COMODI (Commodi), Andrea (Giovan Andrea)
Figlio di Riccardo, nacque a Firenze nel 1560.
Coetaneo dell'Empoli, del Boscoli, del Pagani, del Cigoli, del Passignano, cioè della generazione che raccolse e sviluppò le indicazioni di Santi di Tito per una svolta in senso naturalistico della pittura toscana, fu anche sensibile a motivazioni religiose che la Controriforma aveva messo in campo. Nell'ambito di questa tendenza che filtrava i suoi propositi di rinnovamento compositivo e pittorico attraverso la pratica spesso accademica del "buon disegno" toscano, il C. appare relativamente un isolato per una sua durezza severa, talora quasi aggressiva nell'affrontare l'impegno della verosimiglianza che caratterizza i suoi dipinti, quasi tutti compiuti durante un soggiorno lunghissimo, e precocemente iniziato, fuori di Firenze, a Roma, a Cortona e poi di nuovo a Roma, forse anche altrove. In effetti le sue opere riflettono esperienze più vaste ancorché ricondotte entro premesse tradizionali, ed interessi divaganti, tra i quali emerge appunto una disposizione, ben testimoniata anche da una serie assai interessante di disegni, attualmente conservati agli Uffizi, a fissare diligentemente l'appunto dal vero.Su un foglio di disegno utilizzato per certe figure alate (Uffizi, 18.446 F) il C. ha tracciato oltre all'indirizzo del padre "in bottega dei Mag.ci Montaguti in Calimala Fiorenza" poche righe autobiografiche, precisando di essersi allontanato dalla Sciorina (cioè dal pittore Lorenzo Sciorini presso il quale dovette evidentemente fare la prima pratica) nel 1577, di essere partito per Roma una prima volta nel 1583 e di esservi ritornato nel 1592. Altre notizie di prima mano sul C. si ricavano dal rapido profilo che ne ha tracciato il Mancini (1620-24), dove interessa in particolare l'accenno al fatto che in casa sua a Roma teneva "accademia" frequentata da giovani promettenti, tra cui Domenico Feti e Baccio Ciarpi. Dal Baglione (1642) si sa invece che giunto a Roma in età giovanile dipingeva assai bene ritratti "dal naturale" (l'Autoritratto degli Uffizi e quello a pastello della Galleria Buonarroti a Firenze ne sono buona conferma) e che per professione copiava quadri celebri di grandi maestri in tal numero e con tanta soddisfazione dei committenti da potersi dedicare scarsamente ad altra attività più personale.
L'iscrizione all'Accademia del disegno nel 1578 (Colnaghi, 1928) e il fatto che di lui a Firenze sia documentato ben poco prima del lungo trasferimento a Roma, va a sostegno della scarna nota autobiografica citata: alla sicura partecipazione agli apparati per le nozze di Ferdinando con Cristina di Lorena nel 1589 (Gualterotti) si può aggiungere soltanto, in questa fase, appunto l'Autoritratto giovanile degli Uffizi, di una sobrietà esemplare, e quella Ultima Cena di S. Maria di Settignano, ricordata solo dal Moreni (1795) e in seguito mai considerata che, pur pessimamente conservata, risulta di qualche interesse sia per l'impostazione iconografica, arieggiante un "devoto" modulo quattrocentesco fiammingo (a cui guardava notoriamente con favore la più intransigente critica della "libertà" manierista, monsignor Gilio in testa) sia, di nuovo, per il carattere severo e intenso di certe teste, in particolare il ritratto (forse un autoritratto) del servitore sulla destra. Difficile è ravvisare in queste primizie qualche traccia concreta dello stretto sodalizio giovanile con il Cigoli, di cui parla diffusamente il Baldinucci (1681), specie del comune studio del Correggio, implicante una ricerca di morbidezza sentimentale e pittorica che è di fatto del Cigoli ma non del Comodi. Piuttosto ne sembra avvalorata nella sua implicita allusione ad interessi più tradizionali la notizia, sempre della stessa fonte, di una dura applicazione agli studi di anatomia e di prospettiva e di certe speculazioni condotte in margine a trattati di medicina e di fisiognomica sulle rispondenze di specifici tratti fisici a doti spirituali.
