analfabetismo e alfabetizzazione
Analfabetismo indica la condizione di chi non conosce e non sa usare l’alfabeto né per leggere né per scrivere, e dunque dispone solo della lingua parlata. Alfabetismo indica, all’opposto, la conoscenza dell’alfabeto e la capacità almeno di leggere. Quanto a quella di scrivere (che oggi si acquisisce contestualmente al leggere) un tempo era invece acquisita separatamente e non da tutti, e dunque poteva accadere che una persona sapesse leggere, ma non scrivere.
Con alfabetizzazione si intende, in un’accezione più specifica, il processo con il quale una persona o un gruppo di persone perviene a usare l’alfabeto per leggere, ed eventualmente per scrivere; dunque modalità, strumenti e tecniche di insegnamento e di apprendimento del leggere e dello scrivere (per es. corsi di alfabetizzazione per adulti).
Le capacità quanto meno di leggere, e tanto più anche di scrivere, già nei secoli passati (quand6o, come si dirà, gran parte della popolazione era analfabeta) sono state ritenute importanti e raccomandate, per molte ragioni (Cressy 1980), legate anzitutto alla vita economica dei singoli: redigere ricevute, stendere contratti, fare conti, tenere corrispondenza, annotare debiti e crediti, fare testamento, rappresentavano elementi di utilità tale che non di rado anche chi era analfabeta ricorreva all’opera di alfabeti per farsi registrare in un libricino debiti e crediti, pagamenti e riscossioni. È il caso di Maddalena, pizzicarola in Trastevere nel primo Cinquecento (Petrucci 1978), ma anche di Benedetto, contadino senese di fine Quattrocento (Balestracci 1984).
Con il primo Cinquecento, col diffondersi del protestantesimo e della ripresa cattolica (anche prima del Concilio di Trento), con la possibilità di leggere testi religiosi, e soprattutto la parola di Dio o il catechismo, con l’organizzazione, da parte di tutte le Chiese, di una catechesi di massa, si moltiplicarono gli inviti a saper quanto meno leggere, e tutte le confessioni religiose promossero intense campagne di alfabetizzazione con l’istituzione di molte scuole e l’invenzione di modalità diverse e nuove per imparare (Toscani 1984; Turrini 1982). L’alfabetismo fu ritenuto importante anche per ragioni politiche: chi sapeva leggere poteva aver accesso alla pubblicistica politica, anche e soprattutto a quella più diffusa e popolare. Basti pensare all’enorme diffusione di fogli o pamphlet politici nel primo Seicento inglese (Cressy 1980) e analogamente poi, durante la rivoluzione francese (Furet & Ozouf 1977).
Così, per ragioni diverse (economiche, religiose, politiche o altro) in passato in varie epoche e luoghi furono promosse campagne di alfabetizzazione e di incremento della rete di scuole, da parte di vari soggetti (delle comunità locali, delle Chiese, molto meno degli stati, almeno fino al secondo Settecento) che dallo sviluppo dell’alfabetismo si ripromettevano volta a volta sviluppo economico, radicamento e purificazione della vita religiosa e dei costumi, un costume sociale più ordinato e produttivo. Per queste ragioni il livello di alfabetismo di un paese poté essere considerato come uno degli indicatori del suo livello di sviluppo.
Se per le società contemporanee si dispone di tecniche, metodi e strumenti che danno risultati rapidi, alquanto precisi e sicuri e confrontabili paese per paese, per il passato occorre far ricorso a fonti e metodi che possono lasciare margini di incertezza anche non piccoli e che, soprattutto, non sempre sono omogenei.
C’è chi fa ricorso alle firme (o alle croci) in calce ai testamenti, conservati in grande abbondanza negli archivi notarili di tutta Europa. Così è possibile quantificare i testatori alfabeti. Si deve però considerare che i testamenti non sono redatti da tutti: chi è povero o poverissimo non solo non può pagare il notaio, ma non ha nulla o quasi da lasciare in eredità. La fonte è dunque socialmente connotata e può al massimo illuminarci sull’alfabetismo dei ceti abbienti, notoriamente minoritari nella società, senza dire poi che, anche nei ceti medi, non pochi morivano intestati (senza aver fatto testamento).
