anastrofe
Figura retorica consistente nel disporre le parole nell'ordine inverso a quello normale.
Quintiliano la distingueva dall'iperbato, perché mentre quest'ultimo riguarda lo spostamento delle parole contro l'ordine naturale, l'a. riguarda in particolare lo scambio nella collocazione di due parole (VIII VI 62). Per Isidoro (I XXXVII 16) l'a, è una delle cinque varietà di iperbato. Non particolarmente contemplata nelle poetiche medievali, essa appare indirettamente trattata a proposito dell'" ordo artificialis ", come nella Poetria nova di Goffredo di Vinsauf, dove appare il classico e comune esempio di a., chiamata " perversio " (" Rege sub ipso ", v. 1053), e nel Laborinthus di Avrardo l'Allemanno, dove gli esempi di a. sono gli unici a caratterizzare l'iperbato (vv. 411-414).
In D. una serie di tipiche anastrofi si ritrova nelle Egloghe, dove esse sono richieste dalla tradizione stessa della poesia latina: redeam si quando (I 43), Meliboeus et ipse (67), mirantur et omnes (II 25), cannea cum (37), tempore iam ex illo (78), omnia qui didicit (96). Ma un caso assai comune, che riprende un modulo diffuso nel latino classico e medievale, è quello del ricorso all'a. per evitare il normale susseguirsi di due sostantivi o aggettivi paralleli. Diffuso nelle Epistole, che perseguono una particolare artificiosità (insultu cessaremus et usu, I 8; obsidionem peperit et ruinam, X 11; solam sedentem et viduam, XI 21), quest'uso ricorre anche nella prosa volgare (vicenda avere e fratellanza, Cv IV IV 2) e latina (Mn III VIII 3 solvere omnia et ligare, e 9 solvere poteris et ligare), nelle Rime (LXI 6 libero core e van d'intendimenti) e nella Commedia: Già era dritta in sù la fiamma e queta (If XXVII 1), con più dolce canzone e più profonda (Pg XXXII 90), l'angelica natura e 'l ministero (Pd X 117), nova cosa né forte (XVI 77), dolce guida e cara (XXIII 34).
A parte questi casi che rispecchiano più direttamente la figura quale essa è prevista nella retorica latina, è assai diffuso nel testo dantesco l'uso di invertire i termini rispetto all'ordine sintattico della prosa romanza. Ma è difficile in realtà individuare la vera e propria a., che dovrebbe rappresentare un'intenzionale ricerca d'arte, non l'adesione a formule generalmente diffuse, nelle quali propriamente permane lo schema sintattico latino, talché esse testimoniano solo l'intento di ricalcare la forma del periodo propria della lingua dotta. Il caso più tipico è quello, frequente nella prosa dantesca, del verbo che segue il suo oggetto in espressioni come A cotale cosa dichiarare (Vn XXV 3), a due cose perfettamente conoscere (Cv I VI 2), [a le] nominate canzoni aprire e mostrare (VIII 1), lo suo intendimento a vedere (II II 6), per meglio quello mostrare, partire si conviene (IV III 1). Lo stesso modulo è presente anche in Rime XLIII 7 per mia lettera mandare.
Sullo stesso piano vanno considerate inversioni come li quali considerando (Cv II XII 5), uso che ritorna nei versi della Commedia (A le quai poi se tu vorrai salire, If I 121) col risultato di un'eloquenza piuttosto prosastica, o come di cui la fama (II 59), oppure del tipo di obedire deono (Cv IV IV 5; cfr. If II 88 temer si dee; XV 118 esser non deggio; XVI 118 esser dienno; XXVII 109 cader deggio; Pg XV 84 esser può; Pd VIII 79 provveder bisogna, e così via), o ancora del tipo di detto avea (Vn XXVII 1), come detto è (Cv IV IV 6), come da camminare è (XVI 9), che riproducono evidentemente l'uso latino, senza una particolare esigenza stilistica, che non sia quella generica di accostarsi alla consuetudine della lingua ‛ artificiale '. E l'uso può largamente documentarsi nella Commedia, sia per quanto riguarda i tempi composti (If xvll 34 venuti semo; Pg XV 84 e 85 veduto avesse... / visto m'avresti; Pd V 122 detto mi fu, e XVII 22 dette mi fur; VIII 91 fatto m'hai), sia soprattutto per quanto riguarda la collocazione del predicato (If XVII 15 dipinta avea; 65 segnato avea; Pg XV 30 messo è; XXX 55 turgide fansi; Pd VIII 134 simil farebbe). L'origine latina è particolarmente visibile e, si direbbe, necessaria, nei casi in cui la forma italiana ricalca letteralmente quella grammaticale latina: cfr. Pg XV 8 girato era sì 'l monte.