A Roma fu favorevole al C., come del resto ad altri fiorentini trasferitisi nello stesso tempo, l'ambiente del gesuiti: proprio nella chiesa del noviziato, S. Vitale, appena concessa all'Ordine da Clemente VIII, resta ancora oggi la testimonianza più ampia della sua attività (ma già a cavallo del nuovo secolo) e cioè una grande Salita al Calvario nel catino absidale e, sotto, il Martirio di s. Protasio e la Flagellazione di s. Gervasio, condotti contemporaneamente ad altri affreschi del fiorentino Ciampelli.
Il pittore vi appare orientato, specie nel Calvario, verso una concisa, aspra evidenza di immagine, ottenuta con colori decisi e taglienti e personaggi incombenti in primo piano, fortemente caratterizzati specie nell'abbigliamento, con un'esibizione eccezionale di corde, picche, insegne, cotte di maglia di ferro, spade e cinturoni, definiti con veridico puntiglio. Anche in questo caso, e più concretamente, si pone un rapporto non casuale con fiamminghi operosi negli stessi anni a Roma; con Aerts Mytens e il suo celebre Cristo deriso, oggi a Stoccolma, che veniva portato a compimento proprio nello stesso tempo, con Coberger: un rapporto che è di tono espressivo ma anche di modalità stilistiche, dietro al quale si possono intravedere le preferenze di un ambiente sollecito di risultati visivamente e sentimentalmente pressanti.
Più distesamente descrittivo è l'impianto delle storie sottostanti, specie della Flagellazione di s. Gervasio, avvivata da una lucida proiezione di luci ed ombre sugli aguzzini e sul busto del giovine martire avvinto al palo, sulla grossa corda eloquente, con effetti che esorbitano dai consueti ma più generici interessi luministici del naturalismo toscano. Vi si avverte una sensibilità acutizzata per problemi di più immediata aderenza visiva che, dal loro specifico contesto culturale, alludono certamente alla fama emergente del Caravaggio e, nello stesso tempo, riportano l'attenzione sui singolari disegni dal vero del C., di cui si diceva: teste soprattutto, fissate in atteggiamenti non convenzionali, perfino un sorprendente nudo di donna dormiente, rannicchiata tra coperte e cuscini (Uffizi, 18.601F, 18.625 F, 18.635 F, 18.640 F, e altri).
Perduti sia il Battesimo di Cristo per la cappella del Battista nel Battistero lateranense (rinnovata pur essa per il giubileo del 1600), ricordato con parole di elogio già dal Felini (1610), sia i SS. Abondio e Abondazio condotti al martirio della cappella sotto l'altare, maggiore della chiesa del Gesù, compiuta poco dopo, non si conosce altro di questa prima fase romana del Comodi. Ugualmente ignote restano le vie attraverso le quali stabilì un duraturo rapporto con Cortona, dove si trovano ancora oggi diverse sue opere ed altre ce n'erano, andate poi perdute; un rapporto intrecciato già da Roma, dove gli giungevano fin dal 1603, come risulta da documenti inediti dell'Archivio di Stato di Firenze, gli acconti per uno del suoi quadri più noti, compiuto diversi anni dopo, la cosiddetta Consacrazione della chiesa di S. Salvatore, oggi nel duomo, commissionata dalla Confraternita del SS. Salvatore per l'oratorio allora in costruzione.
