analisi grammaticale
Non è facile dare una definizione di analisi grammaticale. L’espressione potrebbe infatti riferirsi ed essere utilizzata a buon diritto per qualunque tipo di analisi, cioè di esame o osservazione minuziosa, condotta sulla grammatica di una lingua, quindi sui suoi aspetti più formali e regolari. Nella realtà italiana (e forse anche di altri paesi), tuttavia, l’espressione ha assunto un significato più specifico e ristretto, condiviso dalla grande maggioranza dei parlanti, i quali ne hanno avuto diretta e non sempre felice esperienza negli anni della formazione scolastica. In questa accezione, l’analisi grammaticale è una pratica scolastica mediante la quale si fa scoprire agli allievi la diversa natura delle parole che occorrono nella lingua. È dunque l’esercizio con cui si addestra a riconoscere le varie ➔ parti del discorso o categorie lessicali (nome, aggettivo, verbo, ecc.), le loro sottocategorie (aggettivo qualificativo, possessivo, numerale, ecc.) e eventualmente sotto-sottocategorie (aggettivo numerale cardinale, ordinale, moltiplicativo, ecc.). Di ciascuna categoria variabile gli allievi vengono anche addestrati a riconoscere e denominare alcuni tratti e opzioni: solitamente genere e numero per nomi, articoli, aggettivi, talvolta pronomi; modo, tempo, persona e numero per i verbi. Altri tratti, pure presenti in alcune categorie dell’italiano, come il ‘caso’ nel pronome personale (➔ personali, pronomi) e l’➔aspetto nel verbo, vengono invece tradizionalmente ignorati. Data poi la nota complessità del paradigma verbale dell’italiano, grande attenzione viene di solito dedicata al riconoscimento e alla memorizzazione delle forme dei diversi tempi e modi verbali, e connessa terminologia.
Per addestrare a riconoscere una categoria e a discriminarla da tutte le altre, i docenti si avvalgono di un apparato definitorio e terminologico di tutto rispetto, che ha radici antiche e solidissime anche se non sempre del tutto adeguate alle conoscenze accumulate su questi temi dalla linguistica moderna. Ciò ha provocato un progressivo allontanamento delle pratiche scolastiche dalla ricerca grammaticale più aggiornata e dalla nuova ➔ educazione linguistica: l’una e l’altra, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, hanno sottoposto l’analisi grammaticale, e più in generale la tradizione scolastica di riflessione formale sulla lingua, a critiche severe (basti per tutti citare Berretta 1977, Renzi 1977, i saggi contenuti in Ambel 1982 e la sintesi di Lo Duca 2003). Nell’esporre i concetti principali dell’analisi grammaticale faremo costante riferimento a questo dibattito, che ha contribuito in modo fondamentale a chiarire le idee di chi lo ha seguito con attenzione, senza peraltro riuscire a intaccare in maniera significativa le pratiche correnti nella scuola.
Per prima cosa è bene ribadire, attraverso le parole di una linguista che ha segnato in modo indelebile la storia dell’educazione linguistica, che «saper analizzare materiali linguistici dati, riconoscere le categorie e sottocategorie, enunciarne le definizioni, e in generale conoscere le ‘regole’» non porta automaticamente ad «esprimersi correttamente in buon italiano [...]. In realtà, nulla conferma, anzi molti indizi tendono a negare, che lo studio della grammatica tradizionale [e moderna, aggiunta nostra] abbia un qualsivoglia influsso positivo sulla competenza linguistica degli allievi» (Berretta 1977: 4-5, 8). In particolare, ad es., saper riconoscere e nominare correttamente i tempi e i modi del paradigma verbale dell’italiano, o le molte classi e sottoclassi di aggettivi e pronomi, o anche semplicemente saper discriminare una categoria rispetto a un’altra non garantiscono l’uso corretto degli elementi nella produzione. Adesso sappiamo che la competenza sulla propria lingua si costruisce attraverso l’esposizione all’input, che quanto più vario, ricco e stimolante sarà l’input cui il bambino è esposto tanto più varia, ricca e autonoma sarà la sua competenza linguistica, e che l’uso ripetuto di testi diversificati, semmai guidato e controllato dalla scuola, è la chiave di accesso prioritaria alla buona e corretta produzione orale e scritta.
