analisi logica
L’analisi logica potrebbe essere definita come quel tipo di analisi tradizionalmente incentrata sull’identificazione delle funzioni nella frase semplice: fondamentalmente del ➔ soggetto e del predicato (➔ predicato, tipi di) considerati elementi obbligatori, cui può facoltativamente aggiungersi un numero variabile di ➔ complementi di diversa natura. Dunque nella visione tradizionale è completa, e quindi di senso compiuto, solo una frase che contenga i due elementi obbligatori, i quali possono peraltro essere sottintesi: così in è arrivato ieri è sottinteso il soggetto; in Maria è arrivata domenica, Giorgio ieri ci sono due frasi, completa la prima, con il predicato sottinteso la seconda. Questo tipo di analisi della frase semplice è stato da tempo messo in discussione dalla ricerca grammaticale moderna, che ha elaborato proposte profondamente innovative, sicché oggi l’espressione analisi logica ha un significato molto ristretto e particolare: è quel tipo di analisi della frase semplice che si fa ormai solo a scuola, per lo più corrotta da errori e imprecisioni di varia gravità, di solito propedeutica allo studio del latino per il quale viene dai docenti generalmente considerata indispensabile.
L’analisi logica si esercita generalmente sulla frase semplice, altrimenti detta proposizione, che può essere definita come «una sequenza di parole contenuta tra due pause forti, al cui interno c’è un predicato nella forma di un verbo di senso compiuto» (Serianni 1997: 537). Esula invece dai suoi interessi tradizionali l’analisi della frase complessa («data dall’unione di più proposizioni collegate insieme sullo stesso piano o su piani diversi», ivi), per la quale, oltre ai concetti elaborati dall’analisi logica, diventano pertinenti i fenomeni della coordinazione e della subordinazione (➔ sintassi). All’analisi della frase complessa si dà tradizionalmente il nome di analisi del periodo.
Passeremo adesso in rassegna gli elementi fondamentali dell’analisi logica, ma dalla particolare prospettiva dell’insegnante di italiano che attiva una riflessione sintattica sulla lingua materna degli allievi, posto che sia l’italiano.
Definire il soggetto con l’ottica appena dichiarata dell’insegnamento scolastico significa entrare nelle dispute che hanno segnato la storia del dibattito sull’insegnamento grammaticale nell’ultimo Novecento. È stato infatti a più riprese criticato il criterio semantico-nozionale con cui tradizionalmente a scuola si definisce il soggetto come «colui che fa l’azione», e d’altro canto i contro-esempi di soggetti che non fanno alcuna azione sono davvero troppi per meritare un lungo ragionamento: bastino frasi come Maria ha mal di testa o il film dura 3 ore per dimostrare che quella definizione di soggetto non regge alla prova dei fatti.
D’altro canto altre definizioni nozionali («il soggetto è colui che fa o subisce l’azione», «il soggetto è ciò di cui si parla», «il soggetto partecipa dello stato di cose espresso dal predicato») risultano ugualmente insoddisfacenti, e non sarebbe difficile trovare numerosi esempi in cui quelle definizioni potrebbero ugualmente bene adattarsi ad altri elementi della frase: ad esempio in hai sentito del matrimonio di Carlo?, si parla del matrimonio o di Carlo? Nessuno dei due elementi è comunque il soggetto della frase.