La più antica delle opere cortonesi del C. sembra l'ancora anonima, ma verisimilmente sua, Disputa di s. Caterina in S. Francesco che precede sia la grande Concezione della stessa chiesa, datata e firmata 1609, per la quale si possono supporre ugualmente tempi lunghi di esecuzione che ne giustifichino l'impostazione e certa finitezza di esecuzione ancora arcaica, sia appunto la Consacrazione precedentemente citata del duomo. È in quest'ultima tela che emerge una svolta del C. verso una composizione più naturalmente articolata e insieme più ricca nel tessuto pittorico, contrastato dall'abituale attenzione alle battute della luce e dell'ombra, qui con effetti vistosi sulle cotte bianche dei chierici e sui paramenti sfarzosamente intessuti. I volti intenti e gravi, la ferma nettezza dei profili, la materia densa delle stoffe si ritrovano in un altro quadro cortonese, di più piccole dimensioni, che insieme con il precedente costituisce il pezzo più noto del C., cioè il Miracolo di s. Benedetto del Museo, proveniente dal convento benedettino delle Santucce (L. Berti, Il Museo dell'Accademia di Cortona, in Antichità viva, I [1962], p. 61;Petrioli Tofani, 1980, p. 108). Entrambi questi quadri risultano attribuiti in guide ottocentesche ad Andrea Sacchi, per ragioni difficili da indicare al di là dell'uguaglianza del nome di battesimo e forse del ricordo che il pittore, se non le opere, veniva da Roma. Anche una Maddalena penitente, oggi presso l'Intendenza di Finanza di Arezzo, partecipa delle stesse ricerche, che sembrano presupporre un rinnovato contatto con l'ambiente di origine, in particolare con la serena semplicità dell'Empoli, ancora alla Santi di Tito.
La precisa dichiarazione del C. all'Accademia fiorentina, nel 1623, quando, pagando i tributi, affermava di essere rimasto lontano per ventotto anni (Pevsner, 1932-34), non esclude ovviamente qualche ritorno nella città natale, specialmente al tempo del trasferimento a Cortona, dove, tra l'altro, opere recenti e notevoli del suoi conterranei e coetanei erano presenti. Non si sa da quando né per quanto tempo il C. abbia trasferito la sua sede a Cortona: tra le caotiche ricerche tra registri di matrimonio e di battesimo condotte dal Baffoni (1955), a sostegno di una discendenza nobiliare del pittore (ma delle marginali indicazioni di carattere storico artistico dello stesso autore non è possibile tenere alcun conto, perché prive di ogni consistenza e perfino di senso), compare un matrimonio del C. con Caterina d'Orbetello e la nascita di un figlio nel 1608 che, se rispondenti a verità (dei supposti registri non c'è mai indicazione precisa), potrebbero dar ragione dei tempi e delle cause del mutamento di residenza. Giulio Mancini, fonte principe per questi anni a Roma, aveva notizia di una partenza del C. "per la Lombardia", quanto dire verso l'area padana; in ogni caso la non breve permanenza del pittore a Cortona è testimoniata, a parte le opere, dal Baldinucci e dalle notizie biografiche relative a Pietro Berrettini da Cortona (G. Campori, Lettere... inedite, Modena 1866, p. 506) che lo vogliono tutte appunto discepolo in patria del C., prima di frequentare a Roma la "accademia" di Baccio Ciarpi, a sua volta più anziano discepolo dello stesso maestro e con lui rimasto in stretta relazione.
La più tarda opera del C. a Cortona, probabilmente di poco precedente il 1616, quando l'altare risulta già esistente, sembra il S. Carlo in preghiera per la peste della chiesa di S. Marco di Sotto, già detta Trinità del Laici, prototipo di un tema più volte ripetuto dal pittore e forse derivante da una di poco precedente versione del Ciarpi oggi a Sarzana (Sricchia, 1975). È un'opera percorsa da un sentimento più declamatorio e patetico, che, se l'accenno del Mancini alla Lombardia non dovesse esser frutto di inesatta informazione, potrebbe alludere a qualche tangenza con Ludovico Carracci. Avvalora la circostanza il fatto che l'autorevole protettore cui il C. dovette le successive importanti commissioni romane, il card. Luigi Capponi, fiorentino, fosse in quegli anni legato a Bologna ed anche che da disegni, per altro assai banali, del C. il bolognese Valesio abbia tratto le incisioni che corredano la Erotilla di Giulio Strozzi, scritta per le nozze di Marcantonio Borghese, nipote del papa, con Camilla Orsini, stampata a Venezia nel 1615 (A. Bartsch, Le peintre graveur, XVIII, Leipzig 1870, p. 221).
Il ritorno a Roma del C., accompagnato o preceduto dal giovane Berrettini, deve legarsi al grande progetto, poi lasciato cadere, della decorazione della cappella Paolina al Quirinale, finita per quanto riguarda la muratura nel 1616.