Un altro punto molto criticato dell’analisi grammaticale tradizionale è la pratica consistente nella presentazione e definizione degli elementi di volta in volta selezionati, seguite da una più o meno adeguata esemplificazione e da esercitazioni dirette alla fissazione dei concetti e della terminologia. Questa metodologia, ancora largamente presente e praticata nelle classi, facilmente diventa un esercizio meccanico e ripetitivo, una sorta di semplice condizionamento segno → denominazione. Non solo: assunta e proposta in modo convinto per tutto il ciclo scolare, induce prima gli insegnanti poi anche gli studenti a «trascurare una verità di fondo: l’arbitrarietà di qualunque sistema di classificazioni e definizioni teoriche adottato [corsivo dell’autore], che è sempre legato alle particolari finalità della descrizione» (Bertinetto 1976). Le categorie e sottocategorie consegnateci dalla tradizione sono di fatto restate immutabili nei libri per le scuole, ma non, come vedremo tra poco, nelle grammatiche di riferimento e nei saggi più specifici. E con ciò siamo a un altro punto dolente. L’analisi grammaticale si esercita di solito su frasi, talvolta su testi più ampi, ma gli allievi sono addestrati ad analizzare ogni elemento in isolamento e non già per le relazioni che intrattiene con gli altri elementi della frase. L’interesse è dunque tutto concentrato sulla natura degli elementi, sulla cui base si decide della loro appartenenza a classi e sottoclassi, mentre la considerazione della loro funzione nel contesto dato viene demandata a un altro tipo di analisi, nota col nome di ➔ analisi logica. Ora è risaputo come esistano in ogni lingua elementi policategoriali che appartengono a più classi: per questi non c’è dubbio che solo la considerazione della posizione e della funzione svolta nel contesto dato può sciogliere il dubbio sull’attribuzione categoriale. L’errore di non aver dato molto peso a questo aspetto del problema si riflette a catena nei cicli scolastici superiori: molti giovani universitari sono convinti che dopo è sempre e solo avverbio e che la è sempre e solo articolo (Voghera et al. 2005).
Sui contenuti dell’analisi grammaticale tradizionale vale la pena ricordare il saggio già citato di Renzi (1977), nel quale si conduce una dettagliata analisi dei criteri solitamente usati per l’identificazione delle categorie lessicali, passandole in rassegna una per una alla luce di quei criteri. La sua analisi, tendente non al rifiuto ma a un recupero ‘ragionevole’ delle categorie tradizionali, mostra l’insufficienza di alcuni strumenti, ad esempio il criterio nozionale-semantico per l’individuazione delle classi di parole (➔ parti del discorso). Renzi si pronuncia anche sulle singole categorie, con qualche utile consiglio: ad esempio è meglio a suo parere rinunciare a sostantivo (per nome), termine che «richiama un cascame filosofico medievale: l’idea che il Nome designi la Sostanza, in senso filosofico» (1977: 32); è opportuno anche evitare di definire pronome come «ciò che sta al posto di un nome», visto che non è sempre questo il caso; inoltre, a proposito dei pronomi personali, Renzi nota il diverso statuto del pronome di terza persona rispetto ai pronomi di prima e seconda, per i quali sostiene la necessità di introdurre la categoria della deissi (➔ deittici), utile anche per analizzare altri fenomeni dell’italiano (1977: 41); per quanto riguarda il verbo, sostiene la sostanziale tenuta delle distinzioni tradizionali, ma avanza l’idea che anche l’aspetto del verbo meriterebbe una qualche attenzione nella scuola, se non altro per rendere conto della distinzione tra due tempi del passato come ho pranzato e pranzavo; sull’avverbio infine ricorda che «non tutti gli avverbi modificano un verbo (o un aggettivo) [...]; certi modificano l’intera frase» (1977: 37).
Sull’onda di queste suggestioni, e con alle spalle trent’anni e più di ricerca grammaticale che ha profondamente mutato e arricchito le nostre conoscenze, i tempi sarebbero oggi maturi per procedere ad una radicale revisione dell’inventario tradizionale delle categorie e delle sottocategorie. Per ogni parte del discorso sarebbe giusto chiedersi: regge ancora? quali (nuove) distinzioni, quali (nuovi) accorpamenti, quali (nuove) terminologie vanno recepite e fatte oggetto di attenzione specifica nell’insegnamento? In una parola, come fare, oggi, analisi grammaticale?