Non potremo neppure ricorrere a un criterio distribuzionale, di posizione fissa nella frase, visto che in italiano la posizione del soggetto non è rigida: molto spesso compare prima del verbo, spesso in prima posizione, e questa relativa frequenza deve essere la causa prima di tanti errori nelle analisi scolastiche. Come scherzosamente scrisse Renzi (1977, 2008: 29, 219): «L’ultimo della classe è sempre stato un distribuzionalista accanito: per lui il Soggetto è la prima parola della frase. Ma questa sua posizione gli ha sempre provocato gravi dispiaceri». E infatti sono davvero troppi i casi in cui il soggetto in italiano non occupa la prima posizione nella frase: ad es., il soggetto è per lo più in posizione post-verbale con i verbi e le costruzioni inaccusative (sono arrivati due bambini nuovi; sono possibili due diverse strategie; sulle strade si verificano troppi incidenti; sono stati promossi tutti gli studenti); nelle frasi interrogative ed esclamative (che cosa ha detto Maria?; quanto tempo mi ha fatto perdere Paolo!); in costruzioni particolari che servono a dare rilievo al soggetto (sei stato tu?; ha chiamato Maria?); nelle frasi con ordine marcato degli elementi (➔ ordine degli elementi), in cui il soggetto compare a metà frase o addirittura alla fine (l’ha comprato Maria, il libro; il libro l’ha comprato Maria).
L’unico criterio valido per reperire il soggetto rimane quello morfologico, che in italiano si esprime con l’accordo tra soggetto e predicato, in latino (e in molte altre lingue) con un caso dedicato, il nominativo. Dunque, indipendentemente dalle sue caratteristiche semantiche e distribuzionali, in italiano il soggetto ha la caratteristica peculiare di concordare col predicato nel numero e, laddove è pertinente, nel genere: quindi il bambino viene, è arrivata la nave, ieri sono venuti i vicini a protestare, ecc. Una regola pratica e sempre valida potrebbe dunque essere la seguente: cerca il predicato, e da questo risali al soggetto. Pur essendo un elemento obbligatorio, il soggetto può essere sottinteso: anche in questi casi però può essere facilmente rintracciato a partire dal predicato, che essendo di forma finita (come quasi sempre nelle frasi semplici) contiene l’espressione della persona.
Oltre che alla posizione del soggetto, normalmente l’analisi logica tradizionale non dedica la giusta attenzione alle diverse modalità in cui può presentarsi un soggetto: si dà per scontato che il soggetto sia espresso da un nome o da un pronome (Maria studia, tu non ascolti), e tanto basta. In realtà con i nomi comuni gli studenti imparano abbastanza presto che il nome è per lo più preceduto dall’articolo, determinativo o indeterminativo, e ciò basterebbe per parlare non già di nome ma di gruppo del nome (o, con terminologia più tecnica, di ➔ sintagma nominale, di cui il nome è la ‘testa’ perché su di esso si accordano altri elementi eventualmente correlati, come articoli e aggettivi).
Rimangono spesso non esplicitati, e dunque costituiscono fonte di errori, i casi in cui il soggetto sia introdotto dall’articolo partitivo (mi sono state regalate delle splendide rose); o i casi in cui sia espresso da altre parti del discorso (domani è un altro giorno) o rimanga indefinito (dicono / si dice che stasera pioverà); o i casi del tipo sono sorti una serie di problemi, dove si realizza il cosiddetto accordo a senso (➔ accordo) tra il complemento di specificazione (di problemi) e il predicato: in realtà, considerando soggetto l’intero sintagma (una serie di problemi), l’analisi risulterebbe più semplice e dunque più facile, oltre che più corretta.
L’analisi logica tradizionale lo identifica con il verbo, e lo definisce come «l’elemento che indica l’azione o lo stato riferiti al soggetto» (Trifone & Palermo 2007: 186). Come per il soggetto, si assume che non possa mancare nella frase, anche se potrebbe essere sottinteso (ma questo caso è molto meno sistematicamente esplorato). Comunque soggetto e predicato basterebbero, da soli, a fare frasi di senso compiuto. Serianni infatti (1997: 60-61), dopo aver definito la frase «l’unità minima di comunicazione dotata di senso compiuto», aggiunge che essa deve contenere
almeno un predicato nella forma di un verbo di modo finito, che può essere accompagnato, quando la frase non sia impersonale (ad es. «piove»), da un soggetto. Appartengono a questo tipo tutte le frasi in cui il soggetto è espresso da un nome o da un pronome, ed il predicato è espresso da un verbo predicativo (predicato verbale) oppure dal verbo essere in unione con una parte nominale (predicato nominale).
