CORSINI, Andrea
Nacque a Roma l'11 giugno 1735 quintogenito dei sette figli del principe Filippo (1706-1767) e di Ottavia Strozzi, figlia del principe Lorenzo, in quella nobile famiglia fiorentina che proprio in quegli anni aveva dato alla Chiesa papa Clemente XII (1730-1740). Questi era, infatti, zio paterno del nonno del C., Bartolomeo Corsini (1683-1752), a sua volta fratello del cardinale Neri Corsini iunior (1685-1770).
Dei fratelli dei C., il primogenito Bartolomeo (1729-1792), erede dei titoli e dei beni dei Corsini, fu dapprima a Roma comandante della guardia nobile pontificia, quindi, stabilita la residenza a Firenze, fu nominato ciambellano di Giuseppe II e poi consigliere intimo di Leopoldo II; il secondogenito, Lorenzo (1730-1802), ottenne già nel 1734 il ricco priorato di Pisa dell'Ordine dei Cavalieri di Malta (sorsero aspre critiche contro questo aperto atto di nepotismo di Clemente XII) e dal 1765 fu cavallerizzo maggiore di Pietro Leopoldo e consigliere intimo di Giuseppe II. Delle quattro sorelle, Vittoria, nata nel 1731, sposò il duca di Bracciano, L. Odescalchi; Teresa, nata nel 1732, divenne moglie del duca di Sermoneta, F. Caetani; Lucrezia, nata nel 1740, andò in sposa al duca di Galliera, G. M. Altemps; l'ultima, Giovanna, si accasò nel 1763 con il duca di Giove, G. Mattei.
Il C. venne destinato alla carriera ecclesiastica e, per la prima educazione, al pari dei due fratelli, fu affidato alle cure di mons. G. G. Bottari, dotto erudito in fama di giansenista.
Questi concepì subito ottime speranze nel C.: "Se il signor don Andrea non cangia naturale nel crescere, vuol essere savissimo oltre ogni credere. Egli non manca di spirito, ma non si perturba di niente, e niente desidera eccessivamente e mostra una somma indifferenza, onde non si dà mai il caso che egli pianga. Inoltre è oltre modo metodico... Questa costanza, e questa spassionatezza sono infinitamente valutabili, e beato chi l'ha, e ben pochi, ma pochi uomini così fatti si trovano al mondo" (Roma, Bibl. d. Acc. dei Lincei, Mss. Cors. 1910, c. 402: lettera dei Bottari al nonno del C., Bartolomeo, senza data, ma sicuramente dell'aprile 1739).
Vestito l'abito clericale, il C. proseguì la sua istruzione sotto la guida del prozio Neri Corsini, del Bottari e di P. F. Foggini: dalla consuetudine con questi ecclesiastici, più che da studi teologici che egli trascurò alquanto, nacquero in lui la propensione per il rigorismo giansenistico e l'avversione per la morale dei gesuiti.
Negli anni 1756-57 il C. viaggiò a lungo. Incaricato da Benedetto XIV di portare la berretta cardinalizia al patriarca di Lisbona, F. de Saldanha, partì da Roma nel maggio 1756; soggiornò per quindici giorni ad Aranjuez, presso la corte spagnola, e brevemente a Madrid (giugno-luglio), giungendo il 25 luglio a Lisbona, sconvolta dal disastroso terremoto del dicembre precedente e ancora tormentata da scosse telluriche. Compiuta la sua missione, il C., dopo aver toccato Compostella e Valladolid, giunse il 5 dicembre a Parigi, ove fu ospite dell'ambasciatore di Portogallo.
Qui seguì con interesse la controversia relativa alla condanna del giansenismo (che "tiene agitato e diviso il Paese, e credo che se il Re non viene a qualche gran resoluzione, il che sarà molto difficile, non potrà rimediar niente: la Bolla del Papa è stata, ed è continuamente maltrattata con delle lettere, che i Giansenisti più arrabbiati gli scrivono contro; bisogna veramente che Sua Santità sia stato forzato a farla, e v'è chi dice che sia stata fatta qua; tanto il parlamento d'Orleans, quanto questo l'hanno subito soppressa come perturbatrice della pubblica tranquillità": ibid., cod. Cors. 2497 quater, lett. dei C. a Neri Corsini, 13 dic. 1756), non senza mostrare una equilibrata capacità di discernere gli aspetti religiosi dalle implicazioni politiche.
