analogia
Il termine analogia designa il processo diacronico attraverso cui una parola cambia forma fonologica e morfologica per diventare più somigliante a un’altra parola già esistente nella lingua. Tale processo è più probabile quando la parola che fa da modello del cambiamento appartiene a un insieme di parole numeroso. In linguistica storica, analogia (con l’affine cambiamento analogico) è usato spesso in connessione col cosiddetto paradosso di Sturtevant, dal nome del linguista statunitense che osservò che il cambiamento fonetico è regolare ma produce irregolarità, mentre il cambiamento analogico è irregolare ma produce regolarità. In realtà, il paradosso fa riferimento a solo un aspetto del cambiamento fonologico, cioè il suo effetto ‘cieco’ sui paradigmi morfologici. Per es., nel passaggio dal latino all’italiano (o meglio al toscano), un cambiamento fonologico ha provocato la dittongazione di tutte le vocali medie brevi, che sono divenute medio-basse, toniche in sillaba aperta (➔ vocali):
(1) a. /ɛ́, ɔ́/ → [jɛ́, wɔ́] pede(m) > piede
b. mieto / metiamo > mietiamo
suono / soniamo > suoniamo
Data la mobilità dell’accento nei paradigmi verbali, nel presente indicativo s’è venuta a creare un’allomorfia (il cosiddetto dittongo mobile; ➔ dittongo; ➔ allomorfi) che opera tra tutte le forme del singolare e la terza plurale, accentate sulla radice (dette rizotoniche), e quelle di prima e seconda plurale, accentate sulla desinenza (dette rizoatone o arizotoniche; ➔ accento). Ciò è dovuto al fatto che i paradigmi morfologici hanno un limitato potere di contrastare gli effetti del cambiamento fonologico. Ciò non toglie che le regole fonologiche possano essere sensibili anche a fatti di carattere morfologico, sia pure di un tipo molto specifico, come i confini morfologici tra morfemi (➔ morfologia). Per es., in italiano settentrionale una regola di sonorizzazione colpisce tutte le ➔ sibilanti intervocaliche: ca[z]a, co[z]a, ecc.; tuttavia, se c’è un confine morfologico, tale sonorizzazione si blocca, come accade nelle parole con prefisso: a[s]ociale / *a[z]ociale, a[s]immetrico / *a[z]immetrico, ecc.
In tal modo un’irregolarità morfologica prodotta dal cambiamento fonologico in (1) è stata eliminata estendendo analogicamente anche al plurale le forme miet- e suon-. Tuttavia, non tutte le vocali medio-basse atone sono state dittongate, ma solo quelle che presentavano un’alternanza condizionata morfologicamente con dittonghi.
Inoltre, il cambiamento analogico non colpisce tutti gli oggetti possibili in modo immediato, come fa il cambiamento fonologico, ma si diffonde in maniera più lenta, parola per parola, paradigma per paradigma. Infatti, anche il cambiamento visto in (1) b. ha seguito un percorso durato secoli e non ancora concluso, come dimostrano da un lato forme come sonando, movendo, ecc., che «sono ancora possibili», ancorché «poco comuni», in quanto «sostenute dalla prosa letteraria» (Serianni 1989: 22), dall’altro alternanze sopravvissute in vari paradigmi verbali come siedo / sediamo, ma siederò, viene / veniva, ecc.