Più sicura, perché meno socialmente connotata, è la fonte rappresentata dalle testimonianze negli atti dei processi, davanti ai tribunali. È evidente che i testimoni di un misfatto possono essere anche poveri, donne, miserabili, e che dunque le deposizioni vengono da persone di tutte le classi sociali.
Alcune fonti sono utili per conoscere il livello di alfabetismo di taluni settori della popolazione, ma solo di quelli: così quando nel Settecento nella Lombardia austriaca si procedette all’esecuzione del catasto teresiano, e nel Regno di Napoli al catasto onciario, tutti i proprietari o i coltivatori di terreni altrui dovettero presentare una dichiarazione dei beni e sottoscriverla, con firma autografa o croce, con attestazione notarile. Possiamo così conoscere il livello di alfabetismo dei proprietari e dei conduttori di fondi (una categoria, e certo non la più numerosa).
La fonte più utile, e tale da permettere sicure comparazioni, dovrebbe essere universale (cioè non socialmente connotata, ma espressione di tutte le classi sociali), diretta (e cioè messa in atto dagli stessi interessati, e non attraverso la mediazione del notaio), e standard (cioè avente caratteristiche identiche nei vari paesi e nelle singole località) (Schofield 1968). Tale fonte universale, standard e diretta è stata individuata negli atti di matrimonio, che gli sposi sottoscrivono con la firma o con la croce.
Procedendo nel corso dell’Ottocento le fonti si fanno più numerose e sicure (redatte cioè con maggiore precisione e secondo modalità che la legge definisce). Così nel nostro paese gli atti dello stato civile, ma anche i registri della leva militare, che non pochi stati preunitari istituiscono e conservano (Regno di Sardegna, Regno Lombardo Veneto, Granducato di Toscana, Regno di Napoli) e infine i censimenti, che lo Stato unitario dal 1861 effettua regolarmente ogni dieci anni. Con i registri dell’ufficio di leva e con le rilevazioni dei censimenti siamo anche informati non solo sulla capacità di scrivere (dei coscritti nel primo caso, di tutti i cittadini e le cittadine nel secondo) ma anche su quella di leggere. Possiamo così conoscere quanti sanno leggere ma non scrivere. Tale fascia di popolazione (capace solo di leggere) nella seconda metà dell’Ottocento ha una sua modesta ma non infima consistenza; è maggiore per le donne che non per gli uomini, e decresce progressivamente nel tempo, ma rappresenta l’interessante spia di un fenomeno che nei secoli XVII e XVIII era probabilmente assai più consistente, anche per i maschi, ma che non è altrimenti misurabile, benché attestato da fonti narrative e testimonianze di varia natura.
Oggi il nostro paese e gli altri paesi europei sono universalmente alfabeti. L’analfabetismo è ridotto a percentuali bassissime (alcune unità per cento) e fisiologiche, tenendo conto di immigrati da paesi del terzo mondo e dell’esistenza di un numero limitato di persone di ridotte capacità intellettive. Agli inizi dell’età moderna, al contrario, l’analfabetismo era prevalente e grandemente diffuso. In meno di quattro secoli la situazione si è ribaltata totalmente, e ciò che attira l’interesse degli studiosi è la transizione, le sue fasi, le ragioni e le conseguenze. Con che ritmi, come e perché l’analfabetismo è crollato, e con quali conseguenze economiche, sociali, culturali? Dove è crollato prima e dove dopo? Quali ceti si sono alfabetizzati più rapidamente?
Sono stati individuati e analizzati alcuni caratteri strutturali significativi e pressoché universalmente diffusi dell’alfabetismo, e in primo luogo il fatto che esso è socialmente stratificato.
