Anchise
Principe troiano, figlio di Capi; dalla dea Venere ebbe il figlio Enea. A. è uno dei personaggi principali dell'Eneide: pio e ossequiente al volere degli dei, rappresenta i valori positivi della tradizione, ed è padre rispettato e amato.
Racconta Virgilio che, quando Troia cadde, A., vecchio e stanco, acconsentì che il figlio lo prendesse sulle spalle e lo ponesse in salvo solo dopo che alcuni segni miracolosi gli mostrarono essere volere celeste che egli lo accompagnasse nell'esilio (Aen. II 634-704). Durante le peregrinazioni mediterranee soccorse spesso il figlio con il consiglio e nell'interpretazione dei segni ammonitori. Morì durante la sosta a Trapani, in Sicilia, e ivi fu sepolto (III 708-714); lì, di ritorno da Cartagine, Enea, nell'anniversario della morte, indisse cerimonie e giochi solenni per onorarne la memoria (v 45 ss.). L'eroe troiano rivide il padre allorché, anche in seguito a esortazioni della sua ombra apparsagli più volte in sogno, discese agl'Inferi guidato dalla Sibilla. In quell'occasione A., dopo avergli fornito varie notizie sui Campi Elisi ov'egli risiedeva e averlo ragguagliato sulla metempsicosi, profetizzò a Enea la gloria della sua discendenza romuleo-cesarea e l'avvento dell'impero romano (VI 710-892).
D., che lo menziona più volte come padre di Enea (If I 74, Pg XVIII 137), ricorda la morte del vecchio A. in Sicilia (Pd XIX 132) e la discesa all'Inferno di Enea per rivederlo (Cv IV XXVI 9), rivivendone in particolare l'incontro commovente (Pd XV 25-27; cfr. Aen. VI 684-694) nell'analogo suo incontro con l'avo Cacciaguida, ricalcato volutamente su quello. Ma al di là di queste reminiscenze erudite sta soprattutto a cuore al poeta la profezia di A. a proposito dell'impero, cui egli fa ripetutamente riferimento (If II 13, 26-27; Mn II VI 9, dove si cita Aen. VI 847-853). È questo un punto di capitale importanza per comprendere alcuni aspetti fondamentali del pensiero dantesco: D. presta infatti completa fiducia a quei versi virgiliani, cui attribuisce valore di testimonianza storica, di profezia veramente avvenuta e veridica: tanto da addurre quel passo tra le prove inconfutabili della legittimità dell'impero romano. Del resto alcuni commentatori medievali (ed è chiosa accolta dal figlio di D., Pietro) presentano le parole di A. come " revelatio Dei ", pur intendendo ciò genericamente in chiave di allegoria morale e senza trarvi particolari conseguenze. L'estensore di questa nota, memore della ricca fantasia con la quale il lettore medievale tendeva a forzare in senso cristiano i testi antichi, fraintendendone e violentandone il senso, non tace la possibilità - che alla luce di quanto si è or ora detto diviene probabilità - che in quel medesimo passo D., anziché l'esposizione della metempsicosi, abbia intravisto una confusa profezia del Purgatorio (le anime, che non si sono ancora del tutto liberate dai vizi terreni, desiderano, purgate, di giungere al fiume Lete e salire al cielo: cfr. Aen. VI 714-715, 719-720, 735-740, 748-750; i chiosatori medievali indicano qui: " animae quae purgantur ") e della resurrezione della carne (cfr. Aen. VI 720-721, 751) da parte di quel poeta pagano che nell'Egloga IV aveva pur profetizzato la venuta del Redentore, raccogliendo l'eredità della tradizione della profezia sibillina (ritenuta veridica dal cristiano medievale). V. anche ENEA.
Bibl. - Per alcuni spunti, che dimostrano come la prospettiva segnalata in fine - ovviamente assurda per il lettore moderno - sia tutt'altro che gratuita, cfr. P. Courcelle, Interprétations néoplatonisantes du livre VI de l'Enéide, in Recherches sur la tradition platonicienne. Entretiens III, Ginevra [1956] 95-136.