ANDOCIDE ('Ανδοκύδης, Andocâdes)
I. Nome di un ceramista attico, che con la tradizionale formula ἐποίησεν ("fece") o ἐποίει ("faceva"), appare come firma su sei vasi: uno dei quali, un'anfora, è a figure nere; due, un'anfora e una tazza, sono a doppia tecnica, cioè su di un lato a figure nere e sull'altro a figure rosse; tre, tutte anfore, sono a figure rosse. Andocide è manifestamente un proprietario di fabbrica, e sulla base dei vasi forniti della sua firma e di quelli che per tecnica e per stile possono ad essa fabbrica essere attribuiti, possiamo distinguere due mani di pittori, cioè del cosiddetto pittore di A., il quale potrebbe essere A. stesso, e del cosiddetto pittore di Menone, il quale avrebbe decorato anche vasi del fabbricante Menone.
Il ceramista A. ci si presenta come il fabbricante tipico di vasi, nella cui decorazione si conciliano due tecniche tra di loro opposte, l'antica e la nuova. È tipica, a tal proposito, la tazza a doppia tecnica firmata, proveniente da Chiusi ed ora nel Museo di Palermo. Nelle scene militari e belliche che adornano i lati esterni di questa tazza ad occhioni ben si può scorgere la superiorità che la nuova tecnica a figure rosse ha su quella a figure nere.
A., che forse insieme a Nicostene, a Panfeo, ad Olto, è da riguardarsi come uno degl'innovatori audaci nella tecnica della pittura ceramica, lavorò nella seconda metà del sec. VI, specialmente tra il 540 ed il 520 a. C.
Bibl.: R. Norton, Andokides, in American Journal of Archaeol., 1896, p. 1 segg.; J. C. Hoppin, A Handbook of Attic red-figured Vases, Cambridge 1919, I; id., A Handbook of Greek black-figured Vases, Parigi 1924; P. Ducati, Storia della ceramica greca, Firenze 1923; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung d. Griechen, Monaco 1923, I; J. D. Beazley, Attische Vasenmaler d. rotfigurigen Stils, Tubinga 1925.
2. - Figlio di Leogora, del demo di Cidatene, oratore e uomo di stato ateniese. Nato prima del 440 a. C. di famiglia nobilissima (il nonno, di cui secondo l'uso greco aveva preso il nome - del resto non attico - era stato stratego e membro della commissione che stipulò la pace dei 30 anni con Sparta nel 446; buona parte dei giovani signori ateniesi che figurano in dialoghi platonici giovanili e lo stesso Platone erano suoi parenti), fu dalla sua stessa nascita attirato ben presto verso il partito oligarchico, e fece parte dell'eteria (ἑταιρία) di Eufileto. Nel 415, coinvolto nel processo degli Ermocopidi, e arrestato insieme col padre e con parecchi congiunti, si decise, per consiglio di suo cugino Carmide, a confessare egli stesso e a denunciare quattro complici per salvare i suoi dalla morte e ottenere impunita. Ma, in forza di un successivo decreto che escludeva i confessi d'empietà dalla comunità sacrale della cittadinanza, dovette abbandonare la patria.
D'allora in poi visse all'estero, esercitando il commercio, finché nel 411 colse l'occasione di rifornire la flotta ateniese a Samo, per potersi così aprire il ritorno in patria. Ma, ritornato, fu dai Quattrocento accusato dinanzi alla Βουλή (il "consiglio"), gettato di nuovo in prigione, e non ebbe salva la vita se non per la caduta di costoro. Allora tornò alla sua vita di commerciante, e si stabilì in Cipro, donde fornì di frumento Atene, sempre nella speranza di potere essere riammesso in patria. Ma un altro tentativo di ottenere la revoca della scomunica, verso il 407, del quale ci è documento l'orazione (II) "Sul proprio ritorno" (περὶ τῆς ἑαυτοῦ χαϑόδου) che si chiamerebbe forse meglio "Sull'impunità" (περὶ ἀδείας), tenuta dinanzi all'assemblea popolare, fallì anch'esso. E solo verso il 402, dopo anni passati di nuovo commerciando in Elide e a Cipro, poté, profittando dell'amnistia generale, concessa dopo la caduta dei Trenta, ritornare in Atene. Dove, ricco com'era per la fortuna fatta commerciando, conseguì, nonostante il suo burrascoso passato, onori e cariche. Ma, accusato di aver preso parte ai misteri eleusini, benché esclusone per il suo misfatto giovanile, dovette difendere esistenza civile e vita dinanzi a un tribunale composto di soli iniziati, il che fece con buon successo nell'orazione (I) "Intorno ai misteri" (a. 398-97). Anzi la sua posizione politica ne uscì rinforzata, sicché egli, durante la guerra corinzia, nel 391, fu scelto con altri quale ambasciatore a Sparta per trattar della pace. Ma i suoi sforzi per ottenere l'assenso ad essa dell'assemblea ateniese, che ci sono documentati dall'orazione (III) "Intorno alla pace con i Lacedemoni" fallirono, e anzi egli e i suoi compagni, come ha di recente mostrato senza lasciar più ombra di dubbio una fonte venuta inaspettatamente alla luce, accusati da Callistrato, preferirono esiliarsi che presentarsi al giudizio. Di qui in poi scompare ogni traccia di lui.