Già dal primo Cinquecento l’alta nobiltà, il clero, i professionisti (notai, medici) e i mercanti ricchi sono alfabeti, la piccola nobiltà, gli artigiani di buon livello, i negozianti e i contadini ricchi lo sono in misura minore (spesso molto minore), mentre i contadini poveri, gli umili lavoranti delle città e i servi sono pressoché totalmente analfabeti. Il divario tra ceto e ceto diminuisce nel tempo e già alla fine del Settecento e nel primo Ottocento è fortemente ridotto, specie per le categorie sociali intermedie, che raggiungono più elevati livelli di alfabetismo. Non mancano tuttavia eccezioni, e casi di particolare interesse: la nobiltà del Nord dell’Inghilterra alla fine del Cinquecento è alfabeta solo per la metà (Cressy 1980); i pastori transumanti della Lombardia del secondo Settecento sono alfabeti per oltre il 90% (Toscani 1993); i trend di crescita dell’alfabetismo dei vari ceti sociali non sono affatto lineari nel tempo e alternano fasi di crescita e fasi di recessione; il settore manifatturiero non è sempre più alfabeta del settore agricolo: i piccoli proprietari possono essere più alfabeti di parte degli artigiani.
Altro fattore strutturale è la differenza tra uomini e donne, con la netta superiorità dei livelli di alfabetismo maschile. Questo si verifica dovunque e sempre, naturalmente a parità di ceto sociale, e dato dunque per scontato che le donne dei ceti superiori possono essere più alfabete degli uomini che esercitano i lavori più umili. Appena la situazione lo consente, le donne mostrano però capacità di recupero molto elevate, e non di rado superiori a quelle degli uomini. In tutta Europa alle fasi di sviluppo dell’alfabetismo maschile seguono subito spinte all’incremento dell’alfabetismo femminile e nelle fasi di sviluppo generalizzato, sia di uomini che di donne (questo accade in particolare nella prima metà dell’Ottocento, quando gli stati diffondono le scuole per i due sessi), le donne fanno registrare tassi di incremento dell’alfabetismo nettamente superiori (Furet & Ozouf 1977; Toscani 1999).
Terzo carattere strutturale è il fatto che le città sono più alfabete delle campagne. Si possono tuttavia registrare casi diversi: alcuni contadi vedono la presenza di attività artigianali diffuse e qualificate, di una piccola proprietà contadina attiva e intraprendente e hanno livelli di alfabetismo pari a quelli dei capoluoghi: è il caso delle campagne dell’alta Lombardia in età napoleonica (Toscani 1992 e 1993).
Le città non sono ambienti omogenei: a quartieri nobili si affiancano quartieri artigianali e altri più popolari, dove vivono ortolani, barcaioli, carrettieri, miserabili, immigrati. I quartieri fanno registrare tassi di alfabetismo molto diversi, e può capitare che in determinate fasi della vita economica della città si verifichi alla periferia un grande afflusso di immigrati dalla campagna, così da determinare un forte aumento della popolazione urbana, ma anche un notevole crollo del livello globale di alfabetismo della città, presa nel suo insieme. Ciò accadde ad es. a Brest nel Settecento (Quéniart 1978), ma anche a Pavia all’inizio dell’Ottocento (Toscani 1992).
La moltiplicazione degli studi su singole regioni o paesi, e per epoche diverse, ha indotto taluni a tentare comparazioni sull’arco temporale dell’età moderna e fino alla fine dell’Ottocento (Graff 1987; Cipolla 1969). La comparazione non è facile, perché non si dispone delle stesse fonti per i vari paesi e per le diverse epoche. Per l’Inghilterra del Seicento e del Settecento le fonti sono i giuramenti di fedeltà dei sudditi alla corona o le deposizioni nei tribunali (Cressy 1980; Houston 1982a, 1982b), mentre per la Francia dalla metà del Seicento si dispone degli atti di matrimonio (Furet & Ozouf 1977, Quéniart 1978) e per la Svezia dalla fine del Seicento si possono utilizzare i registri degli esami di lettura, ma non documenti sulla capacità di scrivere (Johansson 1981).
Per varie regioni dell’Italia del Settecento si può ricorrere alle firme sui testamenti, o sulle dichiarazioni di proprietà del catasto (Delille 1989; Pelizzari 1989 a), in qualche caso agli atti di costituzione delle doti (Duglio 1971). Il fatto ha sollecitato interpretazioni differenti e una discussione aperta, che ha avuto sviluppi significativi.
