COPPOLA, Andrea
Nacque a Napoli il 2 dic. 1770 da Francesco, duca di Canzano, e da Beatrice Carafa dei principi di San Lorenzo; erede di una delle più illustri e antiche famiglie della nobiltà napoletana, con rami a Scala, Samo e Salemo, assunse i titoli di duca di Canzano, principe di Montefalcone, conte di Priego e grande di Spagna di prima classe.
Già adolescente diede prova di ingegno versatile, dedicandosi allo studio delle scienze naturali ed esatte e della letteratura; fu egli stesso poeta vivace e compose versi che furono ben apprezzati dagli amici, ma che per modestia non volle mai pubblicare. La sua ricca erudizione e l'amore per le scienze gli valsero l'elezione a socio della R. Accademia delle scienze di Napoli, e la stima e l'amicizia di dotti italiani e stranieri, massimamente spagnoli e francesi.
Liberale per tradizione di famiglia, per educazione e temperamento, strinse rapporti d'amicizia con alcuni giacobini del Molise ove risiedeva spesso, avendo colà alcuni feudi: M. Pepe di Civitacampomarano, V. Ricciardi di Palata, C. Le Maitre di Lupara, marchese di Guardialfiera, S. Vincelli, G. Belpussi; inoltre tra la fine del '94 e i primi del '95 prese a frequentare le "conversazioni", ufficialmente filosofiche ma in realtà di netta impostazione politica, che si tenevano nel casino della baronessa di Castelbottaccio.
Fino a che punto il C. condividesse l'ideologia giacobina è poco chiaro: certo è che egli non si oppose a che nella sua "conversazione" si leggesse ed interpretasse la costituzione francese; e questo, insieme alla frequentazione degli ambienti giacobini, bastò, nel clima di terrore che imperversava in quegli anni, perché fosse indicato come uno dei più pericolosi cospiratori del Regno. Infatti il dilagare dei clubs giacobini, la diffusione sempre più massiccia della propaganda rivoluzionaria, la scoperta della congiura del '94 avevano provocato una persecuzione indiscriminata da parte del governo borbonico contro ogni individuo anche solo sospetto di simpatia per le dottrine democratiche francesi.
Il C. fu denunziato come cospiratore forse proprio da uno dei suoi amici, il Le Maltre, che, nel tentativo di salvare se stesso, rivelò tutti i nomi dei giacobini, o presunti tali, del Molise: così nell'aprile del 1795, mentre si trovava nel suo castello di Montefalcone, intento a comporre bonariamente, con l'arbitrato di V. Ricciardi e M. Pepe, una questione di diritti feudali insorta con il Comune di Ripalta, egli fu arrestato sotto l'accusa di giacobinismo e partecipazione alla congiura del '94, e tradotto a Napoli. La giunta di Stato incaricò il preside Montemayor e il fiscale Rapolla della provincia di Lucera, di approfondire le indagini su di lui e sugli altri imputati al fine di far luce sulla reale estensione e sulle responsabilità della cospirazione molisana; ma sul C. si poté accertare solo, "oltre al delitto delle correnti moderne massime, di aver egli venduto tutti i suoi grani a Nizza e di aver anche protetta sotto il suo nome l'estrazione per conto di negozianti de' contorni di ogni sorta di biada per il medesimo destino" (Simioni, II, p. 214). Nonostante che il feroce inquisitore Vanni chiedesse per il C. la tortura e la forca, i giudici non trovarono elementi sufficienti a provare una partecipazione alla cospirazione e a motivame una condanna; ed è da credere dunque ad una sua effettiva estraneità alla congiura, data la scrupolosità con cui la giunta indagò per accertare le responsabilità degli arrestati. Tuttavia soltanto nel 1798, dopo tre anni di carcere, quando peraltro già si approssimavano al Regno le armate francesi, il C. riuscì ad ottenere la libertà.
Instauratasi nel 1799 la Repubblica partenopea, ai cui programmi politici aderì con entusiasmo, il C. fu incaricato d'affari presso la Repubblica romana per conto del nuovo governo napoletano; dopo pochi mesi, con la prima restaurazione borbonica, fu di nuovo arrestato e stavolta, basandosi l'accusa su più scoperte e determinanti scelte politiche, fu condannato, il 17 genn. 1800, all'esilio e al sequestro dei beni.
La condanna gettò il C. con la sua numerosa famiglia, la madre, i fratelli minori, la moglie Francesca Prichard e i cinque figli, in una situazione di grave disagio economico, che egli tuttavia sopportò con coraggio e coerenza, preferendo rimanere in esilio, in Francia, anche dopo la generale amnistia che fu concessa agli esiliati politici con la pace di Firenze del 1801, piuttosto che ritornare in patria malvisto e forse anche perseguitato dalla reazione borbonica. Solo dopo l'ingresso dei Francesi a Napoli nel 1806, e il mutamento politico che il nuovo regime apportò nel Regno e a cui egli diede immediata ed aperta adesione, il C. rientrò in patria: qui si meritò presto la stima e la benevolenza di Giuseppe Bonaparte, il quale lo giudicò "attaccato al governo e bravo e onesto uomo", apprezzando in lui probabilmente non tanto l'incerto passato di giacobino o la sua adesione alla Repubblica del '99, quanto piuttosto le doti di onestà e le sue capacità organizzative e pratiche. Lo nominò pertanto intendente della provincia di Bari, nel quale incarico egli operò con abilità e competenza, mantenendo l'ordine e la tranquillità nella provincia e promuovendo miglioramenti amministrativi.