Lasciata Parigi l'11 marzo 1757, passò per Lione, Torino, Milano, Venezia, Padova (ove fece visita al cardinale Rezzonico), Bologna. Rientrato a Roma, divenne vicario del cardinale arciprete della basilica lateranense e l'anno successivo (1758) protonotario apostolico del numero dei non partecipanti. Il 24 sett. 1759, appena ventiquattrenne, fu elevato dal nuovo papa Clemente XIII (che doveva sdebitarsi con Neri Corsini per l'appoggio prestato alla sua elezione) al cardinalato, con il titolo diaconale di S. Angelo in Pescheria (19 novembre). Il 25 marzo 1760 ricevette gli ordini minori e venne assegnato alle congregazioni dei Riti, Immunità ecclesiastica, Concistoriale, delle Acque.
Da allora il C. divenne, al pari dello zio Neri, un punto di riferimento per i gruppi antigesuiti e filogiansenisti romani e non romani, per la protezione che poteva accordare loro agendo all'interno della Curia. Non si fece, invece, alcun conto su una sua azione positiva in campo dottrinale, per la sua scarsa conoscenza delle materie teologiche e giuscanoniche (vedi il giudizio di A. Niccolini in Corsin. 1891, cc. 313 s.: lettera del 15 ott. 1759 a G. G. Bottari); deficienze dottrinali che fecero tramontare la sua candidatura a successore del cardinal Passionei come ponente nella causa di beatificazione di J. Palafox, tanto a cuore agli antigesuiti.
Nonostante ciò, per la sua collocazione familiare e la giovane età, egli fu ritenuto il naturale erede dello zio Neri Corsini come uno dei capi del "partito" antigesuitico che si radunava nel circolo dell'Archetto nelle sale di palazzo Corsini alla Lungara (nel 1762 vi era chi vedeva in lui "la mano che un dì speriamo vedere sterminatrice de' Pelagiani, Semipelagiani, e tutti i loro figli e pronipoti e abnepoti"; cit. in Dammig, p. 120 n. 2). Tra i suoi protetti in quegli anni vi fu, tra gli altri, lo scolopio giansenista Martino Natali, professore di teologia nel collegio, che, allontanato da Roma nel 1763 per aver pubblicato delle tesi antimolinistiche, fu fatto ritornare grazie alle pressioni del C. dopo un solo anno di permanenza ad Urbino.
Stretti erano i suoi rapporti con la diplomazia portoghese nella lotta contro la Compagnia: in collaborazione con il ministro F. de Almada e con il libraio romano N. Pagliarini procurò la diffusione a Roma degli opuscoli antigesuitici e anticuriali provenienti dal Portogallo. Dopo la rottura dei rapporti diplomatici tra questo e la S. Sede, egli perorò a più riprese presso Clemente XIII la causa di quella corte e le sue richieste per la soppressione dei gesuiti e per le nomine vescovili; e se non è prudente condividere la conclusione del Crétineau-Joly, secondo cui "le cardinal André était le complice de Pombal" all'interno della Curia romana (I., p. 70), è certo comunque che il suo zelo filoportoghese apparve tanto evidente da costargli il favore del papa, da cui fu spesso discriminato.
Morto Clemente XIII, prima che iniziasse il conclave, il C. si fece prete (2 febbr. 1769). Il suo ruolo in questa occasione non risultò molto importante. Anche se una sua candidatura non sarebbe stata sgradita alle corti (a lui favorevoli erano i giudizi dell'incaricato d'affari spagnolo T. de Azpuru, dell'ambasciatore francese marchese J. H. d'Aubeterre, dell'agente spagnolo N. de Azara e dell'agente napoletano Centomani), la troppo giovane età impedì che essa venisse presa in seria considerazione. Nella prima fase del conclave tentò di porsi mediatore tra il partito delle corti borboniche e quello Rezzonico, sostenendo la candidatura del Fantuzzi, gradito anche agli zelanti. Ma nel momento decisivo seguì il suggerimento dell'Almada, favorendo l'elezione del Ganganelli.