Dunque la tradizione grammaticale italiana distingue un predicato verbale da un predicato nominale sulla base della diversa natura dei verbi che danno luogo a una struttura frasale: i verbi predicativi hanno senso compiuto, e dunque bastano da soli a ‘predicare’ una qualche azione o stato del soggetto (Maria dorme, corre, sogna, sbadiglia, ecc.), dando luogo a un predicato verbale; i verbi copulativi (➔ copulativi, verbi) non hanno senso compiuto, e per predicare qualcosa di un soggetto hanno bisogno di essere completati da una parte nominale o aggettivale (Maria è avvocato, sembra intelligente), dando luogo al predicato nominale. Più precisamente, nel predicato nominale la parte verbale prende il nome di copula (dal latino copulare «collegare»); la parte nominale o aggettivale, collegata al soggetto attraverso la copula, viene chiamata nome del predicato.
La distinzione tra predicato verbale e predicato nominale è cruciale nell’ottica dell’insegnamento del latino: nel predicato nominale infatti il nome del predicato seleziona sempre il caso nominativo, mentre nel predicato verbale tutti i complementi eventualmente presenti selezionano casi diversi dal nominativo. È dunque essenziale imparare a discriminare con sicurezza i due tipi di predicato.
Quel che non funziona nell’analisi tradizionale è il concetto di predicato verbale, che si fa consistere unicamente nell’elemento verbale, per cui una frase come
(1) Maria ha raggiunto il rifugio
viene analizzata come: soggetto (Maria) + predicato verbale (ha raggiunto) + complemento oggetto o diretto (il rifugio). Ma se il soggetto e il predicato bastano da soli a fare una frase di senso compiuto, perché * Maria ha raggiunto ci appare incompleta, avendo eliminato solo un elemento aggiuntivo, considerato non obbligatorio? E perché ci appaiono incomplete, e dunque mal formate, decine di frasi simili, del tipo * Maria dà, sostiene, ha regalato, è andata, ascolta, si dedica, ama, preferisce, ecc.?
Questo tipo di analisi potrebbe essere salvata soltanto se si assumesse l’idea, centrale nel modello valenziale (➔ argomenti) ma accettata e fatta propria da molte scuole di linguistica, che il predicato non coincide con il verbo ma con il verbo e i suoi argomenti, i quali sono anch’essi obbligatori, necessari a dare senso compiuto alle frasi, assenti ‘in superficie’ solo nei casi in cui possano facilmente essere recuperati dal contorno linguistico o extralinguistico.
Così ad esempio Dubois et al. (1979: 226) definiscono la voce predicato:
In una frase di base costituita da un sintagma nominale seguito da un sintagma verbale, si dice che la funzione del sintagma verbale è quella di predicato. Per es., in Pietro scrive una lettera a sua madre, il sintagma nominale è il soggetto [...] e il sintagma verbale scrive una lettera a sua madre è il predicato.
Si noti che in questa definizione si definisce predicato la «funzione del sintagma verbale». Sulla stessa linea Prandi (2006: 97) e Salvi & Vanelli (2004: 31); questi ultimi, dopo aver definito la frase italiana come «composta da un SN [sintagma nominale] e da un SV [sintagma verbale]», aggiungono: «Il SV è costituito a sua volta dal verbo e dagli argomenti del verbo diversi dal Soggetto (argomenti interni)». Da qui la raffigurazione proposta della struttura della frase semplice:
Dunque si fanno rientrare nel SV una serie di elementi che l’analisi logica tradizionale tiene ben separati dal predicato e classifica come complementi. Si tratta, a ben guardare, solo di alcuni tipi particolari e ricorrenti di complementi (complemento oggetto o diretto, di termine o indiretto e pochi altri), i quali sono considerati, come il soggetto, tutti indispensabili alla rappresentazione dell’evento espressa dal verbo, quindi necessari a ‘predicare’ qualcosa del soggetto e, di conseguenza, a costruire frasi di senso compiuto. È per questo che * Maria ha regalato appare agrammaticale: perché sono assenti due elementi obbligatori, vale a dire l’oggetto diretto, il che cosa ha regalato Maria, e l’oggetto indiretto, indicante a chi lo ha regalato.
