CONTRARIO, Andrea
Nacque a Venezia agli inizi del secolo XV da una famiglia di origine ferrarese, i cui componenti, grazie alle benemerenze verso la Repubblica, erano stati ascritti al Maggiore Consiglio.
Non conosciamo i maestri e le scuole frequentate dal C., né l'età in cui intraprese la .carriera ecclesiastica; egli appare tuttavia dalle testimonianze dei contemporanei dotto in greco e in latino e fin dalla giovinezza vicino ai circoli dell'umanesimo veneziano. Assai importanti furono i suoi contatti con Nicola Sagundino, che probabilmente gli fu maestro di greco, ma soprattutto con Francesco Barbaro, animatore delle correnti umanistiche veneziane nella prima metà dei secolo. Proprio quest'ultimo verso il 1450 segnalò il C. a Ludovico Scarampo, patriarca di Aquileia, affinché gli concedesse un canonicato. Ma né l'assicurazione del Barbaro sulla serietà degli studi del suo protetto, né la testimonianza della sua familiarità con altri umanisti come Pietro Badoer pare siano valsi ad assicurargli i benefici spgrati nella Chiesa aquileiese.
Nel 1453 il C. si recò a Roma, certamente attratto dal mecenatismo di Niccolò V, recando come conforto per un felice inserimento nell'ambiente pontificio lettere commendatizie di Pietro Tommasi per Poggio Bracciolini e dei Sagundino per il cardinale Bessarione. Durante il viaggio si fermò a Rimini presso Sigismondo Malatesta, dove in quegli anni soggiornava Basinio da Parma che lo accreditò di ulteriori raccomandazioni, e lo segnalò a Teodoro Gaza, affinché lo introducesse presso il pontefice.
In un'epistola in versi (riportata da F. Ferri, La giovinezza di un poeta, Rimini 194, pp. 33 ss.) Basinio definì il C. "historicus, vehemens orator"; ma, precisando i caratteri della sua cultura, illustrò la varietà degli interessi scientifici e l'estensione delle informazioni geografiche che lo rendevano "terrae caelique peritus". Una conferma dell'inclinazione del C. verso lo studio della natura ci è fornita da Lorenzo Valla, che ne sottolineò la conoscenza dell'astronomia probabilmente alludendo più ad una preffilizione per i poemi gnomici e didascalicì, che a precisi interessi scientifici, che non emergono mai chiaramente nell'attività del C. (cfr. Sabbadini, pp. 392 s.).
Felicemente introdotto nell'ambiente romano, frequentò umanisti insigni come Teodoro Gaza, Giovanni Tortelli, Vittorio da Parma e soprattutto Lorenzo Valla, che gli dedicò un'ode perduta e un carme elogiativo, in cui, giocando sul significato del cognome, delineava un ritratto apologetico dei C. e presentava l'esercizio delle sue virtù come l'antitesi delle inclinazioni del volgo.
Le attestazioni di stima di personalità così influenti denotano che gli era riuscito di ritagliarsi uno spazio nell'esigente e infido ambiente culturale romano; egli anzi, conformemente àl costume letterario dei tempo, tendeva ad esercitare una funzione di mediazione tra vari centri umanistici, tanto che nel 1454 fece conoscere l'epistolario della corregionale Isotta Nogarola. Divenuto familiare anche di Niccolò V, che, tra le altre iniziative della sua politica culturale, promuoveva traduzioni in latino di classici greci, il C. ebbe modo nello stesso anno di dimostrare la serietà dei suoi studi filologici e di partecipare attivamente a quel fervido clima di ricerche. Forse per interessamento del Tortellì gli venne, infatti, affidato il compito di eemendare la traduzione dell'opera di Eusebio di Cesarea De praeparatione evangelica, eseguita in maniera insoddisfacente da Giorgio da Trebisonda (cfr. G. Voigt, p. 137). Preoccupato per il giudizio che gli addetti ai lavori avrebbero dato della sua opera, il C. si procurò strumenti adatti ad un'elegante trasposizione del testo greco, chiedendo a Pietro da Montopoli l'Orthographia del Tortelli, di cui si dichiarò entusiasta; e contemporaneamente svolse un'assidua opera di denigrazione del suo screditato avversario. Il Trapezunzio (avversato da Poggio) era caduto in disgrazia presso la corte vaticana per ragioni che prescindevano dalle sue qualità filologiche. Ma il C. con accorta piaggeria esercitò contro di lui un'astiosa azione diffamatoria prima nella corrispondenza con il pontefice, più tardi con una violentissima invettiva Contra Georgium Trapezuntium calumniatorem Platonis, scritti che rivelavano, anche al di là della consueta acredine degli umanisti di mezzana importanza, un'ìnclinazione parossistica alla vendetta e allo scandalo.