Sotto il nuovo pontificato il C. godette di maggiore considerazione. Avuto l'11 sett. 1769 il titolo presbiteriale di S. Matteo in via Merulana, nominato camerlengo del S. Collegio nel 1771, protettore del regno d'Inghilterra dal marzo 1773, egli poté influire positivamente nella composizione dei dissidi con il Portogallo, dalla cui corte ottenne una cospicua pensione, e premere discretamente sul papa per la soppressione della Compagnia di Gesù. La sua condotta in questo "affare" fu molto prudente e improntata al disegno di evitare un coinvolgimento troppo aperto: nel giugno 1773, ad esempio, rifiutò la nomina a visitatore del noviziato romano dei gesuiti. Non gli riuscì tuttavia di sottrarsi alla designazione a membro della congregazione speciale "Pro exsequendo brevi suppressionis Societatis Jesu", istituita ufficialmente il 13 ag. 1773. ma già in piena attività dal 6 agosto; ne facevano parte, oltre al C., che ne divenne il prefetto, i cardinali Carafa, Casali, Compagnoni Marefoschi e Zelada, i prelati Alfani e Macedonio e i teologi Cristoforo da Casale e Mamachi. A questa congregazione, che pubblicò il breve di soppressione della Compagnia datato 21 luglio soltanto il 19 agosto, furono attribuiti amplissimi poteri. Tra l'altro, il C. fu costretto, onde evitare iniziative contrarie alla decisione del papa, a prendere provvedimenti restrittivi della libertà nei confronti del generale e di altri superiori e teologi gesuiti, che vennero rinchiusi in Castel S. Angelo. La congregazione dovette anche occuparsi della destinazione dei beni della soppressa Compagnia, della sostituzione degli insegnanti nelle cattedre già occupate dai gesuiti, della sopravvivenza dell'Ordine in quegli Stati - come la Russia e la Prussia - che non riconoscevano validità al breve di soppressione, degli episodi di fanatismo che raggiunsero un apice nelle profezie di Anna Teresa Poli e di Bernardina Benzi circa la sicura punizione divina contro i responsabili della "congiura" antigesuitica.
Il comportamento del C. in particolare fu tacciato di eccessiva durezza dalla pubblicistica filogesuitica (Crétineau-Joly, Pastor): la scarsa documentazione finora disponibile, se non consente di chiarire con precisione le responsabilità individuali di ciascuno, permette, però, di accertare che - tanto nell'istruzione del processo, quanto nello stabilire il trattamento carcerario di rigorosa segregazione nei riguardi del padre L. Ricci e dei suoi compagni di detenzione - le direttive fondamentali vennero impartite direttamente dal pontefice (Clemente XIV prima e Pio VI poi), su cui premevano fortemente i diplomatici delle corti, specialmente di quella spagnola.
Nel luglio del 1775, il C., preoccupato per le condizioni di salute del Ricci determinate dalla rigida prigionia, giunse a scrivere a Pio VI che "nel breve tempo che continuerò questa commissione non voglio esser garante di tutto questo, e molto meno delle perniciose conseguenze che produrrebbe la mala custodia dei carcerati in Castello" e il 23 agosto, in una lettera al ministro spagnolo della Giustizia, M. de Roda, chiariva di essere rimasto in carica soltanto per compiacere la corte di Spagna, ma di non esercitare alcun potere effettivo, in quanto "i ministri borbonici tra loro uniti convengono di tutto con Sua Santità, ed io eseguisco gli ordini stabiliti" (Cors. 2561). Ritiratisi dalla Congregazione il Compagnoni e il Castelli, le decisioni operative furono in gran parte prese dallo Zelada, che fin dall'inizio vi ebbe un ruolo predominante: già nel novembre 1773, ad esempio, aveva escluso dalle nomine alle cattedre vacanti del Collegio Romano G. Zola e P. Tamburini, preferendo gli ex gesuiti Cunich e Lazzari, con disappunto dei giansenisti che lamentavano la debolezza del C. (cfr. il giudizio di F. De Vecchi, in Codignola, Il gians. toscano, I, pp. 166 s.).
Cessato nel febbraio 1776 da questo incarico il C. - che nell'aprile era stato nominato membro della congregazione incaricata della visita apostolica nel convento della Chiesa Nuova, ove si era costituito un circolo accusato di giansenismo -, vinta l'opposizione dei cardinali filogesuiti del S. Collegio (cfr. Lett. ined. di G. Marini, II, p. 101; Codignola, Il gians. toscano, I, p. 277), fu nominato da Pio VI vescovo di Sabina (15 luglio 1776). Consacrato il 21 luglio dal cardinale di York, prese possesso della diocesi nella cattedrale di S. Liberato a Magliano Sabina il 25 luglio.