Nell’analisi grammaticale tradizionale la categoria dell’aggettivo è tra le prime ad essere proposta all’attenzione dei bambini, cui vengono via via presentati i diversi tipi di aggettivi: qualificativi per primi, seguiti a ruota dai possessivi, dimostrativi, numerali e così via (➔ aggettivi). Nella tradizione occidentale si usa infatti lo stesso termine, aggettivo, per elementi tra loro molto diversi sul piano semantico, ma che hanno sul piano morfologico e distribuzionale una importante caratteristica comune, che è in definitiva ciò che unisce i diversi tipi: la vicinanza a (e dipendenza da) un nome, e l’accordo in genere e numero con esso. Normalmente però si sorvola sulle profonde differenze relative alla semantica, alla posizione e alla funzione delle diverse sottocategorie. Eppure persino un grammatico che non disdegna l’etichetta di ‘tradizionale’ (Serianni 1997) sente il bisogno di dividere la classe degli aggettivi in due sottoclassi ben definite: la sottoclasse degli aggettivi qualificativi e quella degli aggettivi determinativi. I primi sono descritti in un capitolo dal titolo L’aggettivo, e ne vengono ampiamente illustrate le caratteristiche (Serianni 1997: 135-156):
(a) sono una classe aperta a nuove formazioni;
(b) esprimono genericamente una qualità (aspetto, colore, forma, grandezza, ecc.);
(c) possono occorrere sia in posizione pre-nominale (una bella ragazza) che post-nominale (una ragazza bella);
(d) in genere sono graduabili (una ragazza più / meno bella, bellissima).
Una particolare considerazione viene poi riservata a una sottoclasse particolare degli aggettivi qualificativi, vale a dire gli aggettivi di relazione (➔ relazione, aggettivi di) ‒ sono aggettivi derivati da nomi del tipo nazionale, filosofico, ecc. ‒ i quali esibiscono comportamenti particolari.
Gli aggettivi determinativi, chiamati anche pronominali e comprendenti i dimostrativi, i numerali, gli indefiniti, gli interrogativi, gli esclamativi e i possessivi, vengono trattati in due diversi capitoli intitolati Numerali (Serianni 1997: 157-167) e Pronomi e aggettivi pronominali (Serianni 1997: 168-230). Questo secondo gruppo di aggettivi presenta caratteristiche che li contraddistinguono nettamente dagli aggettivi qualificativi perché:
(a) sono una lista chiusa, indisponibili a nuove entrate;
(b) aggiungono al nome informazioni relative alla definitezza e alla quantificazione della sua referenza;
(c) occorrono sempre – quasi sempre – in posizione pre-nominale;
(d) non sono graduabili.
Questa sistemazione si ritrova anche in Patota (2006: 73), che chiama senz’altro pronominali gli aggettivi determinativi, per la loro caratteristica di poter occorrere anche senza nome, come sostituenti del nome, quindi come pronomi. Graffi (1994: 44) si spinge ancora più in là:
Dato che tanto gli ‘aggettivi’ quanto i ‘pronomi’ dimostrativi svolgono la stessa funzione, che è quella di specificare alcune caratteristiche dell’entità a cui ci si riferisce (lontananza o vicinanza rispetto a chi parla o a chi ascolta, ecc.), ci pare preferibile non considerare queste parole come appartenenti a classi diverse (e quindi identiche soltanto per il suono), ma al contrario come un unico tipo di determinanti, caratterizzati dalla proprietà di poter essere seguiti o meno da un nome. Perciò noi collochiamo in un’unica classe, quella dei determinanti, le parole che nella grammatica tradizionale sono assegnate a tre classi diverse (articoli, aggettivi e pronomi).
Sulla falsariga di questa proposta, Andorno (2003: 19) accorpa in una categoria che chiama degli specificatori tutti gli elementi che
(a) condividono la stessa posizione pre-nominale (i bambini/ questi bambini/ alcuni bambini/ tre bambini/ quali bambini?/ quanti bambini!);
(b) sono in distribuzione complementare, cioè la presenza di uno degli elementi esclude la presenza degli altri (*i questi bambini/ *quegli alcuni uomini/ *questi quanti uomini?).