Ad invitare il pittore a prepararsi per quell'incarico, che prevedeva una Caduta degli angeli ribelli sulla grande parete dell'altare, era stato il cardinale Capponi (Baldinucci); ma egli fece appena in tempo ad apprestare, prima che il progetto di decorazione della cappella cadesse, alcuni disegni e un bozzetto, di cui parla anche il Mancini, probabilmente quello, conservato nei depositi delle Gallerie di Firenze, rintracciato e pubblicato dal Briganti (1960), ed esposto, assieme a un disegno del British Museum di Londra, alla mostra "medicea" del 1980 a Firenze (Petrioli Tofani, 1980, pp. 198 s.;per la ricostruzione dell'apparato grafico relativo a quest'opera, vedi Thiem, 1977, p. 306). Si tratta invero di un'opera più che singolare nel suo tentativo di conciliare le ragioni della tradizione iconografica con quelle del "buon disegno" di nudo e perfino con una certa verosimiglianza ottica inseguita a lume laterale. Il colorito referto del Baldinucci sulle fatiche del pittore e del suoi infelici modelli impigliati a testa in giù in lana gigantesca rete da caccia al cinghiale dice tutto il necessario sugli irrisolvibili conflitti di una cultura figurativa in crisi quale era quella fiorentina.
Più fortunato fu il C. nell'incarico di una grande tela con S. Carlo in preghiera per l'altare maggiore della chiesa di S. Carlo ai Catinari (il bozzetto è in deposito nel Museo civico di Fano: M. F. Aliberti Gaudioso, in Mostra di opere... restaurate, catal., Urbino 1969, pp. 112 s.) in sostituzione di un quadro del Celio da poco collocato sul posto ma che non piaceva (Baglione), e a sua volta in seguito sostituito da un'opera di Pietro da Cortona (il quadro del C. si trova oggi nella stessa chiesa, nel coro interno dietro l'abside). Anche qui il committente dovette essere il cardinale Capponi, titolare della chiesa fra il 1618 e il 1622, il che porta a ritenere l'opera più tarda di quanto sia stato detto finora. Nelle sue maggiori proporzioni essa ripete fedelmente il prototipo già proposto a Cortona.
Ancora ai Capponi si lega il curioso problema sollevato da un Sacrificio di Isacco, riferito al C., che si sarebbe trovato nella galleria della famiglia a Firenze fino al secolo scorso (F. Fantozzi, Nuova guida... di Firenze, Firenze 1857, p. 395), dal quale avrebbe dovuto essere tratta l'incisione del Ravenet per l'Etruria pittrice di L. Lastri (II, Firenze 1798, p. LXXXX). Ma poiché a questa incisione si collega fedelmente, anche nelle misure, un quadro della Galleria Doria a Roma già dai Crowe-Cavalcaselle e poi da altri riferito al rembrandtiano Jan Lievens, anche in base ad una replica del Museo di Brunswick (vedi, per tutta la questione, E. Sestieri, Catalogo della Galleria... Doria..., Roma 1942, p. 240, n. 343)e poiché d'altra parte l'incisione non suggerisce l'idea di una composizione del C., bisognerà credere ad un erroneo riferimento settecentesco.
Ritornato a Firenze intorno al 1621 il C. sembra essere stato assorbito soprattutto dalla direzione di una sorta di scuola di copisti miniatori, tra cui emerge G. B. Stefaneschi (C. Del Bravo, in Paragone, XII [1961], 137, pp. 50-53), operosissimi per le collezioni granducali, convogliando in questa specialità l'esperienza fatta a Roma ricordata dal Baglione, di cui si suppone possa essere un esempio l'anonima Annunciazione di S. Maria Scala Coeli alle Tre Fontane, copia appena ammodernata della celebre Annunciazione di Andrea del Sarto oggi nella Galleria Palatina a Firenze, ma allora a villa Medici, frutto di un acquisto del cardinale Ferdinando. Di qualche velleità poetica del C. sono testimonianza certe "frottole" ricordate dal Baldinucci e tuttora conservate nella Biblioteca nazionale di Firenze.
Il C. morì a Firenze il 24 sett. 1638.
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