CITTADELLA VIGODARZERE, Andrea
Nacque a Treviso il 15 luglio 1804 da Giorgio, allora governatore della provincia, e Margherita Zacco, e ricevette un'ottima educazione classica permeata di profondi sentimenti religiosi sotto la guida dell'abate G. Barbieri, celebre oratore sacro e successore del Cesarotti nella cattedra di eloquenza latina e greca, e dello zio Antonio, singolare figura di possidente e mecenate. Nel 1826 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Padova, fece pratica giudiziaria presso il tribunale col titolo di "ascoltante", poi iniziò il suo tirocinio forense, peraltro ben presto abbandonato, presso l'avvocato G. B. Pivetta, la cui abitazione era frequentata in quegli anni da alcune delle più note figure della cultura padovano. La morte nel 1840 dello zio, che lo lasciò crede di una cospicua fortuna, segnò una svolta nella sua vita che, d'ora in poi scevra di ogni materiale preoccupazione, egli dedicò agli studi letterari e scientifici, alla promozione delle arti, all'amministrazione del vasto patrimonio immobiliare e fondiario, ad un largo e generoso impegno filantropico e infine ad un'intensa attività politica, peraltro più subita sull'onda dell'accavallarsi degli eventi che intensamente partecipata. Il suo stesso atteggiamento nei confronti del movimento per l'unità e l'indipendenza dell'Italia lo vide a lungo oscillante, spesso restio, alieno da rotture clamorose col governo austriaco e comunque sempre fedele ad una linea di cauto moderatismo, del resto abbastanza comune a molti esponenti del ceto nobiliare italiano e veneto in particolare.
Sino al 1847 si mantenne estraneo a qualsiasi attività politica militante, se pur la sua attiva partecipazione alla vita scientifica, culturale ed econoniica lo segnalava all'opinione pubblica come uno dei più colti e "moderni" esponenti del patriziato di orientamento liberaleggiante. Tra il dicembre del 1847 ed il gennaio del 1848 è il primo segno di una più vivace partecipazione ai moti e alle speranze liberali: insieme col letterato C. Leoni, patriota fervente e di rigorosa intransigenza, si recò a Venezia per implorare dalle autorità austriache mitezza di trattamento nei confronti di Manin e Tommaseo da poco arrestati. Quando a Venezia venne proclamata la repubblica il C. si trovò ad essere podestà di Padova, dove fronteggiò con energia disordini e tumulti nei difficili giorni della resa; ritornati gli Austriaci si oppose al disarmo della guardia, nazionale, rifiutò di convocare il Consiglio municipale e infine rassegnò le dimissioni dalla carica ritirandosi, insieme alle principali famiglie della città, nella villa di campagna. Negli anni precedenti la seconda guerra di indipendenza l'atteggiamento del C. nei confronti delle autorità austriache subì frequenti oscillazioni e sbandamenti che gli procurarono numerose critiche da parte dell'ala più radicale e combattiva dei liberali veneti. Dopo l'avvento al potere del principe F. di Schwarzenberg il C. sembrò credere per un attimo alle promesse di riforme e si recò personalmente a Vienna per caldeggiare presso il nuovo governo la concessione di un'ampia autonomia amministrativa al Lombardo-Veneto chè egli riteneva non incompatibile con future rivendicazioni nazionali. Il 31 luglio 1854 partecipò alle cerimonie per il ricevimento a Padova del maresciallo Radetzky e poco dopo accettò, con grave scandalo di C. Leoni e di altri patrioti, la carica di membro della Congregazione centrale di Rovigo. Il biennio 1856-1858 vide il culmine della linea "collaborazionista" del C. che incontrò a Stra l'arciduca Massimiliano, ne divenne intimo amico, ottenne alla fine del 1857 la nomina a maggiordomo della principessa Carlotta del Belgio e cercò di secondarne l'orientamento favorevole all'autonomia del Lombardo-Veneto. Fallite le velleità riformistiche di Massimiliano il C., che nonostante il suo appoggio al governo esplicò un'intensa attività di protezione e soccorso dei perseguitati politici veneti, si ritirò a vita privata dedicandosi totalmente ai prediletti studi scientifici, alle composizioni letterarie (è di questi anni la novella Agnese, che venne pubblicata a Venezia nel 1865) e alle opere di filantropia e di agricoltura. Nonostante i buoni rapporti sempre mantenuti con gli uomini più in vista del movimento liberale veneto, il C. venne aspramente attaccato da molti dei più risoluti e intransigenti patrioti, tra cui lo stesso Leoni che avversò, sia pure inutilmente, la sua elezione a deputato nel collegio di Cittadella dopo la liberazione del Veneto.