Si dedicò subito con grande zelo e rigore morale all'attività pastorale, iniziando nello stesso anno la visita, che interruppe per istruire il popolo mediante missioni e predisporre l'organizzazione ecclesiastica per tale operazione. Si prese frattanto cura del seminario, affidandone la supervisione al Foggini. Finalmente nel maggio del 1779 riprese la visita, che fu lunga e accuratissima e completata nel 1783 (gli atti sono in settantacinque volumi nella sez. Corsiniana della Bibl. dell'Accad. del Lincei: cfr. l'inventario in Savini Nicci, pp. 197-204), percorrendo le sessanta parrocchie della diocesi che contava oltre 30.000 anime, 329 chiese, 22 monasteri, 6 ospedali, 16 Ospizi, 3 Monti di pietà c 259 confraternite. Una relazione della visita fu trasmessa nel 1784 alla Congregazione del Concilio, che ne lodò l'accuratezza definendolo "un documento non solo di vasta erudizione, e profonda dottrina de Sagri canoni, e costituzioni apostoliche, ma ciò che è più rimarchevole, di carità, di zelo, di pastoral vigilanza, onde l'onor d'Iddio vieppiù si accresce in quella diocesi, l'ecclesiastica disciplina mantiensi, la giurisdizione episcopale si difende, ai ministri del santuario, e ai pastori di anime si reca lume, ed esempio, ed al resto del popolo sollievo e profitto" (Arch. Segr. Vat., Concilio): si metteva in evidenza la costruzione delle chiese parrocchiali di Mentana e Stimigliano e il restauro di quella di Collevecchio; le cure per il seminario, la chiusura delle vecchie "squallide ed umide carceri perniciosissime alla salute de' miserabili", sostituite dal palazzo della cancelleria vescovile (ibid.).Una seconda visita fu dal C. compiuta tra il 1785 e il 1790.
Mentre forniva prove concrete di rigore morale - tra l'altro, pur non avendone l'obbligo, risiedeva per molti mesi nella sua diocesi, a Magliano e a Monterotondo -, il suo atteggiamento nei confronti dei giansenisti subiva un'evoluzione molto comune negli ambienti romani che fino ad allora avevano simpatizzato per essi. Particolarmente attento a proteggere il gruppo toscano, per i legami che la sua famiglia intratteneva con il governo leopoldino, il C. fino all'inizio degli anni '80 si mostrò convinto che il disegno riformatore del granduca potesse favorire una riforma della Chiesa in senso rigorista e antimondano, nel pieno rispetto della dottrina e dell'assetto gerarchico tradizionale. Muovendo da queste premesse, sostenne presso Pio VI la nomina di S. de' Ricci a vescovo di Pistoia e Prato, che egli stesso consacrò a Roma (25 giugno 1780), approvandone i primi atti pastorali.
Lodò, ad esempio, la prima istruzione di questo sul digiuno in tempo di quaresima, giudicata "secondo lo spirito della primitiva Chiesa" (Arch. di Stato di Firenze, Arch. Ricci, filza 72, n. 9, 16 marzo 1781); approvò la lettera pastorale Sulla nuova devozione al Cuor di Gesù del 3 giugno 1781, che trovò "bellissima" e tale da non essere "disapprovata dal papa come forse qualcuno crederà, perché io so in ciò come pensa", aggiungendo che "son finite le tenebre, e l'imposture lojolitiche" e il "tempo delle persecuzioni" (ibid., n. 14, 30 giugno 1781); concordò con il rigore mostrato dal Ricci nel reprimere gli episodi di deviazione morale scoperti nel monastero di S. Caterina di Prato. Ma proprio in quest'ultima circostanza, pur adoperandosi presso il papa - in ciò anche sollecitato dal governo granducale - per far concedere al vescovo di Pistoia le facoltà canoniche per agire nei confronti dell'Ordine domenicano, che aveva la giurisdizione ordinaria sul convento, il C. comprese il disappunto di Pio VI per il fatto "che non si sia potuto ricoprire col manto della carità l'affare delle monache, e che con scandalo universale se ne parli dappertutto" (ibid., n. 23, 21 luglio 1781) e raccomandò al Ricci di essere più prudente. Dopo aver indotto il pontefice a scrivere un breve (29 ag. 1781) che chiudeva la controversia con soddisfazione generale, di fronte alle espressioni violentemente antipapali che il Ricci continuava a usare nelle sue lettere, il C. prese rapidamente le distanze: "Le occupazioni del mio Vescovado mi tolgono il tempo di distrarmi in altri affari, specialmente ora, che devo andare in Visita, sicché se io non corrispondo alle commissioni che mi danno gli amici, non l'attribuischino a mia mala volontà, ma alle suddette occupazioni, che me lo impediscono" (ibid., n. 36, 15 sett. 1781). In seguito, senza mai entrare nel merito dei contrasti tra Roma e il vescovo di Pistoia, non cessò di ricordare a questo la virtù della prudenza: i suoi rapporti con il Ricci si limitarono a scarni biglietti augurali che, significativamente, alla fine del 1789, auspicavano o quei lumi, e quella carità, che tanto contribuisce all'unità e pace della Chiesa tanto necessaria per il buon governo della medesima" (ibid., filza 73, n. 813, 30 dic. 1789).