Il genere più diffuso di a., che costituisce una licenza del poeta, spesso adottata per ragioni metriche, o una ricercatezza del prosatore inteso a dare nobiltà allo stile, è quella di far precedere il sostantivo dal caso che lo specifica o di disporre il verbo dopo il suo complemento. La licenza e l'accortezza retorica sono, anche in questi casi, favorite e suggerite dall'esempio comune della sintassi latina. Né mette conto insistere su questi casi consueti: cfr. ad es. di Silvio il parente (If II 13), di fiamme rote (III 99), di giustizia orribil arte (XIV 6), d'anime una schiera (XV 16), di foco dilatate falde (XIV 29); e d'altra parte che Dio non teme (III 108), la revestita carne alleluiando (Pg XXX 15).
Non manca tuttavia la possibilità di attribuire a ragioni diverse che non siano l'aderenza alla sintassi latina talune inversioni; ma l'esempio latino ne costituisce pur sempre la condizione. Si pensi alla rima, che deve aver favorito inversioni come locata era (Vn VIII 6 13), giunta fosse (Rime LXVII 69), mosso fue (l f II 141), mezza notte era (Pg XV 6), giunti fummo (XV 34), visto ancor non fue (XXXII 147), impresso fue (Pd XVII 76). Si pensi all'esigenza espressiva di evidenziare il predicato (leggiero era lo suo durare, Vn XXIII 3; morta è la donna tua, XXIII 24 56); ristretta s'è, Rime LXVII 35; poeta fui, If I 73; cortese i fu, II 17; Io non Enëa, io non Paulo sono, II 32; etterno duro, III 8; e stupor m'eran le cose, Pg XV 12; ancisa t'hai, XVII 37; Cesare fui, Pd VI 10), o di richiamare l'attenzione del lettore sul verbo, collocato dinanzi al soggetto all'inizio del verso: Piangevan elli (If XXXIII 50), Soleva Roma, che 'l buon mondo feo (Pg XVI 106), vinca tua guardia (Pd XXXIII 37), o di ottenere particolari accostamenti (pregava l'una l'altra umilemente, Vn XXIII 20 24).
Tuttavia nella maggior parte dei casi il fenomeno dell'anticipazione del verbo rispetto al soggetto va riportato a un'antica norma sintattica, che vuole quell'inversione quando la proposizione comincia con un elemento avverbiale o comunque non col soggetto: nel cor mi si comincia uno tremuoto (Vn XVI 10 13), allora mi rispuose questa che mi parlava (XVII 7), appresso costoro passarono altre donne (XXII 6), In sul paese ch'Adice e Po riga, / solea valore e cortesia trovarsi (Pg XVI 116).
L'inversione rivela più chiaramente la sua ragione espressiva quando viene sottolineata dalle pause del ritmo. La collocazione in rima del participio o dell'aggettivo e la loro anticipazione rispetto alla forma verbale ne accrescono l'evidenza: benedette / sieno, Pg XXIX 86; conosciute / saranno, Pd XVII 85; buoni / sono, XIX 73. L'uso di collocare in rima la parola sulla quale si vuol richiamare l'attenzione suggerisce l'a. in Vn XXVI 6 9 (a miracol mostrare), dove l'intensità semantica del verbo, oltre che dalla collocazione, è accentuata dalla ripresa del medesimo vocabolo nel verso successivo: un esempio notevole, questo, dell'impiego in senso artistico di una formula sintattica, che abbiamo vista assai comune e generalmente prosastica. Potranno considerarsi in pratica delle a., anch'esse guidate da un'esigenza di novità espressiva, certe artificiose anticipazioni, quali allor dirò la donna mia / che port'in testa i miei sospire, Rime LVI 13-14; o l'altra ove si fa il cristallo in quel paese (LXXIII 4).
In altri casi l'infrazione dell'ordine naturale non ha alcun rapporto con l'esempio latino, perché si tratta di licenze tipiche del volgare; né c'entrano ragioni stilistiche, ma soltanto metriche e di rima. Così è da dire di certe insolite enclitiche (fuci, Pg XXIX 66; fusi, Pd III 108, ambedue in rima), o della collocazione anche insolita di avverbi di luogo: per lo papiro suso, l f XXV 65; di Gange fuor, Pg II 5; da questa ripa in fore, III 138.
Bibl. - G. Lisio, L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A., Bologna 1902,150-169; Parodi, Lingua 301-328.