Il cambiamento fonologico, per parte sua, può essere di natura analogica. Ciò accade perché la regolarità del cambiamento fonologico, come di ogni alternanza fonica, può essere formulata in termini analogici: quando un fonema x che ricorre nel contesto y si modifica nella parola A, si modifica anche nella parola B se ricorre nello stesso contesto. Ma accade anche perché taluni cambiamenti fonologici sono chiaramente condizionati su base analogica. Un esempio è dato dall’esito del gruppo latino -si̯-/-se̯- in toscano (e in italiano). L’esito normale è una fricativa palatale [ʃ], preservata in posizione postconsonantica: rovesciare < *reversi̯are. Tuttavia, nella lingua standard in posizione intervocalica troviamo l’affricata [ʧ]: bacio < bāsiu(m), cacio < cāse̯u(m), ecc. Ciò è dovuto all’interferenza con la lenizione (➔ indebolimento) che colpisce, tra l’altro, le affricate intervocaliche [ʧ] e [ʤ], per cui in Toscana a tutt’oggi si osservano le alternanze contestuali per [ʧ]ena /la [ʃ]ena, con [ʤ]ente /la [ʒ]ente, ecc. Tale lenizione era tipica della varietà popolare di lingua, e «può essersi scontrata con la resistenza di modelli di pronuncia più conservativa» (Maiden 1998: 66) in cui la lenizione non era tollerata, sicché il parlante ha costruito analogicamente un’equivalenza tra [ʃ] e [ʒ] popolari = [ʧ] e [ʤ] corretti (o conservativi), estendendo per ➔ ipercorrettismo l’affricata anche ove questa non era originariamente presente.
L’ipercorrettismo fornisce anche un esempio di cambiamento analogico a livello morfosintattico. In diverse varietà meridionali, spec. campane, è diffuso il cosiddetto ➔ accusativo preposizionale, che opera con oggetti diretti denotanti esseri umani: vedo a Pino contro vedo la televisione. La spiegazione di questo fatto deve ricorrere all’analogia. Se l’oggetto è un pronome clitico, la forma dell’oggetto diretto (o accusativo) e quella dell’oggetto indiretto (o dativo) coincidono: ti piace / ti vedo. Tale coincidenza innesca un meccanismo di ri-analisi per cui il parlante istituisce un’equivalenza tra la forma clitica e la forma preposizionale tonica: ti significa sia a te che te. A questo punto, per ipercorrettismo l’equivalenza viene estesa anche alla terza persona singolare, in cui la coincidenza non c’è:
(2) a. ti chiamo / chiamo a te
b. lo telefono / telefono a lui
A un meccanismo analogo si deve anche la diffusione di accusativi preposizionali fuori di quelle varietà regionali i cui dialetti ne sono storicamente privi. In particolare con verbi ‘psicologici’, cioè che esprimono stati d’animo, emozioni, ecc., in cui l’oggetto diretto codifica un essere umano esperiente (mi colpisce molto la tua bellezza), è sempre più diffuso, anche nella lingua scritta di persone istruite, un uso come il seguente:
(3) a me colpisce molto quello che dici.
Tradizionalmente, si distinguono vari tipi di cambiamento analogico, benché le differenze non siano sempre chiare. Molto dipende dalla possibilità di costruire il cosiddetto quadrato proporzionale, sempre operante nel caso nell’estensione analogica. Ad es., in latino una serie di nomi maschili e neutri formavano il plurale secondo diversi tipi flessivi:
(4) senātus / senātūs
(5) tempus / tempora
Nell’evoluzione diacronica tale pluralità di forme s’è fortemente ridotta, o è addirittura scomparsa, in favore del tipo flessivo rappresentato da lupus / lupī, sicché già in latino tardo (Leumann 1977: 430) troviamo casi di cambio di classe flessiva (detto anche metaplasmo), che (a partire da Ferdinand de Saussure) viene descritto come una proporzione:
(6) lupus : lupī = senātus : X ( = senātī)
che si legge così: come lupi sta a lupus così senati sta a senatus. Le cause e la direzione dei metaplasmi sono oggetto di discussione: in questo caso, è plausibile che l’alta numerosità della classe flessiva di lupus abbia attratto parole da altre classi meno numerose (come quella di senatus).
Anche la produttività di un procedimento morfologico è connessa con la numerosità. Per questo si parla di estensione analogica anche per i casi di estensione di un pattern (morfologico) che portano alla creazione di una nuova parola (tipicamente nel processo di ➔ formazione delle parole): ad es., massificazione è formato analogicamente sul modello di giustificare → giustificazione, anacardeto su arancio → aranceto, ecc. (Hock 19912: 176).
