CASOTTI, Andrea Agostino
Nacque a Prato da Giovan Ludovico e da Maria Porzia di ser Leonardo Raffaelli in data imprecisabile, ma sicuramente successiva al 1679, anno in cui nacque il secondogenito di Giovan Ludovico, Giuseppe Maria, erudito e addetto per lungo tempo all'archivio di Prato.
Giuseppe Maria (n. a Prato il 15 maggio 1679 e m. M il 26 genn. 1740) era attento studioso di fatti concernenti la storia cittàdina, ben preparato alla lettura e alla identifivazione dei documenti più antichi, esperto di tramontate istituzioni, investigatore curioso persino dei dettagli più minuti della storia sacra e di quella profana. Egli impiegò le proprie conoscenze per il riordinamento del caotico archivio cittadino profondendo tesori di energia che lo rendono ancora oggi un benemerito degli studi sulle antichità pratesi. Ne fanno testimonianza i numerosi volumi raccolti e legati per materie ovvero per avvenimenti che si succedono in ordine cronologico, lo spoglio di antichi statuti cittadini e le serie cronologiche di antichi - magistrati, le meffiorie di famiglie estinte o ancora viventi redatte dallo studioso pratese, o comunque compilate dietro il suo suggerimento e la sua personale consulenza. Indifferente ai richiami della vita politica, più volte rifiutò la carica di gonfaloniere di Giustizia. Come fu alieno dall'ambire pubblici uffici, così sembra che non gradisse un'attività puramente letteraria. Aggregato nel 1718 all'Accademia degli Infecondi, non vi ricoprì alcun incarico ufficiale e (quel che più conta) non vi declamò alcuna sua composizione.
Mentre circa la biografia di'Giuseppe Maria nulla sappiamo per gli anni della sua prima formazione culturale, del C. conosciamo il nome di un maestro, Carlo Conti, che godeva di una certa notorietà in patria e dal quale il giovane fu avviato allo studio delle lettere sia classiche che volgari. Si suppone che tale tirocinio letterario dové essere improntato più alla lettura dei classici che non ad un tipo di disciplina filologico-erudita e nell'ambito dei testi sottoposti all'attenzione del giovane discepolo egli probabilmente predilesse quelli che si ispiravano al genere "comico". operando una scelta che rimarrà definitiva nella futura produzione letteraria.
Come il fratello Giovan Battista, decise di provvedere ad una decorosa sistemazione indossando l'abito sacerdotale e nel 1710 si fece frate domenicano in S. Maria Novella in Firenze assumendo il nome di Ludovico Agostino. Nel 1718 aveva già conquistato una notevole rinomanza letteraria componendo versi che non ci sono pervenuti e intrecciando relazioni con quella corte medicea che prodigava notevoli favori a Giovan Battista, tanto da essere assunto come socio nella Accademia degli Infecondi.
Condusse vita agiata senza mai allontanarsi dalla terra natale dove provvide al restauro e all'abbellimento della cappella di famiglia in S. Domenico. Morì in data imprecisabile, forse intorno alla metà del secolo XVIII.
La prima opera che di lui ci rimane a stampa è una Orazione funebre per L. Francesco Maria Querini generale degli Agostiniani recitata nella chiesa di S. Agostino di Prato e successivamente pubblicata a Pistoia nel 1731. Si tratta di una breve prova oratoria che non fa testo rispetto alla futura attività dello scrittore, ma dove tuttavia si rendono evidenti i pregi di una accurata preparazione letteraria, di uno stile forbito e magniloquente, tale da lasciar supporre una preparazione niente affatto dilettantesca sui testi in volgare, soprattutto cinquecenteschi, che potevano essere emulati nell'ambito delle lunghe esercitazioni dell'accademia fiorentina. Peraltro l'orazione del C. mostra, a parte l'occasionalità della scrittura, precise derivazioni dalla oratoria barocca, la cui tradizione sopravvive in pieno clima arcadico - e non soltanto nella prova del modesto letterato pratese - alla reazione razionalistica che avviene nel campo della poesia.