Abbiamo già avuto occasione di nominare le tre orazioni autentiche di A. nel loro ordine cronologico e nel loro contesto biografico. La quarta attribuitagli, contro Alcibiade, si riferisce agli avvenimenti del 417, e cioè alla controversia su chi dovesse essere ostracizzato, se Alcibiade, Nicia o l'oratore, il quale, poiché l'ostracismo non colpì mai se non uomini politici insigni, non può essere identico con Andocide. Né si sa immaginare dinanzi a quale assemblea quell'orazione potesse essere pronunziata: probabilmente è l'esercizio di un retore, capitato casualmente nella raccolta delle orazioni di Andocide.
Fonte principale sulla vita di A. le sue tre orazioni: la loro naturale tendenza apologetica è corretta, quanto al resoconto del processo degli Ermocopidi, dalla breve narrazione di Tucidide, VI, 60; molte notizie sono integrate dalla VI delle orazioni attribuite a Lisia (e tenuta certo non da Lisia nel processo dei misteri: v. su essa Blass, Attische BeredsamKeit, I, 2ª ed., p. 562 segg.; Wilamowitz, Aristoteles und Athen, Berlino 1893, II, p. 74, n.1). Fornisce notizie anche la biografia contenuta nella Vita dei dieci Oratori: l'ultimo esilio è messo ormai fuor di dubbio dalla testimonianza di Filocoro presso Didimo (in Demosth. Philipp., 7, 19), che data anche indirettamente l'orazione per la pace (Wilamowitz in Sitzungsberichte d. Berl. Akad., 1921, p. 735; per il 392 v. ancora Judeich, in Philologus, LXXXI, 1926, p. 141). La tradizione del testo delle orazioni è scarsa, ma non profondamente corrotta. Un'edizione ottima è quella di F. Blass, riveduta dal Fuhr, Lipsia 1913.
Bibl.: Le testimonianze su Andocide sono raccolte tutte diligentemente in Kirchner, Prosopographia attica, n. 828 (a p. 62-63 albero genealogico della famiglia, a p. 443 un importante supplemento). Utili anche l'art. di Thalheim, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., I, col. 2124 e le trattazioni di Christ-Schmid, Griech. Liter., I, 521 e Blass, Attische Beredsamkeit, I, 2ª ed., p. 280. Sul nome di A., v. Wilamowitz, Aristoteles und Athen, l. c. Sulla parte avuta da Andocide nel processo degli Ermocopidi i pareri degli storici variano secondo che essi credono più o meno alle sue dichiarazioni, certo interessate e tendenziose: cfr. Meyer, Geschichte d. Altert., IV, pp. 502 segg., 515 segg.; Busolt, Griech. Geschichte, III, ii, pp. 599 segg., 1281 segg.; 1307 segg.; J. Beloch, Griech. Geschichte, 2ª ed., II, i, p. 360. Gli scrupoli metodici di A. Ferrabino, L'impero ateniese, Torino 1927, p. 283, sono probabilmente eccessivi. Sulla cronologia del processo dei misteri v. ora J. Beloch, Griech. Gesch., 2ª ed., III, ii, p. 16.
Il giudizio degli storici moderni sulla "denuncia" di Andocide pare in genere troppo severo: egli era giovanissimo e inesperto, e credette suo dovere salvare, prima degli estranei, i suoi. Un'analisi delle orazioni è in Blass, Att. Beredsamkeit, 2ª ed., I, p. 310; ma i giudizî sia degli antichi, sia dei moderni (il Blass non escluso), sull'eloquenza di A. sono forse addirittura ingiusti. Ch'egli sappia esporre convincentemente, si scorge anche in ciò che non si riesce a convincerlo di menzogna là dove difende il suo spionaggio, quantunque si sia sicuri che non avrà preso la verità troppo per il sottile. E ogniqualvolta parla di cosa che lo interessi particolarmente, sa incatenare l'attenzione. I critici antichi e moderni lo giudicano male, perché ragguagliano il suo modo di scrivere, punto arcaico, vicino al parlare comune, con gli arcaici Tucidide e Antifonte, e gli applicano criterî e misure retoriche. Un'analisi, intonata a considerazioni storiche e non retoriche, della III orazione (ritenuta, già nell'antichità, spuria da Dionigi di Alicarnasso e Arpocrazione, ma difesa dal miglior conoscitore di antichità attiche, Filocoro), in B. Keil, Eirene, Lipsia 1916, p. 53, n. 1.