Se il soggetto e il predicato (nel senso errato che lo fa coincidere con la sola voce verbale) sono considerati i costituenti obbligatori di ogni frase, tutti gli altri elementi sono considerati facoltativi: tra questi occupano un posto di assoluto rilievo i ➔ complementi, l’attributo e l’apposizione. Ciascun elemento nominale della frase può essere accompagnato da altri elementi che hanno una funzione sussidiaria e accessoria, aggiungendo al nome informazioni varie, relative alla qualità, alla quantità, alla posizione nello spazio, al possessore, ecc. Tale elemento aggiuntivo, se espresso da un aggettivo, prende il nome di ➔ attributo. Così in una frase come
(2) questa ragazza vive in una grande città
l’analisi logica tradizionale definisce questa attributo del soggetto, grande attributo del complemento (di stato in luogo, in questo caso). Se l’elemento aggiunto è un nome, si parla di ➔ apposizione; in
(3) la signora Maria vive in campagna
l’analisi logica definisce Maria soggetto, la signora apposizione del soggetto. Ovviamente l’attributo, essendo aggettivo, deve concordare in genere e numero (e, in latino, nel caso) col nome cui si riferisce. L’apposizione, essendo un nome, ha un genere proprio, e si accorda col nome che accompagna solo nel numero in italiano, in numero e caso in latino.
Fin qui l’analisi logica tradizionale. Non c’è molto da aggiungere a questo quadro, se non che questa analisi scompone il costituente sintattico (sia esso soggetto o complemento) nei suoi elementi costitutivi, senza dare forse la dovuta importanza all’unità del costituente, e ignorando la possibilità di ‘espandere’ il nome testa del costituente con altri possibili elementi aggiuntivi, che possono svolgere nella frase la medesima funzione. Ad es. in:
(4) la ragazza alta è mia sorella
(5) la ragazza di Franco è mia sorella
(6) la ragazza che passa in motorino è mia sorella
ci sono degli elementi aggiunti che l’analisi logica tradizionale definisce e chiama in modi molto diversi (alta, attributo del soggetto; di Franco, complemento di specificazione; che passa in motorino, subordinata relativa), senza notare e far notare agli studenti che comunque questi diversi elementi svolgono tutti la stessa funzione, cioè espandono la testa nominale (ragazza) di cui possono a buon diritto essere considerati dei modificatori.
L’unico merito dell’analisi logica tradizionale è quello di individuare e suggerire un livello di analisi, quello della frase semplice, imprescindibile in qualunque tipo di riflessione, scolastica o no, sulla struttura di una lingua. Ma il modello cui essa si ispira è considerato superato per molte e serie ragioni (si vedano in proposito Sabatini 2004; Lo Duca 2006; Deon 2009). A quelle che abbiamo già visto, ne aggiungiamo alcune altre.
Oggi è diventato più chiaro che nell’analisi della frase è opportuno distinguere vari livelli – pragmatico, sintattico, semantico – e che tra gli oggetti indagati nei diversi livelli d’analisi le corrispondenze non sono automatiche. Il livello pragmatico, l’unico a non aver mai avuto spazio nell’analisi logica anche perché indagato solo di recente, ha soprattutto a che fare con le assunzioni tacite del parlante sulle conoscenze dell’interlocutore, o con gli stimoli esterni che costituiscono la scena in cui si inscrive ciascun atto di comunicazione.