Una prima analisi delle differenze nazionali e regionali si ebbe con il celebre libro di C.M. Cipolla Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale (1971, ma prima ed. ingl. 1969). L’autore muoveva dall’osservazione che i paesi più alfabeti, secondo le statistiche ministeriali della fine dell’Ottocento, erano i paesi dell’Europa del Nord-Ovest (Germania, Inghilterra, Scozia, Belgio, Olanda, Francia), i più industrializzati, e pressoché tutti di tradizione protestante, o largamente influenzata dal protestantesimo. Poté così formulare l’ipotesi che l’industria (e lo sviluppo economico) abbiano favorito o addirittura richiesto e causato un maggiore alfabetismo e istruzione anche nella classe operaia e nei ceti umili lavoratori, e che il protestantesimo, con l’insistenza tipica sul dovere di accesso personale alla parola di Dio, sia stato uno stimolo determinante perché le persone frequentassero le scuole, e le autorità pubbliche le istituissero con abbondanza.
Allora Cipolla poteva disporre di un numero relativamente limitato di studi regionali e nazionali, quasi tutti su paesi nordici e protestanti. Per le altre aree d’Europa (meridionali, centrali, orientali e di tradizione religiosa non protestante) gli studi erano pochi. Nel corso dei decenni successivi si moltiplicarono studi su altre aree dell’Europa, che modificarono profondamente la comprensione del fenomeno e portarono a una revisione delle ipotesi di Cipolla. Si scoprì che molte regioni non industriali (la Svezia del Seicento e del Settecento, l’Austria, la Polonia, parte dell’Italia del Nord con Lombardia e Trentino, alcuni cantoni svizzeri, parte della Francia del Nord) erano altrettanto e più alfabete di regioni industriali inglesi e che anzi la prima fase della industrializzazione in Inghilterra aveva indotto una diminuzione dell’alfabetismo nei ceti popolari, costretti a nuovi ritmi di lavoro, e all’impiego di ragazzi, che così non potevano frequentare le scuole. Si scoprì pure che aree cattoliche (Polonia, Belgio, Austria, Francia del Nord, cantoni svizzeri, parte dell’Italia del Nord) erano altrettanto alfabete che aree protestanti, e che anzi alcune regioni protestanti francesi o tedesche erano meno alfabete di regioni cattoliche. Si comprese così che il fattore religioso fu certo uno stimolo importante (sia per i protestanti che per i cattolici) ma che agì per tutte le confessioni e che si intrecciò con fattori economici e politici, con l’articolazione sociale delle città e delle regioni, con la politica scolastica delle autorità, la quale a sua volta è influenzata, ovviamente, dalla situazione socioeconomica e ‘culturale’ delle popolazioni che governa o amministra.
Il ruolo della politica scolastica degli stati è stato studiato, ma si è concluso per il carattere non demiurgico delle politiche scolastiche governative. Dagli ultimi decenni del Settecento quasi tutti gli stati europei ebbero una loro politica scolastica (diversa da Stato a Stato) i cui effetti vengono studiati, ma che appaiono, anche in uno stesso Stato, molto diversi da regione a regione, a seconda dei contesti socioeconomici locali. Anche le politiche più ‘aggressive’, come quelle giacobine francesi, ebbero differenti realizzazioni e effetti diversi da regione a regione, a seconda che l’offerta di scuole, promossa dallo Stato, incontrasse o meno la domanda di istruzione, espressa dalle popolazioni (Furet & Ozouf 1977). Nella Lombardia austriaca l’offerta di scuole, promossa da Maria Teresa e Giuseppe II, non ebbe sostanziali effetti nella bassa Lombardia, dove i figli dei salariati non le frequentarono, mentre li ebbe nell’alta Lombardia dell’artigianato e dell’emigrazione (Toscani 1993). Maggiore efficacia ebbero, nel corso dell’Ottocento, e fino alla prima guerra mondiale, politiche scolastiche sistematiche, con investimenti di spesa cospicui e con provvedimenti tesi a far rispettare l’obbligo scolastico. Politiche in tal senso, benché diverse, si ebbero dagli anni napoleonici in poi in tutti gli stati italiani preunitari, e dopo il 1861 in tutto il paese ma, anche in questo caso, con esiti diversi da regione a regione (Pazzaglia 1994 e 1999).
