analisi/sintesi
Risoluzione di un complesso negli elementi semplici che lo compongono. Nella logica aristotelica, in senso generale, l’a. sta a indicare quel procedimento mediante il quale si scompone il ragionamento nelle proposizioni costituenti e queste, a loro volta, nei termini. Nella terminologia neoplatonica – soprattutto nella patristica greca – viene designato con a. il processo di liberazione dalla molteplicità e di ritorno all’uno. Nella logica del 17° sec. l’a., intesa dapprima come metodo di insegnamento, in contrapposizione a s., diviene successivamente, da Cartesio in poi, pur rimanendo strettamente collegata a esigenze didattiche, metodo di dimostrazione («La maniera di dimostrare è duplice: l’una dimostra attraverso l’a. o risoluzione, l’altra attraverso la s. o composizione. L’a. dimostra la vera via per la quale la cosa è stata metodicamente inventata e fa vedere come gli effetti dipendano dalla causa», Risposte alle seconde obiezioni, 1641). Questa impostazione viene ripresa da Hobbes (De corpore, 1655, VI, 1-2). Nel solco delle dottrine cartesiane, la Logica (1662) di Port-Royal attribuisce all’a. o «metodo d’invenzione» una prevalenza sulla s. o «metodo di composizione» e anticipa le posizioni di Leibniz e di Newton. Quest’ultimo identifica l’a. con un genere di conoscenza basato sull’investigazione del tutto a partire dalla conoscenza delle parti (intesa dunque come conoscenza sperimentale induttiva), mentre la s. è conoscenza delle parti in base a principi generali relativi al tutto. Il concetto dell’a. e della s. scientifica viene così esposto nell’Ottica (ed. 1749): «Il metodo analitico consiste nel raccogliere esperimenti, osservare fenomeni, e quindi giungere per induzione a conclusioni generali… Per quest’a. si risalirà, col ragionamento, dalle cose composte alle semplici… dagli effetti alle cause; dalle cause particolari alle generali, finché si giunga alle generalissime. Questo è il metodo analitico. Il sintetico consiste nell’assumere come principi le cause investigate e comprovate, e per mezzo loro spiegare i fenomeni che ne derivano, dimostrando tali spiegazioni». Sostanzialmente analogo è il significato attribuito ad a. e s. sia da Wolff sia da Kant. Dice Wolff: «Si chiama analitico il metodo dal quale le verità sono disposte nell’ordine in cui furono trovate o almeno in cui potevano essere trovate. Si dice sintetico il metodo dal quale le verità sono disposte in modo che ciascuna possa essere più facilmente intesa e dimostrata a partire dall’altra» (Logica, 1728, § 885). Kant a sua volta afferma, a proposito del significato quantitativo di a. (da lui distinto dal significato qualitativo, che è «il regresso a rationato ad rationem»), che esso è «il regresso del tutto alle sue parti possibili cioè mediate, cioè alle parti delle parti, sicché l’a. non è la divisione ma la suddivisione del composto dato» (De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, 1770). Nella Critica della ragion pura (➔) (1781) la s. è costituita per Kant dall’unificazione che l’intelletto opera, attraverso i suoi concetti o categorie, del molteplice intuitivo. Nella filosofia del Novecento l’a. viene prevalentemente intesa come l’unico metodo che, in contrapposizione ad arbitrarie estrapolazioni metafisiche, possa consentire il raggiungimento di risultati validi, fornendo possibilità di verifica del metodo impiegato ed eliminando la necessità di ricorrere a ipotesi non controllabili. Questa concezione dell’a. è tipica soprattutto delle correnti dell’empirismo logico, dove essa diviene a. del linguaggio come strumento di chiarificazione dei termini usati, impedendo così l’insorgere di equivocità e pseudo-problemi metafisici. La tendenza a identificare l’a. concettuale con l’a. del linguaggio e la superiorità metodologica del momento analitico caratterizzano in particolare la corrente della filosofia analitica (➔).