La morte di Niccolò V nel 1455 e la ascensione al soglio papale di Callisto III limitarono le commesse editoriali affidate ai grandi umanisti; molti di essi perciò abbandonarono la Curia pontificia cercando ospitalità presso l'accogliente corte di Alfonso I d'Aragona. Anche il C., seguendo le orme del Gaza, si recò a Napoli e cercò di ingraziarsi il sovrano, cui rivolse anche un'exhortatio allaguerra santa contro i Turchi. Ma non pare che sia riuscito a procurarsi particolari benefici.
Nel 1457 ritornò a Roma; ma sebbene fosse riuscito a contrarre amicizia con alcuni influenti prelati italiani e stranieri (Domenico de Dominicis, vescovo di Torcello; Antonio La Cerda, vescovo di Lerida; il cardinale Pietro Barbo; jean jouffroy, vescovo di Arras ed altri) non mancò di rilevare il generale regresso della vita culturale durante il pontificato di Callisto III.
Proprio in quest'anno altresì il C. fu protagonista di sconcertanti polemiche, che mettono in evidenza non solo la sua attitudine alla maldicenza, ma anche l'instabilità della sua posizione di cortigiano alla continua, famelica ricerca di prebende e di appoggi autorevoli. Nell'agosto, infatti, egli indirizzò una epistola di rara virulenza a Niccolò Palco ed Ermolao Celso, manifestando il suo tripudio per la recente scomparsa di un suo avversario letterario, indicato con lo spregiativo pseudonimo di Mamurcha (sottolineato anche nel titolo del cod. di Olomouc Epistola Andreae Contrarii Veneti, cui titulus: Mamurcha ...), un calco evidente dell'ignobile Mamurra di Catullo. R. Sabbadini (pp. 382 s.) identifica il personaggio attaccato nella lettera con Lorenzo Valla, la cui morte risale appunto al 1° ag. 1457. Il critico si fonda anche su altri riscontri interni della lettera, giustificando l'accanimento del C. con l'invidia velenosa del cortigiano deluso per il favore largamenteaccordato da Callisto al Valla. A questa identificazione si è opposto tuttavia G. Mancini (G. Tortelli..., p. 227), sottolineando la circostanza che il Valla, dopo aver agevolato l'inserimento dei C. nell'ambiente papale, non appare mai con esso in palese contrasto. Ma soprattutto gli appaiono incongrui taluni riferimenti biografici, neppure motivabili con la carica di rancore polemico che trabocca da queste accuse. Al Valla tuttavia, oltre alle coincidenze cronologiche, fanno pensare anche la allusione al ruolo prestigioso riconosciutogli dai contemporanei ("qui, ut tenet fama, de doctrina in omni genere litterarum contendit cum Varrone") e l'accusa di epicureismo ("Epicuro agrammato ex hara, non ex schola producto") che, secondo il topos tradizionale non connota un indirizzo speculativo, quanto piuttosto un costume depravato e licenzioso, ma che verisimilmente poteva con. facile banalizzazione accordarsi con le teorie del De Voluptate. Chiunque sia tuttavia il personaggio così impietosamente aggredito, lo scarto con la sua biografia è accresciuto dal carattere di iperbole che caratterizza l'invettiva e dai calchi letterari che mirano ad uniformare la figura dell'avversario al Catilina sallustiano e ciceroniano ("ingens et horrendum monstrum vel ludibriuni vel tanta huius saeculi nostri labes"). La prosa, fitta delle solite reminiscenze classiche rivela, accanto alla buona conoscenza degli antichi, le difficoltà di carriera del C. che, come tanti umanisti minori, trova nel vituperio sfogo alle frustrazioni per l'umiltà del rango e delle mansioni affidategli. Sempre nel 1457 il C. diede ulteriore prova della malignità della sua indole, fiancheggiando Vittore da Parma nell'accusa mossa a Francesco Griffolini di avere plagiato la traduzione dal greco in latino di Teodoro Gaza delle Epistolae dello Pseudo Falaride: sospetto che oggi appare del tutto infondato.