Subito dopo la sua morte due illustri esponenti della cultura liberale veneta, il matematico Minich ed il Tommasco. sentirono la necessità di accompagnare l'elogio della sua vita e della sua attività di scienziato e filantropo con un'appassionata difesa del suo troppo "tiepido" sentimento liberale e patriottico. Il Minich ricorda, invero non senza fondamento, che il proposito del C. di assecondare il tentativo di Massimiliano di realizzare un governo autonomo a Milano non era in contrasto con le future aspirazioni italiane all'unità perché "procurando una separata amministrazione, apriva il varco all'autonomia ed alla indipendenza, né poteva pregiudicare la stessa costituzione unitaria, se poi fosse stata richiesta dalla nazione". Il Tommaseo va oltre nella sua difesa dell'"italianità" del C., ne esalta apertamente gli ideali di cauto e progressivo riformismo che sdegna le rotture e le tattiche alla "tanto peggio tanto meglio", ammette che egli "non era (come volgarmente intendono, o senza intendere ripetono) un'anima italiana, italianissima (certi superlativi provocano la vendetta de' peggiorativi e de' diminutivi, de' quali è malauguratamente straricca la lingua), ma egli aveva, alla buona, un cuore d'Italiano", e con molta umanità ricorda ai facili critici che "non bisogna imporre ad altri l'eroicità come una specie di gabella, giacché, se tutti fossero eroi, perderebbe i suoi privilegi l'eroicità".
Anche l'attività come deputato del Regno d'Italia non andò esente da contrasti e vivaci polemiche; nell'agosto 1867 dette voto contrario alla legge sull'incameramento dell'asse ecclesiastico in nome del principio di "proprietà", "fondamento del civile consorzio" e base stessa della più importante prerogativa sociale, la libertà, e scatenò la vivace protesta non solo del Leoni, ma di ben centottanta elettori del collegio di Cittadella che ne sollecitarono apertamente le dimissioni reputando tradito il loro voto. La nomina a senatore nel 1868 troncò molte polemiche e del resto il C., ormai stanco e sempre più dedito ai suoi interessi scientifici e filantropici, trascorreva nella nuova capitale, Firenze, gli ultimi suoi anni di vita politica senza intervenire su alcuna materia di scottante attualità.
Morì a Firenze il 19 marzo 1870.
In realtà era soprattutto nell'impegno filantropico e nella promozione di ogni forma di progresso economico-scientifico che egli esplicava un impegno costante che lo collocava non di rado in una posizione di avanguardia rispetto a tanti altri uomini della classe possidente veneta ed italiana. Aiutato dalla moglie Arpalice Papafava dei Carraresi svolse un'intensa opera a favore di vari enti di beneficenza: presiedette l'orfanotrofio di S. Maria delle Grazie, la Casa di ricovero per anziani, la Commissione di carità e soprattutto con Ridolfi, Tommaseo, Lambruschini e Pareto fu tra i più ferventi promotori degli asili per l'infanzia. Quando nel settembre 1866 per iniziativa di Ricasoli, Matteucci, Capponi, Gigli e Mamiani nacque l'Associazione nazionale per la fondazione degli asili rurali, il C. lanciò dalle colonne de Il Raccoglitore (IV, 1º maggio 1867) un appello ai concittadini padovani in favore dell'infanzia delle campagne, e negli anni seguenti operò fattivamente per la realizzazione di alcuni asili, la cui elevata funzione sociale egli esaltò in numerosi scritti teorici ed in alcune composizioni poetiche. Di pari passo procedeva l'interesse del C. per le arti e le belle lettere. Nel periodo 1845-48 collaborò insieme ai Più bei nomi del liberalismo padovano a IlCaffè Pedrocchi, settimanale di arti, letteratura, critica, industria e cose patrie, scrisse versi e racconti - di mediocre valore - e presiedette dal 1839 al 1845 il Gabinetto di lettura di Padova. Nel 1844, prendendo lo spunto dalla recente pubblicazione del primo fascicolo del Vocabolario della Crusca, pubblicò sull'Euganeo (fasc. 5) un articolo Sulla presente condizione della lingua comune in Italia in cui lamentava l'ancora insufficiente unificazione linguistica nazionale e proponeva l'adozione di un linguaggio d'uso generale, autenticato dai letterati delle varie regioni d'Italia e fondato scientificamente su "giunte" al Vocabolario della Crusca alla cui realizzazione per il Veneto collaborava personalmente.