Questi elementi condizionano l’ordine delle parole nella frase, cui si accompagnano fatti intonativi particolari. Quando dunque l’ordine di base degli elementi di una lingua – per l’italiano SN-SV o, come anche si dice, SVO, cioè S(oggetto)-V(erbo)-O(ggetto) – viene alterato, varrebbe la pena di chiedersi perché. Ad esempio una frase che si presenterebbe nella sua forma di base o non marcata come
(7) Maria ha mangiato il panino
può assumere, sulla base di considerazioni pragmatiche, ordini e curve intonative particolari: il panino l’ha mangiato Maria; l’ha mangiato Maria, il panino; il panino ha mangiato Maria ed altre ancora. La moderna ricerca grammaticale (valga per tutti Salvi & Vanelli 2004: 297-313) ha cercato di descrivere e spiegare questi fatti, peraltro comunissimi nella lingua, dando un nome a certi profili frasali (➔ dislocazioni). Ignorandoli, l’analisi logica non allerta l’attenzione degli allievi sull’ordine degli elementi nella frase, rafforzando la tendenza di tutti gli apprendenti a regolarizzare i fatti di lingua: dunque sarà la frase non marcata, con soggetto al primo posto, il modello ideale cui riferirsi nell’analisi e da ritrovare meccanicamente, qualunque sia l’enunciato proposto.
Se ignora il livello pragmatico, l’analisi logica tradizionale non trascura gli altri due livelli, sintattico e semantico, ma senza operare le necessarie distinzioni e pervenendo di conseguenza a una continua e in parte inconsapevole commistione di piani. Anche in questo caso la grammatica moderna ha fatto ordine. Adesso sappiamo che a livello sintattico è giusto parlare di ➔ sintagma nominale e ➔ sintagma verbale come gli elementi costitutivi della frase minima; che nella posizione del sintagma nominale compare uno degli argomenti del verbo, il soggetto, che proprio perché fuori dal sintagma verbale viene da qualcuno chiamato argomento esterno; che il soggetto concorda con l’elemento verbale del sintagma verbale; che quest’ultimo a sua volta è costituito non già dal solo verbo ma dal verbo e dagli argomenti del verbo diversi dal soggetto, altrimenti detti anche argomenti interni; che tutti gli altri elementi presenti nella frase sono facoltativi, e possono ‘espandere’ singoli elementi della frase, o la frase nel suo complesso.
Un’analisi semantica della frase, invece, non può esimersi dal chiedersi quale tipo di evento o processo raffiguri il verbo, quali ruoli o partecipanti siano necessari per la realizzazione dell’evento (➔ argomenti), quali informazioni supplementari vengano date, relative ad es. alla localizzazione spaziale e/o temporale dell’evento, alle cause che lo hanno determinato, al fine cui esso è diretto e così via. E dunque di un soggetto (sul piano sintattico) potremo dire, sulla base del tipo di evento evocato dal verbo, che è un agente (Maria bacia il suo bambino), o un esperiente (Maria ha mal di testa), o un beneficiario o termine (Maria ha avuto in regalo una collana), o un possessore (Maria ha un gatto) e così via, con un’analisi che prende in considerazione le relazioni di significato (chiamate ruoli semantici o ruoli tematici) che una voce lessicale, in questo caso un verbo, assegna ai propri argomenti. Si tratta insomma di un tipo di analisi che va al di là delle realizzazioni superficiali. Sicché uno stesso elemento di superficie, come si è appena visto, può occupare nella frase il posto di soggetto ma ricoprire ruoli semantici diversi.
Quanto all’utilizzabilità didattica di questi concetti si è già detto che vanno assunti con le dovute cautele (➔ complementi, § 3; Lo Duca 2006). Ma non aver tenuti distinti il piano sintattico da quello semantico nell’analisi della frase costituisce il limite di fondo dell’analisi logica tradizionale, difficilmente superabile ed emendabile. Ad es. nasce da qui, da questa commistione indebita, l’errore clamoroso, da tanti denunciato, di considerare sempre e comunque l’argomento soggetto come l’agente, il promotore dell’azione. Questa è probabilmente l’eventualità più frequente, ma è ben lungi dall’essere l’unica.