Nel 1458 l'ascesa al soglio pontificio con il nome di Pio II dell'umanista Enea Silvio Piccolomini riaccese nel C., che l'aveva conosciuto e corteggiato già a Napoli, speranze di nuovi onori. Tuttavia, dopo aver ottenuto la pieve di S. Pantaleone a Roma ed essere stato ammesso tra i familiari del pontefice alla Dieta di Mantova nel 1459, egli cadde in disgrazia per ragioni sconosciute e gli venne revocato anche il beneficio.
Alcune epistole inviate dal C. (tre delle quali e un frammento sono contenuti nella Miscellanea di varie operette, curata dal Giorgi) illustrano la vicenda dei suoi rapporti con Pio II. Una prima lettera gratulatoria, scritta durante il soggiorno alla corte aragonese, celebra il conferimento della porpora cardinalizia al Piccolomini nel dicembre del 1456. Indizio del favore goduto presso il nuovo pontefice è poi l'epistola del 31 ott. 1458, in cui si fa riferimento alla richiesta di quest'ultimo della raccolta delle opere dei Contrario. Altre lettere successive fino al 1461 contengono invece perorazioni e suppliche per essere reintegrato nel beneficio o, almeno, per essere riammesso tra i familiari dei papa, da cuisi sente escluso solo per l'altrui livore. Male sollecitazioni in prosa e in versi non sortirono effetto.
Costretto a cercare altrove i mezzi di sostentamento, il C. passò nel 1459 a Bologna, dove, pur avendo stretto relazioni di amicizia con personaggi autorevoli come il giurecpnsulto Bornio da Sala, lamentò i disagi della sua condizione economica che lo obbligava a perdere tempo "in erudiendis iuvenibus"; una circostanza questa che viene confermata dal fatto che in questa città figura come maestro di Antonio Bentivoglio. Nel 1461 soggiornò a Firenze, entrando in relazione con il Platina, a beneficio dei quale brigò perché potesse sostituire il Filelfo sulla cattedra bolognese di retorica. L'anno seguente scrisse, per conto del priore, una Exhortatio ad Cosmum Medicen pro monachis Montis Oliveti, affinché venisse restaurata la loro vetusta abbazia.
Allo stesso periodo risale la relazione amorosa con una tal Maia Isotta, donna di nobile condizione e di larga erudizione, suora in un monastero suburbano di Firenze, che a torto è stata identificata con la Nogarola, con cui l'autore ebt e rapporti esclusivamente letterari. Il carteggio tra i due, pur alludendo al dono di un codice greco e quindi ad una intesa anche letteraria, ha invece toni francamente appassionati, e le epistole della donna sono ricche di risentiti riferimenti a trascorse - ed attuali - avventure sentimentali del Contrario. Perciò è stato ipotizzato (E. Abel, p. CXXVIII) che le frequenti deroghe dal celibato sacerdotale, rinfacciategli dalla corrispondente, siano siate anche la causa del suo allontanamento da Roma.