Socio dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Padova, dei Concordi di Rovigo, dell'Accademia delle scienze di Vienna e dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, di cui nel 1845 divenne anche presidente, a tutti questi istituti apportò un vivace contributo di idee soprattutto sui temi del progresso economico e scientifico. Studiò le origini dell'arte cambiaria, da lui rivendicate al genio degli Italiani del Rinascimento (Cenni storici sullainvenzione dell'arte cambiaria, letta all'Accademia di sc., lett. ed arti di Padova il 13 marzo 1838, edita da parte della stessa), come più tardi intervenne con intelligenti e costruttive proposte sulle riforme austriache del sistema scolastico superiore (Osservazioni aimetodi della istruzione intermedia per le scuole elementari e le università, Padova 1861), nel 1846 fu tra i soci fondatori e poi presidente della Società d'incoraggiamento per l'agricoltura e per l'industria, partecipò alla Società pel miglioramento de' vini, a quella per l'utilizzazione della torba, per la fusione del ferro, pel taglio dell'istmo di Suez. Dotato di robusto spirito pratico, quando nel 1847 il IX congresso degli scienziati italiani a Venezia gli affidò la sezione di "agronomia e tecnologia", applicò con successo alle sue tenute quella sintesi di progresso scientifico, tecnologie industriali e tecniche agricole da lui ripetutamente affermata negli scritti teorici e nei congressi: così nei suoi poderi era all'avanguardia nella lotta contro le malattie delle piante, aprì una filanda modello a Sant'Anna Morosina e cercò di diffondere varie migliorie e novità tecnologiche. Chiamato a presiedere, il 15 sett. 1842, il IV congresso degli scienziati italiani, a Padova, vi pronunciò un vibrante discorso, "un vero e proprio manifesto di un'ideologiaitaliana della scienza": il C. enunciò le linee di un peculiare positivismo di stampo cattolico che fondeva i "lumi" settecenteschi con l'epistemologia di Comte e temi scolastico-medievali (Marino, pp. 108 s., 124 s.), e mostrò una particolare attenzione alle applicazioni pratiche nell'industria e nell'agricoltura, nell'ambito di una concezione della società fondata sul rigoroso rispetto del principio di proprietà, di libertà economica e di un avanzato solidarismo sociale di stampo paternalistico.