Infine, sul piano didattico pesa su questo tipo di esercizio la mancanza di una più generale cultura della ‘messa in sequenza’ dei contenuti grammaticali, atteggiamento nefasto che si ritrova non solo nelle pratiche dei docenti, ma anche nei documenti ministeriali. Ad esempio nelle ultime Indicazioni per il curricolo (2007) tale esercizio (come peraltro l’analisi grammaticale) viene suggerito ed esaurito nel ciclo elementare (v. in proposito Lo Duca 2008). Nel ciclo superiore (scuola media) questa materia viene data per acquisita e non più ripresa con espliciti richiami. Ora è del tutto evidente come l’analisi della frase semplice presenti fatti di grande complessità che non sono in nessun modo accessibili a fasce così giovani di studenti. A scuola si dovrebbe poter prevedere una progressiva complessificazione della materia grammaticale secondo un piano accertato e ben documentato di difficoltà crescenti. Questa progressiva risalita dal semplice al complesso è proprio ciò che non si fa a scuola, e che l’analisi logica tradizionale non ha probabilmente ragione di fare. Traghettati gli studenti sulla sponda del latino, l’analisi della frase italiana perde qualunque interesse, i problemi complessi di sintassi si affrontano direttamente sul latino, e chi non ha il latino nel proprio curricolo scolastico rimane all’analisi logica delle elementari, forse ripresa in prima media, e con questo bagaglio grammaticale elementare e in parte comunque dimenticato arriva all’università. Questa è la causa della diffusa e grave ignoranza grammaticale nei giovani universitari, documentata in tante preoccupate e preoccupanti ricerche (per es. Voghera et al. 2005).
Deon, Valter (2009), Ancora l’analisi logica?, in Lingua e grammatica. Teorie e prospettive didattiche, a cura di P. Baratter & S. Dallabrida, Milano, Franco Angeli, pp. 79-95.
Dubois, Jean et al. (1979), Dizionario di linguistica, Bologna, Zanichelli (ed. orig. Dictionnaire de linguistique, Paris, Larousse, 1973).
Graffi, Giorgio (1994), Sintassi, Bologna, il Mulino.
Lo Duca, Maria G. (2006), Si può salvare l’analisi logica?, «La Crusca per voi» 33, pp. 4-7.
Lo Duca, Maria G. (2008), Riflettere sulla lingua, in Il curricolo e l’educazione linguistica. Leggere le nuove Indicazioni, a cura di A. Colombo, Milano, Franco Angeli, pp. 105-124.
Ministero della Pubblica Istruzione (2007), Indicazioni per il Curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione (http://www.indire.it/indicazioni/show_attach.php?id_cnt=4709).
Prandi, Michele (2006), Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, Torino, UTET Università.
Renzi, Lorenzo (1977), Una grammatica ragionevole per l’insegnamento, in Scienze del linguaggio ed educazione linguistica, a cura di G. Berruto, Torino, Stampatori, pp. 14-56 (ristampato in Id., Le piccole strutture. Linguistica, poetica, letteratura, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 207-234).
Sabatini, Francesco (2004), “Che complemento è?”, «La Crusca per voi» 28, pp. 8-9.
Salvi, Giampaolo & Vanelli, Laura (2004), Nuova grammatica italiana, Bologna, il Mulino.
Serianni, Luca (1997), Italiano. Grammatica, sintassi, dubbi, con la collaborazione di A. Castelvecchi; glossario di G. Patota, Milano, Garzanti.
Trifone, Pietro & Palermo, Massimo (20072), Grammatica italiana di base, Bologna, Zanichelli (1a ed. 2000).
Voghera, Miriam et al. (a cura di) (2005), E.LI.C.A.: educazione linguistica e conoscenze per l’accesso, Perugia, Guerra.