Un altro tipo di cambiamento analogico è il cosiddetto livellamento analogico, che consiste nell’eliminazione parziale o completa di alternanze morfo-fonemiche che ricorrono nei paradigmi come quello visto in (1). Anche in questo caso è necessario interrogarsi sulle cause e la direzione del livellamento. Quanto ai casi di (1), la direzione del livellamento va dal singolare al plurale. Tuttavia, le cose non sono sempre così chiare. Infatti troviamo altri casi, benché di gran lunga minoritari, in cui si osserva la direzione inversa, cioè il livellamento dell’alternanza nel singolare in favore del plurale:
(7) niego / neghiamo > nego / neghiamo
priego / preghiamo > prego / preghiamo
Si noti che l’allomorfia è invece preservata nel derivato diniego: anche questo rispecchia una tendenza generale del livellamento analogico, la sensibilità alla forza di coesione dei paradigmi.
Oltre che la forma della radice lessicale, il livellamento analogico può riguardare anche gli ➔ affissi. Ad es., in italiano si è avuta l’estensione degli originari suffissi flessivi della seconda e quarta coniugazione latina -eāmus e -iāmus prima al congiuntivo e poi all’indicativo di tutte le classi (Maiden 1998: 127-129): l’antica forma amamo (< amāmus) è stata sostituita da amiamo, neutralizzando così l’opposizione tra indicativo e congiuntivo. Altri tipi di cambiamento analogico sono meno sistematici. Un primo tipo è dato dalle contaminazioni, in cui si ha l’estensione analogica di un tipo morfologico su parte di un altro morfema. Il risultato è in genere una mistione, in cui i due morfemi risultano più simili l’uno all’altro, benché attraverso un percorso non facilmente ricostruibile. Ad es., rendere (lat. reddere), deve la sua forma attuale alla contaminazione con il suo antonimo prendere (< lat. pre(he)ndere), e similmente il verbo uscire (lat. exīre), deve la vocale posteriore a contaminazione con uscio (lat. tardo ūstiu(m), variante di ōs «bocca, apertura»). Questi esempi mostrano anche che in genere la contaminazione colpisce parole contigue (per significato o per appartenenza a una ‘serie’ come i numerali) o anche opposti.
Altri tipi di cambiamento analogico sono la retroformazione (➔ retroformazioni) e l’etimologia popolare (➔ paretimologia). Nel primo caso il parlante stabilisce un’analogia che lo autorizza a formare una base derivazionale arbitraria, perché in realtà inesistente: ad es., la forma redarre, invece di quella standard redigere, è una retroformazione basata sul modello tratto : trarre = redatto : X. Allo stesso modo, acquisire, gestire e oblare sono dal punto di vista diacronico retroformazioni basate sui rispettivi participi acquisito, gestito e oblato, poiché i corrispondenti verbi originari latini sono rispettivamente acquīrere, gerere e offerre. Retroformazioni sono anche verbi derivati da nomi, come transare da transazione, coprodurre e semidistruggere da coproduzione e semidistruzione, perché «contengono dei prefissi normalmente compatibili solo con basi nominali» (Rainer 2004: 496). Tale sembra ad esempio la serie di verbi prefissati con tele-: telecomandare, teleriscaldare, teletrasmettere, ecc. Simile alla retroformazione è l’etimologia popolare, che consiste nell’attribuire ad una parola, in genere di origine dotta o straniera, una ‘spiegazione’ arbitraria: ad es., Campidoglio, che risale al latino capitōliu(m), è stato rianalizzato come campi+d’+oglio; gelsomino, dapprima prestito dal persiano yāsamīn, è stato rifatto sulla base di gelso, ecc. (Maiden 2008). Si noti che tale rimotivazione non necessariamente mira a stabilire un nuovo significato trasparente: in realtà, con l’etimologia popolare i parlanti cercano di sostituire elementi morfologici ignoti o poco noti con morfemi noti, indipendentemente dall’effetto finale. Nondimeno, essa può anche creare trasparenza semantica, come nel lat. perī-culum «pericolo», risalente a ex-perī-ri «provare, sperimentare», ma rimotivato sulla base del verbo parzialmente omofono per-īre «morire».
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