Quattro anni dopo, nel 1846, nel Discorso letto in occasione della solenne distribuzione de' premi d'industria (editoa Venezia nello stesso anno) il C. tracciò un vero e proprio manifesto della nascente "ideologia dell'industrializzazione", anticipando con lucidità temi e problemi che informeranno la cultura cattolica e moderata italiana nella seconda metà dell'800. Le macchine sono fonte di incivilimento e di progresso, e lungi dal togliere lavoro agli operai ne accrescono la quantità, sostituiscono solo gli ultimi gradini della scala di "que' lavori di una assoluta materialità, in cui l'operaio era nulla più che istromento meccanico", favoriscono l'aumento del prodotto, del benessere generale e della ricchezza comune. Fautore entusiasta dell'incipiente sviluppo industriale, il C. arrivava a tracciare un quadro addirittura idilliaco della fabbrica, dipinta come una "grande famiglia" di operai in cui governa paternamente il padrone, "rappresentante della divina provvidenza", vero "padre che ogni uomo conosce, ogni bisogno di mille, e qual padre diviene arbitro delle lor controversie, compagno de' loro diletti, consigliere, confortatore; li aiuta a educare i figli, li soccorre se vecchi, se infermi; si fa tutore degli orfani, depositario delle affezioni che tronca la morte; unifica le brame, le speranze, le abilità, il presente e l'avvenire di mille". Il C. non temeva che in Italia si verificassero gli abusi lamentati dall'industrialismo in Inghilterra (sfruttamento operaio, lavoro femminile e minorile, ecc.) perché l'industria meccanica potrà naturalmente legare "in istretto modo e con avvicendamento di mutuo soccorso all'agraria" in un reciproco apporto di energie di cui la vicina Lombardia era un felice esempio a tutti visibile. Nelle manifatture, organicamente saldate ad una moderna agricoltura retta da padroni illuminati, additava agli Italiani il modello economico del futuro: "Così si effettua una composizione delle intelligenze e delle forze corporee, una reciprocanza della ricchezza fatitrice dell'opera e del lavoro accrescitore della ricchezza; una corrispondenza di autorità senza coazione, di beneficio senza orgoglio, di rispetto senza abbiezione: ecco l'indole, i vincoli, i buoni effetti di quelle colonie manifatturiere, che per la vita tranquilla, previdente, ordinata, fra il volonteroso lavoro e il contenuto riposo, brillano come gioielli ad abbellire e ad arricchire i paesi" (p. 12).
Il C. ritornava su questi temi nel 1863 per ribadire la sua fede immutata nel progresso economico, sociale, culturale e civile della nazione, accentuando però l'importanza fondamentale della religione per l'incivilimento e l'ordinata convivenza della società (Sugliattuali avviamenti della società civile in correlazione alle scienze sociali, ed. in NuoviSaggi dell'Acc. di sc., lettere ed arti di Padova, VIII, Padova 1864).
Fonti e Bibl.: S. R. Minich, Comm. funebre del conte A. C. V, in Atti dell'Ist. veneto, s. 3, XV (1869-1870), pp. 2027-2072; Conte A. C. V. difeso dalla taccia di clericale onde fucolpito da alcuni cittadellesi che lo elessero a loro rappresentante nel Parlamento ital., Padova 1867; C. Leoni, Cronaca segreta de' miei tempi, a cura di G. Toffanin, Padova 1976, passim; C. Giussani, Delle idee del conte A. C. V. sull'istruz. secondaria, Udine 1870; N. Tommaseo, Il conte A. C. V, Padova 1870; A. Gloria, Il comitato provvisorio dipartim. di Padova dal 25marzo al 13giugno 1848, a cura di G. Solitro, Padova 1927, pp. LV, LXIIL Il s., 48, 57, 161, 165, 183; G. Solitro, La "Società di cultura e di incoraggiamento" in Padova nel suo primo centenario, Padova 1930, pp. 51, 88, go s., 98-101, 114, 121, 130, 133, 222, 276 s.; G. Zanella, Il centenarie della morte di A. C. V, in Padova e la sua provincia, XVI (1970), 5, pp. 10-16 (è il testo della commemorazione letta alla R. Accademia di Padova il 10 dic. 1876;) G. C. Marino, La formaz. dello spirito borghese in Italia, Firenze 1974, pp. 107-110, 113, 120, 124 s., 243 s.; C. v. Wuribach, Biograph. Lexikon des Kaiserthums Österreich, III, pp. 374 s.; Diz. del Risorg. naz., II, pp. 704 ss.; Enc. catt., III, col. 1751. Un elenco dei lavori letterari del C. è in G. Cittadella Vigodarzere, Commem. di A. C. V., Padova 1870.