Fin dal febbraio 1785 il De Vecchi informava da Roma il Ricci che non si poteva avere più fiducia nel C., i cui sentimenti sarebbero mutati a causa dei cattivi consiglieri di cui si circondava (Dammig, p. 232). In realtà l'atteggiamento del C. non era mutato per un ripudio del rigorismo o dell'antigesuitismo, ma per il rifiuto del radicalismo ricciano nelle materie ecclesiologiche. In questo ambito il C. si mostrò intransigente nel difendere il potere di giurisdizione del papa su tutta la Chiesa, come quando, come membro della Congregazione Concistoriale, fu chiamato a dare il suo voto circa l'intenzione dei neoeletti vescovi di Fulda, A. von Harstall, e coadiutore di Magonza, Karl Th. von Dalberg, di mutare la formula della professione di fede nella parte che prometteva la soggezione all'autorità del papa: egli giudicò che, per mantenere l'unità della Chiesa, "il Papa non può approvare le mutazioni fatte nei soliti giuramenti" e che "se tra due mesi non lo faranno nelle mani del Nunzio di Colonia ... si intenderanno soggetti alle disposizioni del Jus Canonico, le quali portano sospensione a munere Episcopali" (Cors. 2650, s. VI, b. 5).
Proclamato nel 1792 lo stato di guerra tra lo Stato della Chiesa e la Francia rivoluzionaria, il C. fu sollecitato più volte dal governo toscano a intervenire sulla Curia per favorire un contatto tra le due parti: alla fine del 1792, su sollecitazione dell'incaricato d'affari francese a Firenze, A.-J.-M. Fourvet de La Flotte, il marchese Manfredini chiese al C. di preparare il terreno per la missione a Roma del Bassville. Dopo l'assassinio di questo, nel febbraio 1793 fu lo stesso granduca a offrirsi come mediatore per il ristabilimento dei rapporti diplomatici tra i due Stati, chiedendo al C. di premere su Pio VI perché desse soddisfazione alla Francia, punendo gli autori del delitto e accogliendo come agente o incaricato d'affari a Roma F. de Cacault; ma l'intervento del C., che pregò il papa di prendere "nella più seria considerazione" l'offerta del governo toscano, si scontrò con la più totale intransigenza (Cors. 2545, fascicolo 2).
Il 10 dic. 1793 egli fu nominato vicario generale per la diocesi di Roma. Poco più di un anno dopo morì il 19 genn. 1795 e fu sepolto nella cappella di famiglia in S. Giovanni in Laterano.
