo d’attrazione per i musicisti che vi concorrono in gran numero, attratti anche dalla possibilità di apprendere nuove tecniche e di sperimentare nuove sonorità. Le feste di Stato, religiose e politiche, sono le occasioni più vistose nelle quali si manifesta un’attività musicale intensa e ramificata.
Il prestigio maggiore, in città, spetta alla cappella musicale della basilica di San Marco. Alle dirette dipendenze dei dogi, la cappella è impiegata nei riti ecclesiastici ma anche nelle feste civiche. Può contare su organici imponenti (vi sono attivi 30 cantori, 20 strumentisti, 2 organisti) ed è celebre per l’eccellenza delle esecuzioni. Nel 1527 assume la carica di maestro della cappella ducale il franco-fiammingo Adrian Willaert, che mantiene l’incarico per 35 anni; sotto la sua direzione, la cappella conosce il massimo splendore.
La struttura della basilica di San Marco stimola la sperimentazione di nuove soluzioni sonore.
Nella basilica si fronteggiano due cantorie, ciascuna con un organo proprio (il raddoppio dell’organo è decretato già nel 1490); in ogni cantoria si raccoglie un gruppo corale, composto da voci e da strumenti, che crea una sorta di effetto “stereofonico”, dialogando con il gruppo posto dal lato opposto. Lo stile elaborato in San Marco, divenuto poi peculiare della città e dell’area veneta in generale, valorizza gli effetti spaziali, i contrasti timbrici e dinamici, il principio dell’opposizione tra pieno e vuoto. Ma anche al di fuori della basilica veneziana, in città si sviluppa uno stile magniloquente, caratterizzato da grande opulenza sonora.
La tecnica policorale veneziana, che contrappone due o più cori (detti “spezzati”, o “battenti”), è descritta nel Syntagma musicum di Michael Praetorius. La disposizione fondamentale prevede otto voci, suddivise in due cori contrapposti che si rispondono reciprocamente e si intrecciano in un gioco sempre mutevole. Si può dare mescolanza di cori vocali e cori strumentali, nonché di parti vocali e parti strumentali all’interno dello stesso coro. Ciò permette di sfruttare a fondo il principio dell’opposizione e del contrasto sonoro che possono realizzarsi tra registri strumentali e vocali, tra livelli dinamici, tra episodi omofonici e altri contrappuntistici.
Inaugurano la prassi policorale nelle pubblicazioni a stampa I salmi a uno et a duoi chori di Willaert (1550). Gli allievi Gioseffo Zarlino e Nicola Vicentino la codificano poi nei loro rispettivi trattati teorici: le Istitutioni harmoniche (1558) e L’antica musica ridotta alla moderna prattica (1555).
La tecnica dei cori divisi e contrapposti viene perfezionata da Andrea Gabrieli: nella sua produzione la musica profana ha, per la prima volta, pari dignità di quella sacra. Nei sette libri di madrigali pubblicati, Gabrieli si ricollega allo stile di Willaert (vi hanno scarso peso il cromatismo e la coloratura vocale), mostrando però un gusto inedito per il colore, per l’animazione ritmica, per le progressioni armoniche grandiose. Le composizioni sacre consistono, in gran parte, nei mottetti compresi all’interno delle Sacrae cantiones (1565) e delle Ecclesiasticae cantiones (1576), e nei Psalmi Davidici a sei voci (1583). Gabrieli vi applica la tecnica imitativa con molta libertà, allontanandosi dalle tecniche fiamminghe: ricerca una declamazione naturale e il senso del colore, tramite sempre nuove combinazioni dei gruppi vocali.
Nell’opera di Andrea Gabrieli rifulge l’arte tipicamente veneziana della policoralità in tutto il suo splendore. Le composizioni a più cori applicano sistematicamente il gioco degli ispessimenti e degli assottigliamenti sonori: Gabrieli sfrutta gli effetti spaziali, alterna e riunisce i cori, utilizza effetti d’eco, impiega combinazioni di voci e strumenti ricche e versatili, alterna una possente declamazione corale a una moderata polifonia imitativa.
Quasi tutte le composizioni policorali sono comprese nei Concerti che includono parti della messa, un Magnificat e brani profani (la raccolta è pubblicata postuma nel 1587 dal nipote Giovanni assieme ad alcune sue composizioni). La fama di Andrea, come compositore e organista, è vasta: oltre che in Italia si estende – grazie ai numerosi viaggi all’estero e alle relazioni personali – in Austria, in Baviera, in Svevia e in Boemia. A Monaco è in stretto contatto con Orlando di Lasso, ad Augusta con i Fugger; molti allievi si recano a Venezia per studiare con lui. Le sue opere conoscono numerose ristampe e, fino a metà Seicento, l’opera di Andrea Gabrieli esercita un influsso durevole.
L’eredità artistica di Andrea Gabrieli è raccolta dal nipote Giovanni Gabrieli, che gli succede come primo organista in San Marco. Nel 1587 (Andrea è morto da due anni) Giovanni pubblica i Concerti per voci et stromenti musicali: una raccolta di composizioni sacre e profane per vari organici, da 6 a 16 voci, la maggior parte delle quali appartiene ad Andrea (la raccolta segna la prima apparizione storica del temine “concerto”). Nei suoi brani, Giovanni Gabrieli amplia notevolmente la varietà degli effetti policorali: impiega le stesse tecniche di Andrea, ma mostra più sensibilità per il colore, più vivacità ritmica, e sfrutta più a fondo le combinazioni timbriche tra cori e tra strumenti. Oltre a intensificare i tratti che già distinguevano la musica dello zio, Giovanni sfrutta sistematicamente la declamazione ritmica, facendo cantare tutte le voci per accordi pieni, facilitando così la chiara percezione delle parole.
Le Sacrae symphoniae (1597), che comprendono brani sacri e opere strumentali, recano in partitura l’indicazione degli strumenti da usare: vengono menzionati viole da braccio, organi, cornetti, tromboni. Talvolta compaiono anche prescrizioni dinamiche, come avviene nella Sonata pian e forte. Le Symphoniae sacrae, pubblicate postume nel 1615, accentuano i caratteri peculiari della scrittura strumentale, non più ricalcata solo su modelli vocali; episodi strumentali intervengono infatti con funzione di preludio o di interludio; mentre in alcune sezioni il canto solistico florido tradisce l’influenza del nuovo stile monodico.
Le Canzoni e sonate (1615) sono, a tutti gli effetti, musica strumentale pura, che si ricollega alla tradizione della canzone francese piuttosto che a quella del ricercare imitativo a quattro voci. Il principio della policoralità è dominante: anziché l’imitazione continua prevalgono le strutture accordali, secondo una tecnica mediata dalle grandi composizioni mottettistiche.
L’influsso di Giovanni Gabrieli è assai vasto: la sua fama eguaglia, soprattutto in Germania, quella di Andrea. Heinrich Schütz, che si reca a Venezia per studiare con lui, resterà per tutta la vita debitore nei confronti del maestro; al suo stile si ispirano anche Giovanni Croce nelle sue messe policorali e Claudio Monteverdi nel Vespro della beata Vergine (1610).