Occupano dunque una posizione particolare i possessivi, che, come gli aggettivi qualificativi, possono occorrere con ciascuno degli elementi della categoria (un mio amico/ questo mio amico/ alcuni miei amici/ quanti miei amici!), sia in posizione pre-nominale che post-nominale (un mio amico/ un amico mio). E tuttavia, sia Graffi sia Prandi sia Andorno continuano a parlare di articoli, a loro volta suddivisi in tre sottoclassi (determinativi, indeterminativi e partitivi), e notano una importante particolarità dell’articolo, di non poter occorrere in isolamento, essendo, fra tutti gli elementi della nuova categoria (determinanti o specificatori che dir si voglia), i meno autonomi, quelli che non possono mai occorrere senza il nome. E infatti mentre possiamo dire o scrivere questo/ quello mi piace molto, o tanti sono stati bocciati, o quanti hanno risposto?, non possiamo per nessuna ragione dire o scrivere *il/ un mi piace molto.
Dovrebbe a questo punto risultare chiaro che, come in generale i linguisti non sono mai arrivati a dubitare della utilità di raggruppare le parole in classi e sottoclassi distinte, così nessun critico, per quanto radicale, dell’analisi grammaticale tradizionale è arrivato a proporne l’eliminazione dal curricolo scolastico di riflessione sulla lingua. Tuttavia, così come è oggi generalmente praticata, l’analisi grammaticale presenta più difetti che meriti. Dei primi si è già detto, ma è opportuno ribadire almeno due punti. La mania definitoria e classificatoria che contraddistingue troppo spesso questo esercizio scolastico è per lo più fondata su partizioni che sono state nel frattempo – lo abbiamo visto – ampiamente discusse e almeno in parte ridefinite. L’auspicio è che il mondo della scuola si accorga di questo lavorio e introduca almeno le precisazioni e i correttivi necessari a discriminare, con maggiore fondatezza scientifica, le diverse classi, ed eventualmente sottoclassi, di parole.
Pesa poi sull’analisi grammaticale la sua collocazione nel curricolo scolastico, dove costituisce il primo incontro sistematico con la riflessione metalinguistica, che nella scuola italiana si colloca molto presto, tra la seconda e la terza classe elementare. Per espressa indicazione dei programmi scolastici di italiano degli ultimi 150 anni (Balboni 2009), la riflessione sulla morfosintassi si fa cominciare con l’esercizio del riconoscimento e connessa denominazione delle parti variabili e invariabili del discorso. Tale esercizio, assegnato e circoscritto al ciclo elementare, non viene più ripreso nei cicli superiori, per i quali si danno in genere indicazioni relative ad altri livelli di analisi, della frase semplice e complessa, probabilmente considerati più impegnativi. Questo significa che le distinzioni più fini, o più problematiche, o vengono proposte troppo presto a bambini che non hanno ancora i mezzi cognitivi e linguistici per recepirle, o vengono sistematicamente ignorate (sulle persistenti difficoltà nel riconoscimento del nome, si vedano ad es. Lo Duca et al. 2009 e Lo Duca & Polato 2009). Da qui l’ignoranza grammaticale dei giovani, da tanti denunciata.
Il merito principale dell’analisi grammaticale potrebbe essere quello di esercitare i bambini all’osservazione e al ritrovamento delle somiglianze e delle differenze tra le parole: ma a patto che non si trasformi in pedanteria classificatoria e non diventi quella «babele che fa perder la bussola a maestri e discepoli, e toglie (che è peggio) ogni efficacia educativa alla classificazione» (sono le parole, datate 1894, di due autorevoli grammatici di scuola manzoniana, Luigi Moranti e Giulio Cappuccini, cit. da Serianni 2006: 26). L’analisi grammaticale potrebbe invece essere totalmente recuperata a una nuova dignità se diventasse (Lo Duca 20042):
(a) esercizio di osservazione e confronto dei dati linguistici;
(b) ricerca e ritrovamento delle somiglianze e delle differenze fra i dati;
(c) ordinamento del materiale lessicale in gruppi e sottogruppi sulla base di criteri chiaramente definiti e continuamente verificati;
(d) attenzione alle posizioni generalmente occupate dagli elementi nella catena parlata;
(e) infine, scoperta delle funzioni (pragmatiche, sintattiche) cui ciascun gruppo o sottogruppo sembri prioritariamente dedicato.
Così intesa l’analisi grammaticale aiuta la crescita cognitiva dell’allievo, abituandolo a risalire dalle particolarità e frammentazioni dei dati a forme sempre più complesse di generalizzazioni e astrazioni concettuali.
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