Dopo un soggiorno a Siena, dove ebbe modo di polemizzare con Mariano Soccini, il C. ritornò a Roma nel 1464, riammesso in Curia dal papa veneziano Paolo II, che lo gratificò di un assegno mensile. Ma dopo la morte dei pontefice nel luglio del 1471 fu costretto a recarsi di nuovo a Napoli, ospite di Ferdinando II e beneficiario di uno stipendio annuo.
Nell'ambiente aragonese il C. godette certamente di prestigio e di buona reputazione tanto da venire ammesso nell'Accademia pontaniana e da essere tenuto tra gli intimi del Pontano, che negli Hendecasyllabi esaltò il suo amore per la filosofia, a cui pare si fosse dedicato nella maturità. Ma la testimonianza più probante di questa stima è visibile nel fatto che venne introdotto tra i personaggi del dialogo Antonius, in cui, laddove si ragiona intorno a due questioni retoriche, gli vien, fatto sostenere il primato di Cicerone su Quintiliano; nello stesso passo il Pontano poi, oltre ad apprezzarne la competenia nei problemi filologici e grammaticali, sottolinea il suo amore e l'assidua frequentazione della poesia virgiliana (Opera, II, Basileae 1538, p. 139).
Non conosciamo la data della morte del C., anche se il Cortesi (nel dialogo De hominibus doctis, Firenze 1734, p. 48) 10 accomuna pure nelle cause a queUa dei Griffolini, suo antico rivale, a cui il C. avrebbe augurato una fine violenta. Pare che anch'egli abbia patito la stessa sorte cadendo da cavallo al ritorno da un viaggio in Calabria.
Fonti e Bibl.: Il cod. principale delle opere del C. si trova nella Biblioteca comunale di Siena con la segnatura H.VI.32; alcune lettere sono custodite nella Bibl. della cattedrale di Olomouc in Cecoslovacchia. Un elenco delle opere rimaste è in G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori veneziani, II, Venezia 1764, pp. 420-32. Manca un'ed. completa delle opere dei C.; singole parti sono pubblicate in Miscell. di varie operette, VI, a cura di D. Giorgi, Venezia 1742, pp. 5-18; E. Abel, Isottae Nogarolae opera onmia, Vindobonae 1986, ad Indicem;R. Sabbadini, A. C., in Nuovo Arch. ven., n. s., XXXI (1916), pp. 378-433. Oltre che nei citati lavori, soprattutto in quello del Sabbadini che riporta numerose testimonianze di contemporanei, si trovano notizie sul C. in B. de Montfaucon, Diarium Italicum, Parisii 1702, p. 360; F. Borsetti, Historia almi Ferrariae Gymnasii, II, Ferrariae 1735, p. 72; A. M. Querini, Diatriba praeliminaris ad Francisci Barbari epistolas, Brixiae 1741, p. 516; S. Maffei, Verona illustrata, III, Milano 1825, p. 187; E. Muntz, La Renaissance, Paris 1885, p. 424; G. Voigt, Il risorgimento dell'antichità classica, II, Firenze 1890, p. 137; G. Mancini, F. Griffolini, Firenze 1890, p. 46; Id., Vita di L. Valla, Firenze 1891, pp. 323 s.; F. Ferri, La giovin. di un Poeta. Rimini 1914, pp. 33 ss.; G. Mancini, G. Tortelli cooperatore di Niccolò V nelfondare la Bibl. Vaticana, in Arch. stor. ital., LXXVIII (1920), 2, pp. 221, 226 s.; V. Rossi, IlQuattrocento, Milano 1933, pp. 467 s.; G. Pugliese Carratelli, Un'epistolai A. C. "De Platonis genitura", in La Parola del Passato, VIII (1953), pp. 62 ss.; M. Regogliosi, Nuove ricerche intorno a G. Tortelli, in Italia medievale e umanistica, IX (1966), p. 146; M. D. Rinaldi. Il "De orthographia" di G. Tortelli, ibid., XVI (1973), pp. 234, 255; G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, III, p. 118.