Non mancò peraltro di protestare, quando lo ritenne necessario, contro l'eccessivo fiscalismo del governo, e soprattutto contro i soprusi e i maltrattamenti compiuti dai commissari governativi; osò tener testa anche al ministro di polizia Saliceti, che accusava il tribunale di Trani di eccessiva indulgenza nei confronti dei sospetti oppositori del regime, e difese apertamente il sindaco di Bitonto, arrestato per motivi fiscali.
Misuratone dunque il talento nelle funzioni pubbliche, Giuseppe Bonaparte lo volle nella capitale e lo nominò intendente della provincia di Napoli.
Il C. mantenne questa carica fino al 1814, nonostante si fosse più volte adoperato, fidando nell'appoggio del Murat e del ministro degli Esteri Gallo, per ottenere la nomina a ministro plenipotenziario a Madrid, ove gli premeva fortemente andare per mettere ordine nell'amministrazione dei beni che possedeva in Spagna, gravemente danneggiati dalla rivoluzione e dalla guerra; succeduto poi a Giuseppe nel 1808 Gioacchino Murat, nemmeno questi volle privarsi di un prezioso collaboratore, che aveva dato così buona prova di sé. Il C. ottenne infine la sospirata nomina nel giugno del 1814, quando la mutata situazione politica non gli permise neppure, molto probabilmente, dì raggiungere la sede.
Alla Restaurazione al C. venne affidato il delicato compito di ottenere dal comandante delle truppe austriache l'esenzione della capitale da contribuzioni di guerra, la inviolabilità dei cittadini e dei loro beni privati, l'entrata di un moderato numero di truppe in città e l'esenzione per i cittadini da alloggiamenti militari. Nello stesso anno, il 1815, Ferdinando I gli affidò la direzione delle Acque e Foreste del Regno; il re voleva promuovere una generale riforma di questo settore dell'amministrazione, rettificando le leggi relative ai boschi e modificando i regolamenti per adeguarli alle reali circostanze e alle esigenze delle province: in questa opera si avvalse dei suggerimenti del C., il quale mise a frutto la buona conoscenza che aveva, per esperienza diretta, dello stato dei luoghi e dei bisogni delle popolazioni.
Infine il 10 sett. 1820, dopo che il re, sotto le pressioni delle forze rivoluzionarie era stato costretto a concedere la costituzione, il C. venne nominato ambasciatore a Madrid, in sostituzione del principe F. Ruffo di Scilla. Ma oramai egli, maturo d'anni, stanco delle vicende, non ambizioso né ricco, considerò questo incarico, cui pure anni prima aveva tanto aspirato, troppo gravoso per sé e chiese invano che fosse affidato ad altri. Costretto a partire, giunse a Madrid ai primi di novembre, ma già nell'aprile del 1821 gli pervenne una lettera speditagli dal Circello subito dopo la fine dell'esperimento costituzionale, che gli intimava l'immediato ritorno in patria. Per poter intraprendere il viaggio il C. dovette vendere fin i suoi effetti personali perché il governo napoletano non gli aveva ancora inviato alcuno stipendio.
Il viaggio di ritorno si interruppe a Parigi, dove il C., dopo aver subito l'umiliazione di non essere ricevuto dall'ambasciatore in Francia, il Castelcicala, seppe da questo, per lettera, che il re non gli permetteva più il ritorno in patria perché, quale agente diplomatico del periodo costituzionale, egli era oramai considerato alla corte di Napoli alla stregua di "agente rivoluzionario".
A nulla valsero le raccomandazioni presso il re dei molti che stimavano il C. e che lo difesero: lo stesso Ferdinando avrebbe voluto fare una eccezione per lui, ma non volle scontentare il Metternich, il quale non le ammetteva per alcuno.
Il C. rimase ancora una volta esule, con la famiglia e privo di mezzi, in una situazione di estremo disagio, fino all'agosto del 1825, quando fu "abilitato al ritorno" in patria.
Ma fu un triste ritorno, perché egli ancora per molti anni fu tenuto in disparte dalla vita pubblica e considerato in disgrazia; solo nel 1829 ottenne da Francesco I una pubblica riabilitazione. Inserito insieme a T. Spinelli, duca di Laurino, e A. Gaetani, principe di Piedimonte, nella tema in cui doveva venire scelto il capo dell'amministrazione comunale della città, fu nominato dal re nuovo sindaco di Napoli: incarico tuttavia che egli riuscì a tenere soltanto per pochi mesi e in cui consumò le residue energie che gli rimanevano.
Il C. morì a Napoli il 10 febbr. 1830
Fonti e Bibl.: Il Regno delle Due Sicilie e l'Austria (1821-1830), a cura di R. Moscati, Napoli 1937, pp. 48, 58 s., 73; L. De Sarnuele Cagnazzi, La mia vita, a cura di A. Cutolo, Milano 1944, p. 88; G. M. Arrighi, Saggio stor. per servire di studio alle rivoluzioni polit. e civili del Regno di Napoli, Napoli 1813, III, pp. 97, 106; S. Gatti, Elogio di A. C. duca di Canzano, in Elogi, Napoli 1833, II, pp. 145-58; P. Colletta, Storia del reame di Napoli, a cura di N. Cortese, I, Napoli 1953, pp. 325, 350 ss.; III, ibid. 1957, pp. 210, 354 s.; A. Sansone, Gliavven. del 1799nelle Due Sicilie, Palermo 1901, p. 307; J. Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte, Paris 1911, pp. 192, 366, 395 s.; A. Simioni, Le origini del Risorg. polit. dell'Italia meridionale, Messina 1925, II, pp. 211 s., 214; A. Cutolo, Il Decurionato di Napoli (1807-1861), Napoli 1932, pp. 19 ss., 40, 184.