Pochissimi studi hanno tentato di misurare l’alfabetismo in città o regioni italiane del Cinquecento o del Seicento. Il catasto fiorentino del 1480 attesta che in una città di circa 70.000 abitanti oltre 1100 tra ragazzi e ragazze frequentavano scuole (Klapisch-Zuber 1984). Nella Venezia del tardo Cinquecento (150.000 abitanti circa) erano attivi più di 300 maestri, tra pubblici e privati, e le loro lezioni erano frequentate da più di 5000 alunni (Grendler 1989). Certo nelle campagne dobbiamo aspettarci frequenze minori, anche se la cosa andrebbe documentata. Nella Lecce della metà del Seicento, sulla base delle pratiche matrimoniali, si è potuto valutare che nobili, clero e professionisti fossero alfabeti al 96%, gli artigiani al 25%, i commercianti al 20% e gli agricoltori al 3% (Frascadore 1991).
Per il Settecento gli studi sono un po’ più numerosi, anche se le fonti non sono universali, standard e dirette. Nel Regno di Napoli le revele del catasto onciario (dichiarazioni di possesso di beni da parte dei proprietari, sottoscritte con firma o croce) attestano percentuali di firmanti che nei centri minori stanno tra il 5% e il 10%, mentre nelle località più popolose possono toccare anche il 15% o il 20% (Delille 1989; Pelizzari 1989). In non poche aree del Nord lombardo gli uomini sono alfabeti nella misura di circa il 45% e le donne del 10%, mentre nelle città si va dal 48% al 70% (Toscani 1999; Milanesi 1985). Per l’età napoleonica le notizie sono più numerose e più sicure perché si dispone della fonte rappresentata dagli atti di matrimonio. I dati disponibili attestano profonde disuguaglianze. In un’area delle Marche, città come Macerata fanno registrare il 31% di maschi adulti alfabeti e il 14% di donne che firmano, mentre nelle campagne ci si attesta al 15-18% per gli uomini e al 3-6% per le donne (Brambilla 1991). Questi livelli marchigiani non sono molto distanti da quelli della bassa Lombardia (20% per i maschi, 6-7% per le donne), ma sono abissalmente diversi da quelli dell’alta Lombardia (45-75% di alfabeti maschi, 10-20% di alfabete donne), mentre in tutte le città lombarde gli uomini firmano in percentuali che vanno dal 48 al 75% e le donne dal 30 al 45% (Toscani 1993).
Con i censimenti dell’Italia unita, a partire dal 1861, abbiamo finalmente dati per tutte le città e le campagne del paese, e con cadenza regolare e ravvicinata (per ogni decennio: 1861, 1871, 1881, …); possiamo così cogliere con uno sguardo d’insieme, ma anche con i dettagli desiderabili, le grandi diversità tra regione e regione, imputabili non solo alle diverse politiche scolastiche degli stati preunitari, ma anche alle profonde diversità dei contesti socioeconomici, e questo anche all’interno di uno stesso Stato, e quindi in presenza della stessa politica scolastica: il Nord della Lombardia appartiene allo stesso Regno Lombardo Veneto del Sud lombardo, eppure alfabeti e scuole nelle province di Bergamo e Como sono notevolmente superiori a quelli rilevati nel Cremonese o nel Lodigiano.
Così all’atto dell’Unità, e nei decenni successivi, il paese, politicamente unito, mostra tutti i crinali di divaricazione della storia preunitaria e le dinamiche di sviluppo, che pure mostrano un progressivo accostamento dei dati dell’alfabetismo di regioni prima tra loro molto distanti, non riescono a cancellare l’eredità di una storia che fu di profonde e perduranti divisioni (cfr. tabb. 1a e 1b).
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