Fonti e Bibl.: Le carte del C. si trovano nella Bibl. dell'Accad. naz. dei Lincei, Sezione Corsiniana, Cors. 2650, Archivio del card. A. Corsini. Tale archivio consta di trecentododici buste divise in sei serie: I, Inventari e titolari; II, Registri copialettere; III, Corrispondenza; IV, Amministrazione; V, Diocesi di Sabina; VI, Varia (cfr. A. Petrucci, Fondi docum. ignoti della Bibl. dell'Accad. naz. dei Lincei, in Rend. dell'Accad. naz. dei Lincei, cl. scienze morali, S. 8, XIII [1958], pp. 240 s.). Le carte ivi conservate datano per lo più dal 1772 e non riguardano le controversie religiose e l'attività del C. in seno alla Curia e alle congregazioni romane. Per una ricostruzione della biografia del C. è perciò necessario consultare la documentazione sparsa in vari altri codici e buste della stessa sezione Corsiniana. Oltre al necrologio di M. F. Gagliuffi, De laudibus A. C. cardinalis oratio, Roma 1796, esistono sul C. alcuni brevi profili biografici: G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-eccles., XVII, p. 286; L. Passerini, Geneal. e storia della famiglia Corsini, Firenze 1858, pp. 183 s.; V. Corsini, I Corsini, Milano 1960, p. 41; A. Ilari, I cardinali vicari. Cronologia biobibliografica, Roma 1962, p. 14; Enc. cattolica, IV, col. 660. Altre notizie biografiche in: Notizie per l'anno 1759, Roma 1759, p. 74; ... 1760, ibid. 1760, p. 117; ... 1798, ibid. 1798, p. 38; Lettere ined. di G. Marini, II, Lettere a G. Fantuzzi, a cura di E. Carusi, Città del Vaticano 1938, pp. 33, 37, 44, 88 s., 101, 368; III, App., ibid. 1940, p. 62; F. Masson, Le cardinal de Bernis depuis son ministère, 1758-1794, Paris 1884, pp. 110, 223; Id., Les diplomates de la Révolution, ibid. 1882, pp. 118, 124; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recent. aevi, VI, Patavii 1958, p. 22. Sul ruolo avuto dal C. nella soppressione della Compagnia di Gesù, cfr. Bibl. dell'Accad. naz. dei Lincei, Mss. Cors. 2561 e 2561 bis; J. Crétineau-Joly, Clément XIV et les jésuites, Paris 1848, pp. 6, 37, 69 s., 206, 208, 210, 214, 219, 381 s.; A. Theiner, Histoire du Pontificat de Clément XIV, d'après des documents inédits des archives secrètes du Vatican, Paris 1852, I, pp. 181, 188, 199, 212 s., 225, 233; II, pp. 262, 337, 339, 341 ss., 410, 493, 496, 500, 503; Clementis XIV Pont. Max. Epistolae et brevia ..., a cura di A. Theiner, Parisiis 1852, pp. 259, 330-353, 358 s., 364, 367 s.; L. von Pastor, Storia dei papi, XVI, 2, Roma 1933, ad Indicem. Sulla partecipazione del C. ai conclavi per l'elezione di Clemente XIV e Pio VI: F. Petruccelli della Gattina, Hist. diplomatique des conclaves, IV, Bruxelles 1866, pp. 182, 214; L. Berra, Il diario del conclave di Clemente XIV del card. F. M. Pirelli, in Arch. della Soc. romana di storia patria, LXXXV-LXXXVI (1962-1963), pp. 43, 47, 50 s., 62, 68, 133 s. Per i rapporti avuti dal C. con i giansenisti: S. de' Ricci, Memorie, a cura di A. Gelli, Firenze 1865, I, pp. 47, 100 s.; A. C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928, pp. 105 s., 333, 359;P. Savio, Devozione di mgr. A. Turchi alla S. Sede, Roma 1938, p. 954; B. Matteucci, Scipione de' Ricci, Brescia 1941, pp. 22 ss., 61, 63; Carteggi di giansenisti liguri, a cura di E. Codignola, Firenze 1941-42, ad Indicem;E. Codignola, Il giansenismo toscano nei carteggi di F. De Vecchi, Firenze 1944, 1, pp. 29, 153, 157, 166 s., 277; II, p. 114;E. Damming, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del sec. XVIII, Città del Vaticano 1945, ad Indicem; E. Appolis, Entre jansénistes et zelanti. Le tiers parti catholique au XVIIIe siècle, Paris 1960, pp. 370, 422; Il giansenismo in Italia, Collez. di documenti, a cura di P. Stella, I, 1, Piemonte, Zürich 1966, pp. 282, 289 s.; 1, 2, Piemonte, ibid. 1970, pp. 84, 312, 321; sivedano inoltre le lettere indirizzate dal C. al Ricci in Arch. di Stato di Firenze, Archivio Ricci, filza 72, nn. 9, 14, 16, 19, 20, 22, 23, 27, 36, 45, 55, 74, 112, 120, 138, 151, 178, 183; filza 73, nn. 17, 241, 423, 685, 813; filza 74, n. 189.Per il vescovado di Sabina cfr. Arch. Segr. Vaticano, Concilio, Relat. ad limina, 701B; Roma, Bibl. dell'Accad. naz. dei Lincei, Cors. 2650, serie IV e V; O. Savini Nicci, Gli atti della S. Visita del card. A. C. (1779-1782), in Latina gens, XIII (1935), pp. 193-206.