Tali elementi d'arte, sia pure filtrati attraverso la lunga mediazione della Controriforma, conviene mettere in evidenza per interpretare in una prospettiva corretta la successiva prova del C., che corrisponde questa volta pienamente all'indole dello scrittore: La Celidora, ovvero il governo di Malmantile, pubblicata sotto il nome anagrammato di Ardano Ascetti a Firenze nel 1734.
Si tratta di un poema eroicomico che si autodefinisce come la continuazione del Malmantile di Lorenzo Lippi e che, documentando la continuità del genere, riserva un notevole interesse storico, se si pensa che precede il più famoso esemplare settecentesco costituito dal Ricciardetto di Niccolò Forteguerri. Non ponendosi il C. grossi problemi di invenzione, l'autore può dare per scontata una trama divenuta popolare tra i cultori di questo tipo di passatempo letterario e intrecciare una trama vastissima di variazioni che a lungo andare appesantiscono il tenue filo narrativo, ostentatamente condotto sull'orlo dell'incredibile. Vero è che l'intenzione sottesa a questa lunga scrittura non è quella di attrarre il lettore con la forza dell'imprevisto, ma di sedurlo con le armi inesauribili di una loquela agile e sciolta, disponibile a un ulteriore uso comico in quanto codificata da una tradizione accademica. È questo l'aspetto che costituisce indubbiamente il maggiore interesse del Casotti. Quando egli compone il proprio poema la società letteraria italiana è orinai satura di poesia giocosa. Dal Caporali, che ha ereditato dal Bemi il genere del capitolo burlesco e lo ha trasformato in vero e proprio poemetto eroicomico, le successive amplificazioni del Tassoni, e poi del Bracciolini, del Lippi non hanno fatto che ribadire un assunto comico fondato sulle risorse della parola equivoca, allusiva, talvolta popolaresca e immediatamente innestata sul tessuto del discorso letterario come ribobolo. È una poesia generalmente toscana, anchese in parte si svolge fuori della regione, perché si inserisce sul filone fiorentino che trionfa nel Seicento dopo le fortunate prove di Michelangelo Buonarroti il Giovane.
Per quel che riguarda più da vicino il C., si può dire che egli dimostrò in maniera evidente delle affinità non soltanto con la poesia eroicomica, del tardo Cinquecento e del Seicento, ma anche con quella particolare forma del capitolo bernesco che, canonizzato dall'autorità del Della Casa, continuò per lungo tempo a fornire lo schema metrico prediletto per scrittori daccademia. Egli infatti fece precedere il testo della Celidora da tre capitoli in terza rima: il primo, col titolo di "Panegirico dell'Inverno" indirizzato al proprio maestro Carlo Conti, il secondo, intitolato "Il pentimento ovvero la State", dedicato a Giuseppe Bianchini, il terzo, dal titolo "Il Fico", rivolto ad Anton Maria Biscioni. Si tratta di poesie che vertono su un tema tradizionale nel genere del capitolo: l'elogio delle stagioni, su cui si inserisce una particolare soluzione paradossale, non di rado lubrica, del nuovo interprete e l'invenzione si condisce. appunto, con una lingua apparentemente inusitata per la poesia, gergale e ammiccante, piena di controsensi più o meno divertenti.
In effetti la poesia dello scrittore pratese non brilla per originalità di intenti nel poema e neanche in queste più brevi composizioni, che dovettero tuttavia renderlo abbastanza noto assolvendo preminentemente la funzione di corrispondenza in versi fra letterati.
Bibl.: Anche sul C. si legge qualche accenno nella biogr. del più celebre Giovan Battista. Un elogio ne tessé G. Bianchini nel tomo XVIII degli Opuscoli scient. ed eruditi di A. Calogerà, Venezia 1753, pp. 195 ss. Cfr. inoltre E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del sec. XVIII, VII, Venezia 1840, pp. 362 ss. e G. Natali, Il Settecento, Milano s.d., ad Indicem.